umano e naturale


grazia, curiosità, invadenza


Posted By on Mar 30, 2016

Non spendiamo più quasi nulla. Si guardano ragazze sporgenti al parapetto. Il loro candore serve a non occuparci d’altro per ore e ore. Nessuno sa dire come si generi una ‘decisione’. O come si generi il non decidere. Decidere di stare là così. A non occuparsi di niente. A lasciarci offrire il florido candido sporgere.

Sbocciano i seni floridi dall’intreccio di ferro battuto. Serve a non lasciar cadere chi si offre.

Chi si offre deve avere. Avere la consistenza e non essere nuvola. Avere il non volere. Non volere essere ideale. Stare al proprio posto. Un posto mai suo. Sempre assegnato temporaneamente. Ma un luogo ineffabile.

Balconi. Promontori. Lingue di terra. Cime celesti. Banchine di cemento degli attracchi. E poi ci sono le pensiline delle stazioni. I bar di fronte alle fontane del centro. Il bordo di marmo liscio delle fontane: dove sedemmo con una mano dentro quell’acqua trasparente. E le parole che sgorgavano dalle labbra. L’archeologia monumentale. La testa vuota delle statue. Il ristorante in cima alla torre Eiffel.

C’è il ventre dell’orologio meccanico. La riproduzione, in scala inversa, degli ingranaggi di automi settecenteschi. Il camminare tra quelle ruote scattanti. Toccando il metallo che costruisce i secondi con lo sferragliare sommesso di molle e differenziali.

Scivoliamo furtivi nella macchina del tempo. E abitiamo provvisoriamente, i mesi di vacanza, la mente dell’automa costruita quasi uguale ad un orologio.

All’esplorazione si vede bene che l’idea che la cultura propone del tempo è, al confronto con i ‘dati’, misera e impoetica. E lo sforzo di chiarire la natura del tempo resta tuttora informe.

Bisogna camminare nelle grotte e nei cunicoli dei meccanismi di oreficeria, per capire. Bisogna percorrere le stanze piene di calcolatori valvole e magneti dentro la testa dei giganti di bronzo per recuperare il rispetto della indicibile complessità.

Bisogna risiedere, resistenti all’impazienza, in quell’ingombro elettromeccanico che provoca le decisioni degli automi. E muove le lancette sui quadranti degli orologi sparsi per il mondo.

Il tempo comincia prima del tempo percepito. Dunque è l’innocenza del non riuscire a volere. E il continente da cui partono le navi degli invasori. L’innocenza anticipa il gesto.

Arrivano ricchezze, attenzioni, invasioni di curiosi. Siamo noi i sognatori. Gli esseri incomprensibili ai loro occhi. Gli ‘automatici’ costruiti di ferro stoppa e pietre. Di grasso e frammenti di vetro.

In noi girano vecchie abitudini. Sotto alghe e sale incrostate nelle fibre di legno incatramato di un relitto arcaico. La nave respira in fondo all’oceano. Il motore filtra l’acqua salata cristallina. Alimenta primitive funzioni che generano da migliaia di anni il pensiero attuale.

Bisogna sperimentiare quello che accade all’inizio delle frasi. Cosa sostiene per ore il far niente degli spettatori. Cosa ci sia di gradevole nell’ammirare estatico i fianchi che ondeggiano sulla passeggiata a mare. Percé siamo così presi dall’inutile scialo di lavoro per piegare in intrecci il ferro della balaustra. Perché stiamo ore ad attendere l’offerta dei corpi che prima o poi si affacceranno da una delle finestre del Grand’Hotel.

Il tempo, prima che ne prendiamo coscienza, ci conferisce lo sguardo sognante di chi venne invaso da bellezze di là da venire. Da fuori si potrebbe dire che siamo ‘toccati’ dalla grazia. O dalla stoltezza.

Cosa è che rende fuori posto alcuni di noi nel mondo naturale del tempo che si ripete?

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