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le sere con l’aria addossso


Posted By on Apr 17, 2011

le sere con l’aria addossso

…resta a lungo le sere con l’aria addosso sulle braccia nude, e le parole che vengono su dalle punte delle dita fino alle spalle e al centro del torace, che sotto contiene i bronchi e solo parte del cuore, la curva del ventricolo destro, non di più. L’arco esterno del ventricolo destro si spinge oltre i bronchi verso la linea mediana ed ha molto a che fare con il respiro, in più è sostenuto dal diaframma e galleggia, fluttua su e giù, mettendosi sottosopra insieme a noi ad ogni sospiro. Le sere in cui si resta lungamente vicini hanno a che fare con l’anatomia e le funzioni della biologia, e con le spinte degli organi interni, quelle delle contrazioni cardiache e le due differenti spinte del respiro una sussultoria del diaframma e una trasversale, che insieme dilatano il volume del tessuto alveolare. L’aria addosso, il buio, il profumo, le palme delle tue mani, le risa e i pianti dei ragazzini e i papaveri nascosti nel grano fanno, da fuori e da ogni parte, una spinta differente .

L’aria esterna spinge la superficie cutanea, le estremità delle dita, le labbra al gelato di crema, i delicati incroci con mani delicate, i corpi resistenti dei cercatori sui monti dove nascono i fiumi, i loro sogni tragici sulla fine del mondo, i loro sogni felici sulla vittoria della battaglia e le immagini incomprensibili delle fantastiche immersioni nella pancia dei galeoni. L’aria esterna tiene sotto la sua pressione variabile le figure, l’orizzonte, il deserto, i cammelli, i guerrieri, questo spazio sconfinato, e la superficie senza ombre della steppa e  infine l’aria come una mano si accalca – che ha il disegno esteso dell’io altrimenti insondabile dell’uomo e della donna – intorno alla pelle del viso, delle dita successivamente fino alla pelle al sapore di gelato sui polsi e sulle braccia, dove distrattamente abbiamo lasciato gocciolare la crema densa e fredda che spumeggia al vertice del cono croccante. Il mondo intero – cadendo precipitoso da ogni parte del cielo – alla fine spinge su due gocce di sangue esplose silenziosamente nel microcosmo della linea tra la pelle forte del volto e la delicatezza del labbro inferiore.

Il sangue è perché c’è scappato un morso, per tacere e non rivelare il tuo nome che stavo per pronunciare – mentre leccavo con l’eccitazione di una fiera la montagna dolce – quando sei spuntata, tra la gente accalcata intorno alle vaschette gelate del distributore della menta e della panna, al momento meno opportuno. Sono corso alla cabina di legno e acciaio e rimasto accucciato nella scia bianca della barca che beccheggia al terremoto del respiro traverso e oscillante. Ho preso carta e penna poi tento un discorso vago sulla vitalità di base che non ha immagine,  sulla variazione dello stato fisico della biologia che le corrisponde ed è prima del pensiero. Sul pensiero che deriva dalla realtà materiale, dopo che essa ha acquisito la vitalità che è definitiva e irreversibile caratteristica umana di non rimanere inerte agli stimoli indifferenziati dell’aria esterna, della luce, del calore e del freddo cui opponiamo poi per sempre, fino alla fine, la costanza della scrittura senza un oggetto e l’invenzione di un amore di ragazza cui esprimere focosi dubbi, inutili gelosie, e invidie possenti. Metto insieme sostantivi ed aggettivi, femminile e maschile, creazione e decostruzione, per trascrivere la pressione dell’aria e del buio sulla pelle e gli occhi, la gradevolezza il profumo i veleni i ginepri amari, gli allori e le albicocche, il ginger assoluto, l’acuto di pino tra palato e faringe.

Tutto questo per reagire al sangue esploso sul labbro inferiore, all’incidente quasi mortale di un giorno senza te, alla disgrazia di un movimento freddo senza spine appena tiepide almeno, all’ingiustizia modesta e felicissima del mio desiderio pop, alla mia voglia postmoderna di noi come creme gelate dense e fredde. Il labbro aveva sanguinato perché eri comparsa all’improvviso, e l’aria esterna piena della tua figura densa e profumata aveva sussultato e spinto con grande pressione, cosicché io ero diventato poco significativamente romanzo di formazione e visione del mondo e tutta la cultura letteraria all’acqua di rose delle nostre aule scolastiche si era riversata addosso alla camicia di lino immacolato che siamo noi nella mia mente, e mi ero ritrovato con fregi delle isole tropicali sul torace. Dalle labbra appena sanguinanti tornavo all’inizio, a rotolare sul terreno di una anatomia e una topografia romantiche, all’umanesimo scientifico del cuore nel petto, alle olimpiadi acquatiche in cui tutti nuotano – finalmente agili nella mia illusoria rappresentazione – nel volume di un pensiero alla crema e cioccolata al caffè e ai frutti di bosco, nel mar rosso del pensiero di sangue e di profumo, nel mare vociante delle strade africane di questo attuale confuso risorgimento, in quel mare di poca imprevista allegria di rivoluzione cenciosa, che le piatte ragionevoli analisi degli accademici occidentali – quelli dell’impossibilità assoluta del desiderio – non avevano saputo prevedere.

Tutto si è svolto in poche battute delle nostre vite: la mia di cui sono testimone e certo anche la tua, seppure tu – nel corso dello svolgersi di questi pensieri – non sei mai stata qui se non nella traccia di un ricordo di una sera dell’estate scorsa. Questa ricreazione di noi  è una dimensione di attività umana, la tanto indagata vitalità che lega funzioni diverse per creare una profondità adatta a sentire la densità del tempo, per non lasciare la linea delle cose senza immagini ridotte a figure geometriche piatte come l’ombra degli obelischi, quando anche i palazzi delle accademie proiettano superfici scure di fronte alla nostra annoiata perplessità, nei giorni in cui siamo costretti a misurare il tempo seguendo nella polvere la rotazione delle ombre senza la potenza del volume. L’attrazione gravitazionale di tre gocce di sangue sul labbro fuga i fantasmi e conferma il passato:

” …la ricreazione di te nel ricordo ha il voluminoso significato del buio alla crema… “

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