contare


NewYork 2003 Elliott Erwitt/Magnum Photos (*)

nascere è cominciare a contare da zero

Prima quando lo zero non era un numero ma la notazione di un vuoto e di una perdita c’era l’idea che un ‘tale’ disamore non fosse realizzabile: si poteva pensare come cosa che nessuno avrebbe fatto mai. Nessuno o, in ogni caso, non ‘tu’. Non ‘noi’ che eravamo ‘tutti’. Prima questo. Poi la comprensione di una impossibilità diviene sospetto. È la composizione di polveri leggere neutrini e energia cosmica oscura che rende orribile il mistero precedente. È malattia di paura diffusa addosso a nessuno nell’arco della grotta. I fuggiaschi paiono pecore e agnelli buoni. Intanto però si forma il sospetto. La capacità di pensare l’impossibile toglie le garanzie di numerabilità e il conforto delle conclusioni. Un tuffo nell’oceano da altezze smisurate cadendo dal cielo e l’inverno si avvicina. Le braccia della ‘ragazza’ sono di ghiaccio. Il ‘suo’ arrivo raggela. Poter vedere suscita una rete grigia di relazioni. Si smette di chiedersi se sia possibile l’arresto del pensiero e ci si accorda al pensiero colto che riflette sull’angoscia del nulla… senza alcuna angoscia. Di contro per alcuni che poi si metteranno in azione contro il fatalismo il suono inizialmente ha effetti indesiderati ma nei sogni – per grazia di dio – il suono non entra. La mattina che raccontammo “… ho sognato che mi dicevi …” qualcuno rispose senza dubbi che erano preghiere. Catechismo per psicanalisti. Pedanterie. Un come la vita non è. Allora la vita che non è una serpe che si arrotola. Noi che non siamo tane e buchi di fango. Divento una ampia conca di risonanze e una tromba di guerra come suona lo svolgersi della lettura dei segni difficilissimi agli occhi fermi. Lo strumento che sono ha la parte anteriore del corpo di ottone risplendente a due passi dai nostri piedi. Il suono che via via nasce nella mia mente tra le pareti delle ossa temporali sbuca fuori laggiù irresponsabile come non fosse mai stato intenzione. Così è anche – per conformità dello sguardo pieno di comprensione – l’ascolto: una imperdonabile ammissione di libertà e silenzi. Una licenza gratuita che di sicuro – data la sua pretesa d’asssoluto amore – uccide ogni volta. Gli innocenti e gli innocui non sono preferibili per me tuttavia dato che non tollerano i segni del cinema muto dove l’omicidio la strage e l’ingiustizia hanno -come dicono loro minimizzando e negando l’imponenza della musica –  ‘solo’ la voce di un pianoforte. Fanno una vita al rallentatore tutta scatti ridicoli: autoritratti di se stessi un poco troppo somiglianti per prenderne eroica o ero(t)ica annotazione. Non c’è in noi di allora – e in quanti restano quelli che fummo – una differenza che almeno susciti un riguardare un momento solo l’onda di nuvole basse appena tarversato lo stretto di Magellano per risalire al nord e scaldarsi un poco.

Fu là che vidi – girato lo stretto – quello che ti è capitato. Un drago ti ha spalancato le fauci. Per te si è incantato nella bellezza assoluta della violenza che si arresta. Io svanivo. Tu guarivi. Non che la foresta fosse spogliata dalle cerimonie. Una volta che non ti eri opposta era il carattere globale di noi e il resto non conta e non c’è. Seppure non avessi saputo prospettarmi altro. Ora per quella ‘unicità’ lo scritto fotografa l’accordo del pianista mentre tu spari ai tuoi amanti trai quali sto anche io. Non è un gesto violento questo cinema muto. E so scrivere soprattutto che avevi guarito l’indecisione.

Il grido della nascita non conta. Distrae tutti. Uno si conta. Ma bisognerebbe essere sufficientemente coraggiosi e contare da zero. Prima di tutto la misura della materia disorganizzata. La spirale casuale di un pendolo che si arresta. Poi si nasce. La vita è tutto il resto.

La foto dell’articolo è in “Il Piccolo Libro dei Bambini” – ed. ‘Contrasto’ – Il titolo della foto è “NewYork, 2003” autore  Elliott Erwitt/Magnum Photos (tutti i diritti sono riservati)

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