deserti


Da quando ci sono queste dita appoggiate sul quaderno chiaro con la copertina nera il pensiero si è calmato. Le dita fanno un tetto e non piove più. Anche se mi pregassi di lasciar perdere è un moto di calma che si sviluppa. Dunque non prendertela. La massa cerebrale è materia senza un ordine esatto. Senza procedura. Può funzionare a patto che non si pretenda la predicibilità. Faccio il mestiere di dover stare sotto gli occhi di chi nel frattempo vuol capire. Mi mettono davanti a sé e raccontano. Il timore e l’imbarazzo durano poco. L’amore è una pretesa. Il transfert non fa eccezione. Se pensi che si impara non è vero te lo assicuro perché non si impara. E’ più complicato: bisogna cambiare. Distrarsi con sovrana affezione alla prassi e pretendere. Per anni vivi avvolto da una coperta di attenzioni. Non è male. Però finisce. Il declino dell’attenzione per gli anni che dura offre possibilità insperate di curarsi la vanità. Quando arrivano le mani e i fogli e le parole scritte è quasi tardi. E’ sera in ogni modo. Una sera dorata. Un rigo di letteratura. Gli eventi restano tutti perché non mi sono mai preoccupato di fissarne nessuno con la penna sui taccuini. Restano come la forma irriproducibile della sostanza cerebrale. Sono fatti solo appena sfiorati. Mai preteso di illuminare le cose che sostengono tutte le altre cose. Ciò che ha realtà di non coscienza resterà per sempre di quella natura. Sono le dita appoggiate sulle ali dei fogli del quaderno aperto. Un filo di letteratura quando l’odore della carta supera di gran lunga la qualità di quanto si riesce a comprendere.

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il pensiero razionale


Posted By on Set 30, 2011

il pensiero razionale

Il difetto del pensiero razionale, che è pensiero che esclude la fantasia, è di cercare l’errore del pensiero nelle narrazioni della storia. Nelle metafore del linguaggio che evita lo scontro con la realtà umana.

La difficoltà di fare medicina e chirurgia nel tessuto complesso del linguaggio è infatti la difficoltà specifica della cura di una assenza di conoscenza per cui si confonde una cosa con l’altra tollerando che suoni differenti comprendano la medesima immagine.

Invece: i movimenti delle figure del pensiero devono trovare l’attività di respirazione e fonazione specificamente necessarie a realizzare l’ espressione verbale di quei pensieri. Tale legame di corrispondenza deve restare.

Le sciagure storiche non spiegano il difetto del pensiero. La narrazione è ateorica. La clinica di una malattia ha come contrappunto una specifica realtà di opposizione affettuosa. Esattamente è che non ci sono metafore nella prassi d’amore.

L’odio dell’invidia è realtà umana di pensiero razionale. Non c’è idea di ricerca nella attribuzione di colpa giuridica al posto delle cause. C’é un legame irrazionale -non perseguibile- tra l’odio dell’omicidio e il sorriso di trionfale cinismo sul volto dell’eroe morente.

La scienza che disse che “il contenuto dell’invidia è l’odio” si legava immediatamente all’altra scoperta che permise il suono della frase: “l’invidia è negazione”. Poi specificò: ” l’ incurabilità della malattia è nella negazione della negazione medesima”.

La cultura non chiarisce la confusione -incomprensibile all’analisi della storia dei popoli-  tra spirituale e non materiale. In prassi articolate oltre ogni dire si realizza un primo momento di rifiuto che si sviluppa in una tensione di opposizione.

Si è detto: “C’è la realtà materiale delle cose e dei corpi e la realtà non materiale del pensiero: poi c’é la pulsione. Essa è esclusiva e specifica azione del pensiero quando esso non riesce più a definire lo spirituale come irrealtà.”

Ci si chiede in muto stupore se potrà formarsi una differente idea di cultura basata su una critica possibile dell’idea prevalente che una parte del pensiero sia posta dentro l’uomo dal Non Umano Esterno di una divinità.

 

 

 

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gli amanti cioé quello che siamo noi adesso

Per un’amorosa invidia, leggendo Certe Pagine Letterarie e scorrendo Capolavori, dico che è bello tutto quanto mi resta inaccessibile in proporzione ai miei difetti di comprensione. Amiamo -ognuno a proprio modo- quanto degli Altri ci resta indecifrabile che trasforma l’Orrore in Poesia.

Il Profondo Amore si alimenta con i frutti di corallo al miele che crescono nella Spianata dei Mostri, cosicché Noi Stessi siamo per l’altro il Pascolo delle Meraviglie. Apparteniamo a chi non si indigna della Libertà Generale e si eccita specialmente alla certezza che Anima e Corpo non sono allegorie, bensì promesse di vittoria sulle Grandezze Aleatrorie.

La passione per i sogni è tipica dei predatori che -contrariamente a quanto si afferma- non sono cattivi. Il campo di caccia è la Spianata dei Gigli, diciamo così. La Bellezza è l’unico loro terreno di scontro. Per altri ci sono spiaggia e pane unto e profumato: all’ombra. Non meglio né peggio gli Uni degli Altri, di fronte gli Uni agli Altri -seppure separati alla vita dalla Balaustra Blu- ci scappano baci e altro ancora.

Non Tutto è sangue -di fatto- perché manca la continuità e la vita rammenda le Cose in Sospeso con appassionata gravità ogni volta lasciando sulla Tela quelle figure di Merlettaie, di Donne e di Coniugi serafici, in stanze con luci lattee. Si ricordano disegni di mani libere in grembo a Madri Inoperose e mani più libere di Donne di Piacere custodi di preziosi animali. E’ -sempre- l’attitudine borghese all’Attesa e al Riposo. E’ l’arte che rammenda come -e anche peggio- della vita.

E’ attitudine dell’arte di mettere figure ineccepibili sopra il difetto di rappresentazione della coscienza. Attitudine né peggiore né migliore di tutto ciò che potevamo credergli -opponendoglielo- come migliore e peggiore. Sono Ritratti di donne, uomini, naviganti, cartografi, ottici, ambasciatori e banchieri. E’ il Manuale della Vita ai suoi albori e adesso ammettiamo che sia anche il Sospetto Irrisolto di tracce di pensieri risalenti ad epoche precedenti la memoria.

Adesso, che non è alla fine, siamo andati molto avanti nelle cose, e – per questo progredire comunque irresoluto – non si sa fare altro che passare la mano al bordo del letto di altre donne. Non figure d’arte ma Corpi Caldi e noi seduti lì come sentinelle al fuoco. Le donne hanno preso la loro Decisione: di amarci tutti, non avendo alcuno di noi -ai loro occhi- un Difetto Rilevante che possa placare la indecente generosità femminile. Il Sesso è la nostra coerenza.

Gli amanti – noi siamo definibili come amanti sostanzialmente- hanno questo: che suddividono la vita tra Lavoro e Piacere. E guai a chi non conosce i Santi Motivi della Partizione, perché non potrà mai scoprire che solo ad un certo punto è la grazia. Che l’inizio è soltanto sgraziata innocenza. Che dunque -poi- ci vuole altro.

Tra grazia e innocenza è ricerca.

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il sogno di Biancaneve

il nero il lavoro il destino e le donne

I lunghi cavi che portano l’energia per il suono e per i fari che tolgono il buio dalle spalle e la cenere del pentimento dai capelli stavano distesi nell’erba. Noi sopra vestiti in prevalenza di scuro per fare festa agli sconosciuti ai maghi che dovevano fare i suoni per raggruppare legare far sorridere aiutare togliere i mali della terra dalle mani dalla mente lasciar entrare l’aria dolce che saliva dal basso e arrivava anche dalla riga rossa del vento maestrale. Ora resta un silenzio di giorni muto come la densità ottusa e soda delle fibre muscolari attivate dal movimento delle pulizie fatte con gli amici nell’afa del giorno dopo. Le briciole di torte dolci e salate di formaggi verdure zuccheri sono note di quanto era successo. Vedo quanto scritto: prima viene il lavoro delle persone. Ora di nuovo c’è il lavoro di altre persone. ” Il lavoro al posto del destino” sto pensando. C’erano stati i maghi che avevano mosso l’aria col suono ma non so dire nulla perché il lavoro di prima dava anche in quel momento la opacità della coscienza la stanchezza che impedisce l’attenzione concentrata e resta solo il brusio accordato nell’idea che avevo ritrovato la felicità delle parole che ci scambiamo per anni le parole con le persone belle della ricerca. Non ho ascoltato la musica. Forse scoprirò che dovevo ascoltare e dovrò ascoltare in seguito: “ma non è neanche detto” mi concedo oggi.

La festa delle persone ha preceduto accolto contenuto protetto la festa dei suoni. Ma io non ho ascoltato nessun suono. Erano animali furetti volpi ricci sbucati dalla linea dei campi le persone ben vestite e curate e profumate come si deve sempre in una festa che è rispetto per l’interrsse di uno o più sconosciuti. Erano animali intelligenti furetti volpi ricci scoiattoli barbagianni istrici e lepri nella radura di Biancaneve, sbucate tutte insieme dalla linea delle torce per la guerra alle zanzare che restassero lontane oltre noi sopra i campi incolti, le persone ben vestite e curate e profumate per assaggiare notizie di parole riguardo al pomeriggio alle musiche. “Chi sono? Racconteranno una storia!” Non erano certo là solo per le pietanze. Forse le persone belle, sbucate dalle auto lasciate ai margini della radura polverosa, oltre il prato, mi hanno sedotto. E non ho saputo notare altro. Non ho ascoltato se i musicisti hanno raccontato la loro storia, il loro lavoro, le parole -offerte per essere morse mangiate leccate e assaggiate- saporite, per offrirsi ad un tradimento d’amore, ad una seduzione riguardo alla curiosità, al desiderio per i suoni e la loro origine. Non ho ascoltato perché, forse, non c’erano queste parole da scoltare per togliersi il desiderio di sapere. “Allora – mi dico – il poco aiuto, per servire quelle persone affamate di sapori, e la solita facilità di stare insieme agli altri per la felicità delle parole che vengono su, come gli gnocchi alla esplosione del bollore, hanno prevalso anche sulla musica.”

È durata la musica: accolta dal buio caldo dello stare insieme legati con le parole. Si notava il riflesso del lavoro dall’interno del casolare profumato, e tutto quel lavoro rotolava sui tavoli provocando le scelte. Si notava, fuori, la bellezza del nero, delle luci, dei cavi svolti a terra per assicurare l’alimentazione delle sezioni ritmiche. (I maghi, per quel che ne sappiamo adesso, avevano deciso che invece i fiati avrebbero avuto maggiore libertà.) Io anche, per il mio piacere, avevo deciso di guardare vicini gli occhi delle donne che fanno la ricerca, venute apposta per essere rapite da eventuale fascino delle persone: venute a cercare il lavoro persino dove è più rischioso fino a perdersi: nella religione dei suoni. Però non ho chiesto ” Ti piace?” : perché non ascoltavo più nessuna musica, perché già ridevamo raccontando di noi, delle nostre facce, e correvamo sulla musica come su un prato, con i serpenti neri dei cavi di alimentazione innocui ai nostri piedi, come serpenti senza veleno quando il desiderio non si teme e si soddisfa…. Posso dire di noi che eravamo tutti sorrisi elettrici e lampi di gioia ad orologeria. I maghi li ho intravisti: tutti raccolti tra loro, nella camicia sgargiante dei suoni: distinti e distanti da tutti. Non so dire nulla. Nella mia idea della faccenda -perché magari tutto si è svolto in altro modo- ho preferito lasciare tutti così distinti e distanti. Senza voler sapere se era tutto quel nero dei nostri vestiti che ci aveva già fatti noi distanti da tutti. Senza sapere cosa fosse la musica quella notte. Le persone sedute ad ascoltare, cioé noi vestiti in prevalenza di scuro per fare festa e i furetti le volpi i ricci sbucati dalla linea dei campi le persone ben vestite e curate e profumate come si deve sempre in una festa che è rispetto per l’interesse…

….o le persone eteree, i maghi, distinti sempre in sinfonici accordi reciproci, ma sempre allora -nell’addensarsi del nero del cielo- così distanti. Vedevo i tempi differenti. Restituiti e misurati. “Ora possiamo tornare a lavorare con amore anche noi distinti differenti distanti con infinita attenzione” ho pensato. Camminavano le persone a prendere le cose da mangiare e arrivavano ai tavoli piene di ghiotta curiosità ed io sentivo irresistibile la bellezza indecente del gusto di piacere e non ascoltavo la musica. Il lavoro sul prato aveva disposto desiderio e seduzione: ero felice che fossero in prevalenza donne, donne in sfacciata prevalenza a denunciare la deludente sordità maschile alla procacità. Si allungano le mani e si è preso tutto quanto: i sorrisi, le intenzioni evidenti, i polsi profumati. Si saranno in un attimo affondate le labbra nella crema della concessione e i maghi si bastano sempre ed io ero così distante che non mi basto mai. Ed ero così felice perché penso che quella differenza lascia libere le persone. Sentirò nelle registrazioni che i fonici ( fate conto il gatto e la volpe scaltri e defilati ) dovrebbero aver catturato l’eco di quanto è entrato nell’anima senza passare per la coscienza. Poco a poco vedrò meglio ma non tutto perché nel tempo le cose saranno svanite.

I maghi distanti tutti raccolti gli uni accanto agli altri tengono il loro segreto. Linguaggio e musica si sono avvicinati un attimo poi separati. Solo poche ore prima i maghi erano al lavoro: deponevano cavi neri per l’alimentazione sembravano operai al servizio della creazione del suono adatto. Poi via via che il buio scendeva trovavano una chiusura forse necessaria. Io restavo felice nell’amore per il lavoro che precipitava con i profumi dall’interno del casale antico e si legava bene con i sorrisi e le voci dei camerieri improvvisati e con le infinite scuse di seduzione che tutti sapevano inventarsi. Dopo, al momento della musica, credo di aver scelto di non ascoltare perché ricordo solo volti di donne e sorrisi e le creme profumate di idee di concessioni sempre possibili.

Una voce di donna ha insistito fino a che il tramonto se l’è portata via e nel buio hanno iniziato a cantare i grilli. Io guardavo il fondo del catino della notte e ricordavo che per me il nero è l’eleganza della necessità, la forma di chi si sente libero nel rispettare l’obbedienza alle regole. Non mi chiedo più se possa avere una qualche ragione chi trova la forza di una ragione nell’annullamento delle ricerche indispensabili. Ricomincio a cercare da qui: avevamo accennato qualche sera prima se si dovesse provare a sviluppare la questione della minorità assoluta delle donne nelle sessioni di musicisti erranti: quasi ci fosse un problema una fobia una incompatibilità attuale. Chissà!?

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io non so cos’è la musica


Posted By on Ago 14, 2011

io non so cos’è la musica

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire i sapienti addetti agitavano i piedi intorno al piano di acciaio della cucina e tenevano immobili la lingua e liberi i pensieri ed era vietato riflettere così le mani andavano chiare a segno e i coltelli tagliavano sottili le verdure e i polsi agitavano con ritmo di galoppo le salse fino alla densità di una cadenza di mieli colorati. Miele è dunque la parola che chiarirà il crepuscolo di domani e terrà insieme i componenti del giorno e della notte attraverso il brusio delle voci la lieve masticazione delle cose già quasi del tutto digerite dalle cotture e dalle macerazioni e soprattutto la materia delicata ma inequivocabile degli affetti in libertà riguardo al cuore e alla pancia accalorata e alla pelle rossa di sole e a tutto il resto della vita che arriva puntuale negli appuntamenti serali come si sa a proposito della vita di giovinezza perdurante delle ragazze e dei ragazzi che sono accorsi incerti e trafelati alle sponde del prato.

Il prato è un catino magro e disteso come il corpo di un re giovane affannato dalle corse notturne e dalla febbre e della febbre c’è traccia in qualche albero marittimo posato contro la malaria ma non era bastato da solo. Febbre è la seconda parola insieme a miele ed ha la stessa densità del miele la febbre dalle nostra parti. Dalle nostre parti il plasmodio migrava chiuso nascosto nei globuli rossi di zanzare e pastori e non faceva distinzione e si doveva essere matti a restare. Però si restava. Una razza di resistenti difficili a persuadere a non essere quello che siamo. Le ragazze e i ragazzi qui affittano i crepuscoli con le zanzare di corredo. La musica non serve qua perché regna il vento a soffi acuti – di traverso alla costa: il vento non viene mai di fronte – a perpendicolo del litorale. I musicisti non sanno del vento qua. Studiavano il verso cui disporsi – con il viso obliquo ad un muro: per i fiati, che non sprofondino nell’assenza assoluta di eco. Eco è la terza parola.

La notte della musica bisogna rappresentarsela come una febbre terzana o quartana, una febbre che è arrivata attesa ma sorprendente nella propria potenza, ed evoca il corpo tutto intero pronto a subire: ci vuole coraggio nelle cose, soprattutto alla bellezza. Alla malaria della bellezza, all’invasione dei plasmodi che poi sciamano e affondano  nelle vie venose, allagandoci d’amori plurimi e inafferrabili. Vedrai che tutti ad un certo punto si separeranno da tutto – e saranno finalmente se stessi in una valutazione mentale di conoscenza che poi ce li porterà di nuovo di fronte – e diremo che gli alberi marittimi saranno stati i testimoni di nozze ardenti tra ogni persona e i propri segreti pensieri d’amore. Mordendo gli sformati e il dolce alla ricotta e cioccolato – nel catino magro del prato – gli verranno alla vista come un’illusione guerre di zanzare e regine e barche nel fango profumato – e avranno voglia di essere tutti diversi. Avranno pudore della loro temperatura non proprio ardente e solo i morenti di febbre malarica saranno al loro posto e metteranno a soqquadro le passioni modeste dei senza cuore.

La malaria antica ora lascia solo qualche sortilegio crepuscolare – qualche mattutina evanescenza in brividi e d’altra parte se si vuole dire qualcosa della musica non si può restare lontani dai brividi e dai fremiti e dalla concretezza delle parole riferite alla medicina delle vene e della milza – del bacino – del ventre. E della fonte miracolosa della spuma di mare presente nelle circonvoluzioni cerebrali che – del biancore mattutino – hanno chiazze diffuse in superficie. Ma delle schiume d’uova e burro, e delle foreste subtropicali delle verdure tritate rapprese cotte strigliate e ricolorate negli estratti di carne e albume, e delle mani e dei polsi dei cuochi attenti: di tutto questo si deve aggiungere. Come corsari -che si precipitano sui galeoni impacciati e tronfi di inutili ricchezze- si deve raccontarne precipitosamente a perdifiato. Dei re smunti ispidi di barbe nere di ormoni dell’arroganza e del comando ma smagriti da tradimenti e prime notti bisogna dire per narrare la mitica eleganza delle preferenze erotiche dei cuochi che essi fanno coagulare nelle loro speciali preparazioni le quali devono predisporre lo sfarzo che preluda al gusto del suono. Il suono in parte precipiterà dalla collina.

Tutto si deve svolgere sotto l’elegante silenzio delle ore interminabili dell’estinzione della luce nel cielo mentre il giorno finisce in una esplosione di buio ardente: un eco ribollente sotto la linea di oscurità – in una pentola capovolta che ha sopra la luce del giorno che pesa e preme. Febbre e miele ed eco. Molti allora si ammalano un’altra volta. La febbre torna secondo la propagazione degli agenti infettivi e scatena brividi di piacere subito prima dello svenimento isterico della coscienza che ci lascia svegli a pensare il gusto delle cose inghiottite, i sorrisi appena digeriti nelle guance tese e stirate di comprensione infantile. E si diventa tutti certezza di suono. Ma il suono per adesso non si coglie come stimolo sensibile alle orecchie: per adesso è un’idea nella mente è qualcosa che si sa che si è mossa da qualche parte nella pianura alle spalle o sul mare che si stende subito oltre la fila degli alberi di fronte.

Il suono che ancora non è stimolo sensoriale sta sotto la luce dei riflettori, sotto i chiarori che sono lame di luce accanto agli alberi. Gli alberi ora sono floridi di sabbia umida ma due secoli fa non riuscirono da soli a sconfiggere la febbre. Il sudore sulla fronte dei pescatori delle paludi continua a risplendere: quelle fronti febbrili sono semilune che si accendono al ritmo della terzana e della quartana. I dolori delle articolazioni poi affondavano nella pancia. In questa terra si suona stanotte. Si tiene a mente l’amore per una terra pensando che poco fa  i coltelli affilati dei cuochi affondavano nel ventre di pani e carni e straziavano la bontà dei cibi composti separando strisce di fegati addensati i rotoli di cosce battute e ammorbidite. Il bollore toglieva il resto dell’impossibile nella magia d’acqua nelle grandi pentole che in cucina fanno sempre il big bang nelle loro pance convesse e compresse dove si annida alla temperatura dell’ebollizione l’idea di un tempo zero dell’inizio.

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire che adesso arriva si sono mossi veloci e precisi i cuochi e hanno corso i bambini con i quaderni della lezione per l’estate e ballavano scalzi sotto gli alberi della malaria e succhiavano pasticcini al miele e cercavano di persuaderci a regalargli risultati di addizioni e sottrazioni di divisioni antipatiche perché è antipatico doversi ripartire una vita di cui si vuole tutto per noi. Perché la vita qua è ricca di promesse ora che le bonifiche hanno avuto effetto la vita è un bue arrostito farcito di carni di pernice e miele e di fette luminose di intelligenze guizzanti e di noci e pernici ancora e di fagiani e beccacce e altri uccelli spauriti e saporiti di cui si fanno stragi colpevoli per riuscire a sentire con maggiore dolcezza rotolare dalla collina sulla sinistra la musica di fiati sassofoni e clarinetto basso.

Nella preparazione ci sono state la malaria e la febbre e il miele e l’eco del giorno capovolto nel buio e l’eco del buio che si rivolgeva di nuovo in un ritmo opposto la mattina prima che aprissimo gli occhi. Forse troveremo tutte queste cose nelle strette di mano e nella sfiorare delle guance e in una certa idea di una vita sociale che si apre mentre il giorno di nuovo stasera svanisce sparisce per lasciar esplodere -dall’apertura che il buio fa nel cielo da qualche parte sempre ignota mai individuata una volta per tutte- le parole dei testimoni della malaria invincibile. Le parole della febbre. Le prediche del miele della casa, fatto dalle api delle arnie dietro la rimessa, con i fiori dei limoni che fioriscono ripetutamente, qui. Noi testimoni eravamo zanzare piene di segreti agenti di contagio.

Noi poi eravamo i musicisti quelli che alla fine avrebbero dato il colpo di grazia al toro infuriato del mondo che si precipita sempre contro tutti i suoi figli che dormono e peggio contro quelli che sono ancora da venire che si possono solo contare in anticipo perché non finiscono mai di nascere i nostri figli. Figli come febbri intermittenti di malaria. Ogni tre o quattro unità di tempo noi lasciamo fiorire questi bocci svergognati di speranza con una perizia incosciente ed inarrestabile. Per questo stanotte eravamo qua. Per questo ci siamo lasciati prendere dalla lunga preparazione.

Alla fine quello che penso stasera, che ho pensato ieri sera, e prima di ieri: è che contano solo le persone, che neanche la musica conta poi così tanto al cospetto dell’importanza delle persone. E il palato splendente di sapori diffusi a vagare tra la lingua il vento e le labbra -sapori nuovi che puoi star certo ci renderanno un nome nuovo- forse conta esso stesso quanto le persone e dunque più della musica. Si deve oltraggiare la retorica: per adesso e da sempre che io ricordi tutto è sempre stato prima della musica. Sempre la musica arriva alla fine di tutto. Non vuol dire nulla di più che questo: la musica non è una speciale condizione è una condizione assai difficoltosa.

Anche i musicisti che si sono mossi oramai o stanno per muoversi si sono mossi per un’idea che prima di loro da qualche parte qualche cosa che non si sa che sia si era avviata togliendosi dalla propria fissità precedente. Lontanissima. Alla fine anche loro, tutto il loro mondo e, dunque, tutto ciò che potrebbe essere una definizione della musica è prima della musica. Tutto è già oramai successo prima della musica ed è allora che essa, finalmente, arriva. Ma non è certo che tutto ciò che era in precedenza fosse per la musica. Noi per esempio siamo stati qua per la febbre e il miele e per l’eco che non si spegne. Per la febbrile attività del pensiero, per la densità di miele dei corpi e per le parole che fanno l’eco a quanto non si ferma più ed è indicibile: per questo eravamo qui.

Tutto quello che chiamo preparazione è stato una vicenda di persone e di tre giorni fulminanti di febbre, di magrezza di un re esaurito dalle notti eccessive. E adesso tutto è già accaduto e stasera resta solo uno straccio di tempo ma niente in confronto con i passi possenti di quello che si è mosso da qualche parte -che non so che dire cosa sia- ora che nessuno ancora è arrivato con i suoi strumenti a distrarmi dai miei pensieri e sento solo persone parlare.

Ora -come sempre in questa terra bonificata- lentamente da una fessura del giorno – da una fessura della luce del cielo luminoso che fa il giorno – comincerà ad entrare il buio. Prima piano inavvertito, poi sempre più irruento come un torrente in piena. Poi col fragore di una figura oscura si stringerà addosso a noi l’amante calda composta dell’azzurro che fa qua. Un azzurro rubato che travolge e fa rotolare gli onesti gli innocui e gli impeccabili.

Li atterrisce, gli dice che contano, che anche per loro il buio tinge tutto di oscurità. Io mi aspetto così importuna e coinvolgente la musica che adesso  viene. La musica che è per qualcosa che si era mosso oltre le collina o laggiù oltre l’orizzonte scricchiolando lontanissimo come una idea coraggiosa per la strada. Così mentre la strada si piena e contemporaneamente si oscura quello su cui contare per adesso è tutto quanto è già successo.

Che ci sono state  le persone che hanno cominciato a fare le cose perché avevano sentito che anche altro senza figura e nome si stava muovendo da qualche parte così lontana da risultare invisibile. Ci sono queste persone da ringraziare per questa serata. A queste persone i musicisti devono suonare la febbre e il miele e se sono capaci di suonarla dovranno suonare la loro pietà.

Una pietà piena di gloria per le molte persone per le quali la musica è un eco di quanto sempre lontanissimo e a loro non visibile da qualche parte è uscito dall’immobilità della morte delle cose e in virtù della qual cosa che ora è viva e si muove anche quelle persone si mettono a fare le cose senza sapere un perché. All’oscuro della musica che splende nella mente dei musicisti.

E finalmente adesso i musicisti stanno popolando il prato che magro come un re stento e febbricitante li accoglie stridendo piano sotto i loro passi. Oltre tutto  dovranno dunque anche tener conto di quella stridente accoglienza nel contrarre gli accordi a venire.

“Felice sera”

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cat stevens


Posted By on Giu 16, 2011

cat stevens

Diceva ‘….come fai a rinunciare alla comprensione letterale del testo?…’ – e la canzone pop di Cat Stevens continuava. A me, a dire la verità, piaceva il timbro acustico della voce: finalmente capivo la faccenda delle ‘armoniche’ a carico o vantaggio della diffusione del suono. Lui sorrideva in accordo con il significato concettuale delle parole ordinate sulle onde musicali provenienti dai diffusori ai lati della parete di fronte a noi. Io intendevo precisamente la dolcezza del suo sorriso anche se evidentemente restavo del tutto privo della comprensione dei concetti dai quali il suo sorriso derivava.  Nella sua condiscendenza affettuosa della mia ignoranza c’era una mia libertà una possibilità di essere felice, un affrancamento dagli obblighi, ero come uno schiavo nelle piantagioni alle soglie della vittoria dell’esercito nordista di liberazione. Piuttosto che una faccenda di padre e figlio cui il motivetto si riferiva avevo in mente altri pensieri. Assaporavo il chiarore delle albe di ogni giorno della dichiarazione dell’indipendenza e della fondazione degli statuti di uguaglianza e della scrittura della carta dei diritti: tutti gli uomini nascono uguali. Anche i figli e i padri nascono uguali nascono, cioè, uomini. Pensavo che il timbro dipendente dalla asprezza o dolcezza degli incroci fluttuanti delle armoniche infinite porta in avanti la parola libertà la porta sopra e oltre e lo scavalcamento non è quantità di contenuti, è qualità di una conversione delle linee armoniche, la registrazione distratta di un fenomeno fisico che ha a che fare con la persuasione possibile: differenze non violente e scambi senza svantaggi. Linguaggi pre-verbali. Avrei voluto raccontare della traduzione necessaria delle parole del libro del 1972 che ancora non mi riusciva. Sebbene alcune cose fossero -siano- ammissibili e fuori dall’ineffabile: la scoperta della vitalità che neutralizza l’indifferenziato della pulsione e alla nascita fa la nascita come realizzazione di immagine e l’immagine è pensiero di certezza di esistenza in una condizione di vita mentale che non ha sviluppato la coscienza. Dovevo chiarire lo sforzo incessante perché la scoperta nella scienza psichiatrica aveva la necessità di una esposizione linguistica e l’esposizione aveva indispensabile la scelta delle parole adatte e si potevano trovare evitando attentamente le metafore e le approssimazioni esemplificative che avrebbero offerto l’equivoco della identificazione del tutto con una parte. Darebbe la sbrigativa soluzione della cultura che confonde l’immagine che è un processo ideativo con la figura o con una scenografia di figure, che spostano la realtà della vita mentale negli spazi ambigui tra uomo e mondo non umano, nelle aree tragiche del mito definitivo della genesi, della fondazione, dei simboli di una inarrestabile divinità che ci possederà. La scelta delle parole è possibile come capacità di ricreare il benessere del neonato la cui modalità di pensiero è certezza di esistenza che non si avvale della funzione della coscienza: potrebbe parere dunque che troveremo, basterà rifiutare questa realtà di coscienza che poi si realizzò. Ma il processo non è volontario. Scoprivo che erano le poche parole trovate via via proprio dalla coscienza nella coscienza dello sforzo continuo della attenzione al 1972, come se quell’anno fosse la carne dei tempi, che spostavano l’attitudine della ricerca secondo una serie di mutazioni delle premesse al linguaggio. La tentazione è avvicinare l’idea dell’immagine a quella di una premessa potente alle forme del pensiero neonatale. Divento triste e devo dire: avrei voluto. Mi saranno perdonate le lacrime. Non sarebbe potuto accadere, di norma, perché la negazione è cattiva e aspetta ghignando il dubbio e la paura del fallimento come vendetta sull’intelligenza sempre disprezzata.

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