domeniche


almost blue


Posted By on Giu 19, 2011

almost blue

Domenica di disordine sulla linea di costa dal punto di vista della barca. In coperta ragazzi non più giovanissimi, soldatini ridenti abbandonati dagli amori, bambini senza mezzi comunicativi e allora si scopre che non siamo propaggini della grande piazza telematica, che ne siamo il centro sognante, noi. Dall’inizio è un proporre idee nuove e andare sulla spiaggia sperimentando la facilità delle avventure romantiche sotto la plastica lucida dell’energia solare. Dove non troveremo l’amore la garanzia rimarrà nell’accostamento linguistico dei croissant con diverse tazze di caffè nero. Ci sarà un processo nel tribunale alla spiaggia domenicale, verremo accusati di una speciale arida sapienza, ma alla fine ad essere sedotti siamo sempre solo noi parlanti, e il silenzio di ascoltatori poco attenti è sufficiente da sempre ad uccidere, perché il pensiero ha una origine materiale, può agonizzare, è un argomento difficile e non se ne parla mai, però è frequente che certi eventi -che tagliano i rifornimenti- rendano le persone scure come deportati in un campo di calcio durante le prime ore del golpe negli stati sudamericani. Si narra anche di soggetti irriconoscibili per l’improvvisa bellezza – ( addirittura ! ) – sfuggiti alle retate dei segugi dei dittatori, la materia del pensiero che rinasce come corpo fisico nel bene: figurine rosse, spirali di metalli superconduttori, acciughe sotto sale.

In ogni caso siamo bastoncini sensibili all’umidità piantati nel terreno dei giardini del condominio interraziale.

Non si sa molto delle nebbia misteriosa che genera le diffrazioni molteplici attorno all’albero della realtà costituita e, della descrizione del mondo così com’era in origine, fa una letteratura spazzando via l’oggettività delle figure. Mi chiedo -oscillando per riequilibrare il beccheggio- se la dizione ‘realtà non materiale’ sia una composizione lessicale corretta per esprimere l’immagine -che è in noi- cui si riferisce il suono della parola pensiero. Se è uno scandalo definire ‘materiale’ la natura del pensiero o è corretto dire che il dubbio e l’esclusione derivarono da una debolezza di quella ‘immagine’ del pensiero che adesso invece risulta incrollabile. Nell’ambito di ricerche differenti -non alternative- si è legata l’identità al tempo: si dice  ‘…. l’immagine di noi che è in noi è il ‘sempre’ che definisce la continuità della fisica della nostra esistenza a partire dalle relazioni tra il cielo e la nostra pelle splendente al sole delle invocazioni….’

‘Non materiale…’ che implica ‘…Non cosciente…’ è plausibile se sorge continuamente dalla biologia.

‘Sempre…’  cui si aggiunge ‘Tempo…’ è l’idea di una forma fisica della materia che si dispone ai richiami, alle evocazioni poetiche, ai pronomi appropriati, ai nomi sonanti, ai gusti sparsi in cucina dalle farine abbrustolite, agli esperimenti dei profumieri. Se il pensiero ha natura spirituale noi siamo contenitori vuoti e casse di risonanza, lo stupore è ottusità incorruttibile, l’esistenza un orgia pur se sublime. I limiti sono staccionate, i ricordi sono cani alla catena, noi siamo recinzioni e non potremmo prenderci il disturbo, come si dice, di condiscendere a simpatie e contrattazioni sulla piazza dei mercanti lungo le vie della seta. La concatenazione delle figure della coscienza contiene l’immagine della storia : si narra che la materia accrescesse il numero delle parole riportate alla vita, che i contratti assumessero natura di lettere di una corrispondenza confidenziale, che la realtà fosse una stretta di mano, un abbracciarti laterale per sfiorarti la nuca che richiese coraggio e spudoratezza come quando avemmo l’aria addosso appena doppiato il Capo di Buona Speranza con la parte più avanzata della prua ad annusare i commerci dell’altro mondo. Il pensiero di natura spirituale è gelo e noci secche, soldi pesanti nei forzieri di enti fiduciari, capitali sottratti nelle promesse delle assicurazioni mondiali. Nessuno ha descritto che il pensiero di natura spirituale ha la forma sguaiata di quelle migrazioni di uccellacci puzzolenti di pesce andato a male che li porta ad ammassarsi su isolotti morti, sopra le fosse oceaniche delle quali non si intercetta la poesia. Nessuno sembra abbia notato il cuore gelido della natura né il cuore corrotto di arida spiritualità delle cose. Nessuno denuncia ufficialmente la proiezione della immagine di noi nel fuori di noi per l’adorazione del gelo.

Possiamo morirne salvo che si possa dire di aver amato donne cormorano dolci come le musiche che ci viene suggerito dagli amici di accostare alle parole: se è un giorno di festa, o circolano correnti d’aria profumata nelle file del nostro piccolo esercito, se risulta evidente che “…non manca altro per adesso…”

(Se devo obbedire ad un suggerimento invincibile Almost blue di Chet Baker restituisce le figure all’immagine in modo così definitivo che dopo non emerge alla coscienza la necessità di altro da aggiungere ! ! !)

La riflessione della pelle tremante all’investimento massivo delle vibrazioni sonore suggerisce aspetti parziali ma non troppo distanti da una idea corretta sulla natura fisica del pensiero. Che il pensiero sia realtà fisica e addirittura al fondo ‘materia’ implica di occuparci di estetica della scienza. In quanto realtà materiale il pensiero è oggetto e anche principio inerente la medicina, e i parlanti sono essi stessi soggetti e oggetti della ricerca, sono i ‘principi’ medesimi della filosofia naturale di cui si occupano. Il linguaggio riordina attraverso una formalizzazione in fonemi il mondo intimo di ciascuno e l’estetica delle cose fuori di noi, infondendo loro una grazia che altrimenti non avrebbero. Siamo api operaie sulle tracce di parole originate da scommesse ripetute  a proposito della nostra integrità, siamo cose dislocate in aree eccentriche di un frattale galleggiante.

I nostri rapporti non si riducono più ad essere miseri commerci di constatazione e il tempo è il pensiero che definisce continuamente l’attitudine della materia di cui siamo fatti a affermare ricorsivamente la inarrestabile irreversibilità che ci fa sembrare il mondo una cosa straordinaria. Alterniamo penitenze, bastoncini di croccante, gelato, caramello, panna, menta, ginger, bergamotto, sciroppo di castagne, il dorso infinito delle sue mani con i tendini in rilievo, gli scavi eleganti di milioni di scultori nelle cave sui prati alti del suo risveglio.

Il pensiero è materia sognante di cui alla fine dovemmo prendere atto e fu una fortuna perché non siamo più confusi a proposito della vita mentale adesso che la conoscenza è diventata pensiero cosciente attraverso una serie di evoluzioni delle funzioni della psicomotricità fine che portarono altrimenti anche alla parola.

Alla fine i parlanti solamente vengono sedotti, muoiono d’amore, sfuggono alla morte per amore, subiscono gli effetti del pensiero, scoprono che il pensiero ha effetti rovinosi, scoprono che il pensiero ha anche effetti di risoluzione delle malattie, di chiarimento della confusione. Poiché il pensiero ha natura di realtà fisica e per questo può dare e togliere e pesare gli scambi tra amanti e nemici. Può curare, determinare il ritrovamento della salute, realizzare il benessere in condizioni di realtà che non hanno nessuna forma di coscienza.

In condizioni di realtà che non hanno alcuna forma di coscienza il pensiero si trasforma in scrittura e poi si riduce al silenzio. Un graffio sul cuscino è l’ultima parola di oggi che fa l’immagine della ‘LUCE’.

L’immagine nasce quando la materia fisica del pensiero diventa movimento della mano che interrompe il circuito elettrico facendo precipitare la stanza nel buio..

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cominciare a dire


Posted By on Mag 21, 2011

cominciare a dire

La poesia non ha nulla a che fare con la versificazione. Consiste in ciò che si trova nel mondo, al di qua di quanto ci è permesso di osservare.(Magritte)

Per quando ci saranno luce e tempo lampadine e chiarori, per allora metto via le cose senza consumare fino in fondo la bellezza e la musica, per questo, e per quello che è differente da ora e che non conosco che passa frettoloso. Ci saranno luce e tempo per mettere a fuoco la macchina dell’espresso di alluminio lucente che mi viene incontro quando cammino a piedi scalzi nel quadro surrealista del risveglio con movimenti e arresti cigolanti tra il margine del letto, lo spigolo netto e pulito della cucina, la fiamma blu che eccita il luna park delle molecole d’acqua che fanno salire il caffè. Fisserò gli occhi splendenti nella penombra che si determina ogni mattina quando dalla finestra la luce attraversa sottili fessure della persiana e come latte intorbida l’amalgama di buio profumato di sogni nascenti e pane tostato. Non si è pronunciata una sola parola per un tempo lungo perché si è rivelato inutile e si butta giù silenzio e muta aspettativa mentre l’inclinazione dei raggi di sole fa un angolo via via crescente sul foglio da disegno del pavimento e trascorrono inesorabili deserti nella ripetizione prima che movimenti accurati inaugurino traiettorie che traversano il disegno variabile dell’ombra determinando la caduta sbuffante della mongolfiera come una locomotiva in picchiata ma al rallentatore quando le giunture delle ginocchia scricchiolano musicali e si va via dalla stanza ed è oramai giorno e per un bel po’ potremo continuare a tacere. Da quando cerco di realizzare i contenuti della vitalità ho ristretto gli esperimenti a successioni brevi, a durate impensabili a registrazioni di attimi instancabilmente riproposti, ad abbracci fugaci, a baci inattesi, a sfioramenti a misurazioni di singoli gradi di variabilità dell’umidità delle labbra sulla pelle. Sono sulle tracce dei pensieri a venire e non mi do pace perché darsi pace mi appare una rinuncia mentre nessuno ha tuttora definito gli aspetti della vitalità come si fa avendo accettato definitivamente che essa è una funzione della biologia cerebrale un parametro che definisce modalità funzionali dell’attività della mente ed ho acquisito la sicurezza che sarà una capacità di risolvere la vitalità dentro una formula linguistica a costituire un primo risultato per riproporre ulteriori ricerche a proposito della realtà psichica scrivere definitivamente l’equazione tra norma e sanità. Vitalità è una funzione che può essere pensata come ciò che consente  alle azioni mentali di produrre effetti sulla realtà materiale della biologia attraverso variazione degli assetti biochimici cerebrali ed è così che non è magia se arrossisco quando ti vedo mentre realizzo il tempo e la luce esatti che accompagnano gli stimoli visuali e termici della tua apparizione e poi della tua presenza. Ed è così che tempo e luce variando in mille combinazioni mi restituiscono l’idea di te che adesso non ci sei essendoti molto allontanata per certe occupazioni e la cucina e il letto e la sponda del piano di marmo antico del tavolo delle colazioni sembrano muoversi per comporre  attraverso la ricreazione della tua figura un argine all’assenza e al vuoto che si è determinato per la tua sottrazione. La vitalità è la funzione del pensiero che genera l’immagine di una possibilità ulteriore di essere e la continuità dell’identità di fronte allo stimolo dell’assenza: la scoperta medica della vitalità è l’invenzione di un farmaco nuovo che agisce attraverso l’attivazione di una chimica sottile che ha come stimolo elettivo l’irrealtà del nulla. Senza sarebbe la morte del pensiero e l’impossibilità di essere certi dell’esistenza del mondo durante le nostre traversate solitarie e silenziose di ogni confine. Senza sarebbe l’impossibilità di ‘noi’ tutte le volte che non ci sei che sono il pane quotidiano del nostro amore.

(L’immagine di questo articolo:Magritte ‘La Condizione Umana’)

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il possesso delle cose


Posted By on Apr 24, 2011

il possesso delle cose

Una nota difficile in un giorno limpido e tutta la pazienza al sole a levarsi l’umido del fiato dei feriti con la febbre. Metti giù lo sbarco delle chiacchiere sul cosiddetto destino delle masse, e vedrai formarsi le dune, i paesi della sete eterna, la fabbrica delle mosche, i cuori di plastica – duttile – nelle ultimissime più terribili forme di disumanizzazione dei presidenti, i bisturi velenosi, le chirurgie plastiche che nascondono per sempre il profilo delle responsabilità, le curve nere dell’emiciclo parlamentare, le suture infette di sciatteria e trascuratezza. Noi restiamo gli uni accanto agli altri, a cercare le parole alla base e prima del pensiero per dire che sono le mani a comandare giorno dopo giorno, le mani che scivolano sulle cose e dimostrano che noi siamo tutto ciò che ci manca e ci sfugge perché afferriamo di certo ma insieme non siamo mai padroni, e via via che nella morsa decisa delle palme capaci che prendono e lasciano andare tutto, il tempo si genera – creando il rapporto con la realtà inalterabile degli ‘oggetti esterni’ – noi a nostra volta, per quella consapevolezza di impossibilità di possedere qualsiasi cosa che amiamo e stringiamo a noi, diventiamo, nello stesso momento, imprendibili: come il disegno del mondo.  Da quell’istante la linea dei volti, il grattacielo cilindrico del torace, le spalle, l’arco dei piedi, il motore rombante dei polpacci e il dorso forte delle dita sono steccati, linee di costa, spazio dei confini, orti, campi, barriere, carri allegorici, ospedali, campi da coltivare, acqua intorno alle chiglie, le chiglie stesse con righe lunghe di rossi accesi, e i capelli delle sirene. E per questo modo di pensare, è evidente che noi siamo esattamente tutto ciò che non siamo, che siamo lo spazio tra noi, e il tempo intercorso tra il risveglio e la generazione delle figure del risveglio, e siamo il sogno che non è che lo sfondo – vale a dire la fisiologia – della esistenza materiale della nocciola grigia e bianca dentro di noi, noi siamo lo sfondo medesimo da cui tutti i giorni si torna a colonizzare questo mondo moderno, che il cinematografo, la musica, la letteratura, la poesia, le frasi negli cioccolatini e le cartine d’argento finto, e l’oro leggero dei bracciali, e le perle alle orecchie, e la massa densa della carta degli imballaggi delle librerie di legno bianco, e il cartoncino profumato delle lettere d’amore dei bambini alle maestre, e la scoperta del fuoco di ogni giorno per bollire l’acqua con il caffé, hanno ultimamente disegnato e messo in relazioni variabili, per tenere inalterata l’idea di vita umana, e di mondo, che non sia solo sopravvivenza e terra sferica. Il sogno è una nota difficile in un giorno limpido, dove sbarchiamo per essere quello che siamo: stendiamo tutta la pazienza al sole, per alleviare l’umido al fiato dei feriti con la febbre, e negli ospedali sulle frontiere sbarchiamo le truppe delle chiacchiere, e facciamo i cori di accompagnamento nelle corsie piene dei feriti della resistenza, e siamo i feriti e i dottori, e precisamente anche le voci nelle emergenze, che raccontano quello di cui siamo il confine. Certamente incutiamo un terrore perché, per chi ci ha ignorato da subito, siamo voci che provengono da chissà dove, siamo lettere volanti verso il cielo come aquiloni che modulano dalla picchiata ad altri variabili percorsi – già ma dov’è la mano sapiente del ragazzino? Ecco siamo i morti viventi, colorati di colori sfumati, con addosso la vita  della mobilità un poco isterica delle cose che non si riescono ancora a capire, e esattamente per quella incomprensibilità siamo bellissimi, come le storie di un esercito di bastardi nelle pagine di un romanzo che circola non autorizzato, siamo precisamente la successione di una storia senza protagonisti principali, siamo persone che hanno affetti che ci consentono possibilità infinite per disegnare i fondali di anemoni di mare, e le reti da pesca piene di pesci per l’epica delle giostre medievali, e l’invasione delle astronavi che portano ammassati i battaglioni dei perdenti immortali. Siamo gli autori della saga delle briciole di pane, e siamo piramidi che portano incise le avventurose vicende millenarie dei semi di soia che vincono, in prima istanza, la guerra contro la fame. Noi sappiamo che gli avvocati dei cinici hanno mandato contro di noi terrificanti meraviglie, hanno mandato – nascoste nelle nuvole di sudore freddo dei dittatori – le astronavi piene di batteri. E i nostri sogni dovranno organizzare le tempeste, disegnare su carta di riso i costumi da guerra, realizzare capi di sartoria per la scenografia dell’invasione dei buoni finalmente vittoriosi, per avvolgere, dalla testa ai piedi ,le nostre modeste persone con tute da cavallette. Saremo armate fruscianti, il nostro respiro tutto un mormorio di poesie rimaste sulle labbra dei morti di sete, e lì per lì nessuno si renderà conto di nulla, tanto meno, come Macbeth, della foresta che si muove piano, fatta di noi che abbiamo tra le labbra i rami delle parole di stanotte, e – sulla testa – alberi di carezze, perché la testa, da tempo, non ci serve quasi più per pensare – da quando siamo diventati navi da sbarco e branchi di delfini tormentati, che hanno finalmente acquisito la elusiva velocità dei loro persecutori, e imparato l’arte  di scomparire nel buio propria delle spie le  delazioni delle quali, fino ad oggi, ci sono costate sempre la vita e la salute. Ma stamattina, ti giuro, siamo noi l’ombra al fondo azzurro della piattaforma, siamo un orda di racconti senza un grido: allo scandaglio costruiamo l’eco falsa di una ingannevole profondità, come balene fantasma che promettono aerei ed aleatori piaceri. Poiché chi affondasse il bisturi tecnologico nelle nostre enormi masse cerebrali, vedrebbe l’ambra sfarinarsi imprendibile, il discorso storico dissolverei nelle singole parole, vedrebbe solo strade di una città piena di gente senza tracce di colpevolezza sui vestiti. Abbiamo preparato la scenografia per questo risveglio senza disperazione. Abbiamo pensato come è commovente che appena ieri ci siamo abbracciati come sempre tra gli scaffali dei magazzini pieni dei ricordi, in modo da poter, adesso, riordinare il mondo intero con le parole di un sogno.

Non abbiamo quasi più nulla di tante cose che ci eravamo procurate, non abbiamo più il possesso delle cose, questo era stanotte e questo è il fiore nel bicchiere. Buongiorno amore mio.

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le sere con l’aria addossso


Posted By on Apr 17, 2011

le sere con l’aria addossso

…resta a lungo le sere con l’aria addosso sulle braccia nude, e le parole che vengono su dalle punte delle dita fino alle spalle e al centro del torace, che sotto contiene i bronchi e solo parte del cuore, la curva del ventricolo destro, non di più. L’arco esterno del ventricolo destro si spinge oltre i bronchi verso la linea mediana ed ha molto a che fare con il respiro, in più è sostenuto dal diaframma e galleggia, fluttua su e giù, mettendosi sottosopra insieme a noi ad ogni sospiro. Le sere in cui si resta lungamente vicini hanno a che fare con l’anatomia e le funzioni della biologia, e con le spinte degli organi interni, quelle delle contrazioni cardiache e le due differenti spinte del respiro una sussultoria del diaframma e una trasversale, che insieme dilatano il volume del tessuto alveolare. L’aria addosso, il buio, il profumo, le palme delle tue mani, le risa e i pianti dei ragazzini e i papaveri nascosti nel grano fanno, da fuori e da ogni parte, una spinta differente .

L’aria esterna spinge la superficie cutanea, le estremità delle dita, le labbra al gelato di crema, i delicati incroci con mani delicate, i corpi resistenti dei cercatori sui monti dove nascono i fiumi, i loro sogni tragici sulla fine del mondo, i loro sogni felici sulla vittoria della battaglia e le immagini incomprensibili delle fantastiche immersioni nella pancia dei galeoni. L’aria esterna tiene sotto la sua pressione variabile le figure, l’orizzonte, il deserto, i cammelli, i guerrieri, questo spazio sconfinato, e la superficie senza ombre della steppa e  infine l’aria come una mano si accalca – che ha il disegno esteso dell’io altrimenti insondabile dell’uomo e della donna – intorno alla pelle del viso, delle dita successivamente fino alla pelle al sapore di gelato sui polsi e sulle braccia, dove distrattamente abbiamo lasciato gocciolare la crema densa e fredda che spumeggia al vertice del cono croccante. Il mondo intero – cadendo precipitoso da ogni parte del cielo – alla fine spinge su due gocce di sangue esplose silenziosamente nel microcosmo della linea tra la pelle forte del volto e la delicatezza del labbro inferiore.

Il sangue è perché c’è scappato un morso, per tacere e non rivelare il tuo nome che stavo per pronunciare – mentre leccavo con l’eccitazione di una fiera la montagna dolce – quando sei spuntata, tra la gente accalcata intorno alle vaschette gelate del distributore della menta e della panna, al momento meno opportuno. Sono corso alla cabina di legno e acciaio e rimasto accucciato nella scia bianca della barca che beccheggia al terremoto del respiro traverso e oscillante. Ho preso carta e penna poi tento un discorso vago sulla vitalità di base che non ha immagine,  sulla variazione dello stato fisico della biologia che le corrisponde ed è prima del pensiero. Sul pensiero che deriva dalla realtà materiale, dopo che essa ha acquisito la vitalità che è definitiva e irreversibile caratteristica umana di non rimanere inerte agli stimoli indifferenziati dell’aria esterna, della luce, del calore e del freddo cui opponiamo poi per sempre, fino alla fine, la costanza della scrittura senza un oggetto e l’invenzione di un amore di ragazza cui esprimere focosi dubbi, inutili gelosie, e invidie possenti. Metto insieme sostantivi ed aggettivi, femminile e maschile, creazione e decostruzione, per trascrivere la pressione dell’aria e del buio sulla pelle e gli occhi, la gradevolezza il profumo i veleni i ginepri amari, gli allori e le albicocche, il ginger assoluto, l’acuto di pino tra palato e faringe.

Tutto questo per reagire al sangue esploso sul labbro inferiore, all’incidente quasi mortale di un giorno senza te, alla disgrazia di un movimento freddo senza spine appena tiepide almeno, all’ingiustizia modesta e felicissima del mio desiderio pop, alla mia voglia postmoderna di noi come creme gelate dense e fredde. Il labbro aveva sanguinato perché eri comparsa all’improvviso, e l’aria esterna piena della tua figura densa e profumata aveva sussultato e spinto con grande pressione, cosicché io ero diventato poco significativamente romanzo di formazione e visione del mondo e tutta la cultura letteraria all’acqua di rose delle nostre aule scolastiche si era riversata addosso alla camicia di lino immacolato che siamo noi nella mia mente, e mi ero ritrovato con fregi delle isole tropicali sul torace. Dalle labbra appena sanguinanti tornavo all’inizio, a rotolare sul terreno di una anatomia e una topografia romantiche, all’umanesimo scientifico del cuore nel petto, alle olimpiadi acquatiche in cui tutti nuotano – finalmente agili nella mia illusoria rappresentazione – nel volume di un pensiero alla crema e cioccolata al caffè e ai frutti di bosco, nel mar rosso del pensiero di sangue e di profumo, nel mare vociante delle strade africane di questo attuale confuso risorgimento, in quel mare di poca imprevista allegria di rivoluzione cenciosa, che le piatte ragionevoli analisi degli accademici occidentali – quelli dell’impossibilità assoluta del desiderio – non avevano saputo prevedere.

Tutto si è svolto in poche battute delle nostre vite: la mia di cui sono testimone e certo anche la tua, seppure tu – nel corso dello svolgersi di questi pensieri – non sei mai stata qui se non nella traccia di un ricordo di una sera dell’estate scorsa. Questa ricreazione di noi  è una dimensione di attività umana, la tanto indagata vitalità che lega funzioni diverse per creare una profondità adatta a sentire la densità del tempo, per non lasciare la linea delle cose senza immagini ridotte a figure geometriche piatte come l’ombra degli obelischi, quando anche i palazzi delle accademie proiettano superfici scure di fronte alla nostra annoiata perplessità, nei giorni in cui siamo costretti a misurare il tempo seguendo nella polvere la rotazione delle ombre senza la potenza del volume. L’attrazione gravitazionale di tre gocce di sangue sul labbro fuga i fantasmi e conferma il passato:

” …la ricreazione di te nel ricordo ha il voluminoso significato del buio alla crema… “

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