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io non so cos’è la musica


Posted By on Ago 14, 2011

io non so cos’è la musica

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire i sapienti addetti agitavano i piedi intorno al piano di acciaio della cucina e tenevano immobili la lingua e liberi i pensieri ed era vietato riflettere così le mani andavano chiare a segno e i coltelli tagliavano sottili le verdure e i polsi agitavano con ritmo di galoppo le salse fino alla densità di una cadenza di mieli colorati. Miele è dunque la parola che chiarirà il crepuscolo di domani e terrà insieme i componenti del giorno e della notte attraverso il brusio delle voci la lieve masticazione delle cose già quasi del tutto digerite dalle cotture e dalle macerazioni e soprattutto la materia delicata ma inequivocabile degli affetti in libertà riguardo al cuore e alla pancia accalorata e alla pelle rossa di sole e a tutto il resto della vita che arriva puntuale negli appuntamenti serali come si sa a proposito della vita di giovinezza perdurante delle ragazze e dei ragazzi che sono accorsi incerti e trafelati alle sponde del prato.

Il prato è un catino magro e disteso come il corpo di un re giovane affannato dalle corse notturne e dalla febbre e della febbre c’è traccia in qualche albero marittimo posato contro la malaria ma non era bastato da solo. Febbre è la seconda parola insieme a miele ed ha la stessa densità del miele la febbre dalle nostra parti. Dalle nostre parti il plasmodio migrava chiuso nascosto nei globuli rossi di zanzare e pastori e non faceva distinzione e si doveva essere matti a restare. Però si restava. Una razza di resistenti difficili a persuadere a non essere quello che siamo. Le ragazze e i ragazzi qui affittano i crepuscoli con le zanzare di corredo. La musica non serve qua perché regna il vento a soffi acuti – di traverso alla costa: il vento non viene mai di fronte – a perpendicolo del litorale. I musicisti non sanno del vento qua. Studiavano il verso cui disporsi – con il viso obliquo ad un muro: per i fiati, che non sprofondino nell’assenza assoluta di eco. Eco è la terza parola.

La notte della musica bisogna rappresentarsela come una febbre terzana o quartana, una febbre che è arrivata attesa ma sorprendente nella propria potenza, ed evoca il corpo tutto intero pronto a subire: ci vuole coraggio nelle cose, soprattutto alla bellezza. Alla malaria della bellezza, all’invasione dei plasmodi che poi sciamano e affondano  nelle vie venose, allagandoci d’amori plurimi e inafferrabili. Vedrai che tutti ad un certo punto si separeranno da tutto – e saranno finalmente se stessi in una valutazione mentale di conoscenza che poi ce li porterà di nuovo di fronte – e diremo che gli alberi marittimi saranno stati i testimoni di nozze ardenti tra ogni persona e i propri segreti pensieri d’amore. Mordendo gli sformati e il dolce alla ricotta e cioccolato – nel catino magro del prato – gli verranno alla vista come un’illusione guerre di zanzare e regine e barche nel fango profumato – e avranno voglia di essere tutti diversi. Avranno pudore della loro temperatura non proprio ardente e solo i morenti di febbre malarica saranno al loro posto e metteranno a soqquadro le passioni modeste dei senza cuore.

La malaria antica ora lascia solo qualche sortilegio crepuscolare – qualche mattutina evanescenza in brividi e d’altra parte se si vuole dire qualcosa della musica non si può restare lontani dai brividi e dai fremiti e dalla concretezza delle parole riferite alla medicina delle vene e della milza – del bacino – del ventre. E della fonte miracolosa della spuma di mare presente nelle circonvoluzioni cerebrali che – del biancore mattutino – hanno chiazze diffuse in superficie. Ma delle schiume d’uova e burro, e delle foreste subtropicali delle verdure tritate rapprese cotte strigliate e ricolorate negli estratti di carne e albume, e delle mani e dei polsi dei cuochi attenti: di tutto questo si deve aggiungere. Come corsari -che si precipitano sui galeoni impacciati e tronfi di inutili ricchezze- si deve raccontarne precipitosamente a perdifiato. Dei re smunti ispidi di barbe nere di ormoni dell’arroganza e del comando ma smagriti da tradimenti e prime notti bisogna dire per narrare la mitica eleganza delle preferenze erotiche dei cuochi che essi fanno coagulare nelle loro speciali preparazioni le quali devono predisporre lo sfarzo che preluda al gusto del suono. Il suono in parte precipiterà dalla collina.

Tutto si deve svolgere sotto l’elegante silenzio delle ore interminabili dell’estinzione della luce nel cielo mentre il giorno finisce in una esplosione di buio ardente: un eco ribollente sotto la linea di oscurità – in una pentola capovolta che ha sopra la luce del giorno che pesa e preme. Febbre e miele ed eco. Molti allora si ammalano un’altra volta. La febbre torna secondo la propagazione degli agenti infettivi e scatena brividi di piacere subito prima dello svenimento isterico della coscienza che ci lascia svegli a pensare il gusto delle cose inghiottite, i sorrisi appena digeriti nelle guance tese e stirate di comprensione infantile. E si diventa tutti certezza di suono. Ma il suono per adesso non si coglie come stimolo sensibile alle orecchie: per adesso è un’idea nella mente è qualcosa che si sa che si è mossa da qualche parte nella pianura alle spalle o sul mare che si stende subito oltre la fila degli alberi di fronte.

Il suono che ancora non è stimolo sensoriale sta sotto la luce dei riflettori, sotto i chiarori che sono lame di luce accanto agli alberi. Gli alberi ora sono floridi di sabbia umida ma due secoli fa non riuscirono da soli a sconfiggere la febbre. Il sudore sulla fronte dei pescatori delle paludi continua a risplendere: quelle fronti febbrili sono semilune che si accendono al ritmo della terzana e della quartana. I dolori delle articolazioni poi affondavano nella pancia. In questa terra si suona stanotte. Si tiene a mente l’amore per una terra pensando che poco fa  i coltelli affilati dei cuochi affondavano nel ventre di pani e carni e straziavano la bontà dei cibi composti separando strisce di fegati addensati i rotoli di cosce battute e ammorbidite. Il bollore toglieva il resto dell’impossibile nella magia d’acqua nelle grandi pentole che in cucina fanno sempre il big bang nelle loro pance convesse e compresse dove si annida alla temperatura dell’ebollizione l’idea di un tempo zero dell’inizio.

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire che adesso arriva si sono mossi veloci e precisi i cuochi e hanno corso i bambini con i quaderni della lezione per l’estate e ballavano scalzi sotto gli alberi della malaria e succhiavano pasticcini al miele e cercavano di persuaderci a regalargli risultati di addizioni e sottrazioni di divisioni antipatiche perché è antipatico doversi ripartire una vita di cui si vuole tutto per noi. Perché la vita qua è ricca di promesse ora che le bonifiche hanno avuto effetto la vita è un bue arrostito farcito di carni di pernice e miele e di fette luminose di intelligenze guizzanti e di noci e pernici ancora e di fagiani e beccacce e altri uccelli spauriti e saporiti di cui si fanno stragi colpevoli per riuscire a sentire con maggiore dolcezza rotolare dalla collina sulla sinistra la musica di fiati sassofoni e clarinetto basso.

Nella preparazione ci sono state la malaria e la febbre e il miele e l’eco del giorno capovolto nel buio e l’eco del buio che si rivolgeva di nuovo in un ritmo opposto la mattina prima che aprissimo gli occhi. Forse troveremo tutte queste cose nelle strette di mano e nella sfiorare delle guance e in una certa idea di una vita sociale che si apre mentre il giorno di nuovo stasera svanisce sparisce per lasciar esplodere -dall’apertura che il buio fa nel cielo da qualche parte sempre ignota mai individuata una volta per tutte- le parole dei testimoni della malaria invincibile. Le parole della febbre. Le prediche del miele della casa, fatto dalle api delle arnie dietro la rimessa, con i fiori dei limoni che fioriscono ripetutamente, qui. Noi testimoni eravamo zanzare piene di segreti agenti di contagio.

Noi poi eravamo i musicisti quelli che alla fine avrebbero dato il colpo di grazia al toro infuriato del mondo che si precipita sempre contro tutti i suoi figli che dormono e peggio contro quelli che sono ancora da venire che si possono solo contare in anticipo perché non finiscono mai di nascere i nostri figli. Figli come febbri intermittenti di malaria. Ogni tre o quattro unità di tempo noi lasciamo fiorire questi bocci svergognati di speranza con una perizia incosciente ed inarrestabile. Per questo stanotte eravamo qua. Per questo ci siamo lasciati prendere dalla lunga preparazione.

Alla fine quello che penso stasera, che ho pensato ieri sera, e prima di ieri: è che contano solo le persone, che neanche la musica conta poi così tanto al cospetto dell’importanza delle persone. E il palato splendente di sapori diffusi a vagare tra la lingua il vento e le labbra -sapori nuovi che puoi star certo ci renderanno un nome nuovo- forse conta esso stesso quanto le persone e dunque più della musica. Si deve oltraggiare la retorica: per adesso e da sempre che io ricordi tutto è sempre stato prima della musica. Sempre la musica arriva alla fine di tutto. Non vuol dire nulla di più che questo: la musica non è una speciale condizione è una condizione assai difficoltosa.

Anche i musicisti che si sono mossi oramai o stanno per muoversi si sono mossi per un’idea che prima di loro da qualche parte qualche cosa che non si sa che sia si era avviata togliendosi dalla propria fissità precedente. Lontanissima. Alla fine anche loro, tutto il loro mondo e, dunque, tutto ciò che potrebbe essere una definizione della musica è prima della musica. Tutto è già oramai successo prima della musica ed è allora che essa, finalmente, arriva. Ma non è certo che tutto ciò che era in precedenza fosse per la musica. Noi per esempio siamo stati qua per la febbre e il miele e per l’eco che non si spegne. Per la febbrile attività del pensiero, per la densità di miele dei corpi e per le parole che fanno l’eco a quanto non si ferma più ed è indicibile: per questo eravamo qui.

Tutto quello che chiamo preparazione è stato una vicenda di persone e di tre giorni fulminanti di febbre, di magrezza di un re esaurito dalle notti eccessive. E adesso tutto è già accaduto e stasera resta solo uno straccio di tempo ma niente in confronto con i passi possenti di quello che si è mosso da qualche parte -che non so che dire cosa sia- ora che nessuno ancora è arrivato con i suoi strumenti a distrarmi dai miei pensieri e sento solo persone parlare.

Ora -come sempre in questa terra bonificata- lentamente da una fessura del giorno – da una fessura della luce del cielo luminoso che fa il giorno – comincerà ad entrare il buio. Prima piano inavvertito, poi sempre più irruento come un torrente in piena. Poi col fragore di una figura oscura si stringerà addosso a noi l’amante calda composta dell’azzurro che fa qua. Un azzurro rubato che travolge e fa rotolare gli onesti gli innocui e gli impeccabili.

Li atterrisce, gli dice che contano, che anche per loro il buio tinge tutto di oscurità. Io mi aspetto così importuna e coinvolgente la musica che adesso  viene. La musica che è per qualcosa che si era mosso oltre le collina o laggiù oltre l’orizzonte scricchiolando lontanissimo come una idea coraggiosa per la strada. Così mentre la strada si piena e contemporaneamente si oscura quello su cui contare per adesso è tutto quanto è già successo.

Che ci sono state  le persone che hanno cominciato a fare le cose perché avevano sentito che anche altro senza figura e nome si stava muovendo da qualche parte così lontana da risultare invisibile. Ci sono queste persone da ringraziare per questa serata. A queste persone i musicisti devono suonare la febbre e il miele e se sono capaci di suonarla dovranno suonare la loro pietà.

Una pietà piena di gloria per le molte persone per le quali la musica è un eco di quanto sempre lontanissimo e a loro non visibile da qualche parte è uscito dall’immobilità della morte delle cose e in virtù della qual cosa che ora è viva e si muove anche quelle persone si mettono a fare le cose senza sapere un perché. All’oscuro della musica che splende nella mente dei musicisti.

E finalmente adesso i musicisti stanno popolando il prato che magro come un re stento e febbricitante li accoglie stridendo piano sotto i loro passi. Oltre tutto  dovranno dunque anche tener conto di quella stridente accoglienza nel contrarre gli accordi a venire.

“Felice sera”

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escape


Posted By on Ago 5, 2011

escape (*)

Fate spazio ripete la pellicola delle figure disperse i merletti delle donne e le divise impegnative e il capo scoperto del futuro cadavere. Sarebbero stati scaraventati in alto per esempio di giustizia del potere gli impiccati. Io vedevo la gloria del cinema tutta riassunta nella precipitazione verticale della musica degli omicidi secondo la legge imperterrita come lo sguardo di una madre folle di fronte al pianto. Il collo di cigno avvolto dalle corde. I cavalli predisposti dalla natura alla corsa che innalzano l’amore scalpitante fino al cielo. Voler morire nelle scene di salvezza e di rivoluzione. Voler resuscitare nel ricordo dei registi impavidi per cessare ancora di vivere secondo la letteratura dell’ingiustizia. Adesso che ero libero in realtà assolutamente solitario potevo privarmi del giudizio. Quelle voci da inseguire per una rauca timbrica che alludeva alla solitudine che è aspra. Inutile dire il contrario. Dolce solo per l’idea che “…non si può mai sapere..” Una schiera di cavalieri distratti dalle uccisioni che attraversa una folla dei cui pensieri non si può sapere nulla tutto quello che si sapeva della folla era il livello del rumore la potenza del suono collettivo che avrà pure avuto una sua democratica forma di intuizione. Si trattava sempre di impiccagioni e la democrazia era tardiva. Come la scienza era successiva agli avvenimenti. I signori possono aspettare: in questo risiede il fascino del potere assoluto. Il potere è potere che riguarda la effrazione della cittadella temporale. Il potere altera le successioni. Prima viene il perdono e poi il delitto che ha la propria impunità. I tamburi esprimono bene la potenza del potere. Gli applausi dissennati dicono tutta l’indifferenza alla violenza. Riguardare la scena. Riascoltare gli spari nella loro obiettiva forza impareggiabile. Potremmo bere sempre alla forza urlante e becera del cinema che ricalca la violenza. Non c’è niente di più ingenuo e innocente. Solo le labbra di una donna innamorata che avvolgono un pene senza sapere oramai più i tratti del volto. Il volto è la folla democraticamente eletta dai potenti. La folla democraticamente distribuita nelle piazze con l’ imperfezione della serie casuale che se non assicura il diritto garantisce la serietà delle corrispondenze tra storia e matematica. Amore trascendente e sesso ben fatto. C’è una simmetria recondita e scandalosa – come una giustizia imperdonabile – tra soggettività della decisione e accuratezza del cappio anestetico della impiccagione verticale.
E’ scattata in alto: una corda al galoppo. Ero insensibile e sono stato elevato in una aspirazione alla morte aerea per soffocamento. Pendevo tutto anima e cuore. L’anima non era nella testa. L’anima era diffusa. Era la pelle. Privo di pensiero per ischemia dirò una storia ragionevolmente priva di sensi: tanto si sa che sono cose differenti storia e ragione. Sono differenti testimonianze. Oggi che sono salvato questo parlare è segno di commossa riconoscenza. Musica forsennata e calmissimo sentire. La mancanza d’aria del cappio niente mi ha fatto dimenticare di noi. Non ha toccato il pensiero delle belle carezze, delle regioni delle forme dei volti sognanti: non il suono precipitato delle parole di passione.

Riposavamo notti intere senza prendere pace da noi. L’ingiustizia solo può caderci addosso e mettere pace tra l’uomo e la donna che si erano decisi a trovare uguaglianza e diritto nell’amore. Ora non siamo che musica.

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musica contro l’invidia


Posted By on Lug 27, 2011

sax tenore

musica contro l’invidia

Dunque c’è una teoria di base e poi una serie di anni. Persone. La difficoltà di escludere atteggiamenti settari. C’è la potenza e la miseria delle parole. C’è l’immaginazione. La conoscenza induttiva. I tags della vita. La nuvola di elementi prevalenti circondati dalla musica. Il fruscio di quanto accade soltanto di rado. Nomi di cose. Altro notte pensiero mani mondo risveglio natura tu rosso linguaggio ferita felicità deserto caffè. C’è la parola disegno e incanto. Non c’è la parola denuncia. C’è resistenza non ci sono odio distanza cultura santità. Silenzio sole e scrittura ci sono. Sottomissione non c’è e penso che avrebbe potuto e dovuto esserci. Avrebbero dovuto esserci appassionatamente troppo presto infinitamente oscurità morte declino ritorno rapidità. Ci sono i pronomi tu e io. Lei non compare nella nuvola come una deliberata esclusione che più che altro evidenzia che lei poteva esserci. Loro non c’è. Noi c’è per ridere e farsi accanto e rubare. Noi chi? Due tre più di tre un mondo intero una piazza di persone? Piazza non c’è eppure la piazza è una ‘figura’ di grande potere evocativo seppure foneticamente non sia entusiasmante ma lo diventa se uno è accogliente alle probabilità architettoniche del pensiero. Piazza doveva esserci perché c’è materia e sarebbero andate assai d’accordo e si sarebbero arricchite l’una dell’altra come una buona compagnia di innamorati. Mente sta bene con ferita. Sonno con resistenza. Molte cose che ci sono starebbero bene con quanto non ho saputo vedere. Molte cose che ci sono inevitabilmente riveleranno la difficoltà. Manca pesantezza che mi appartiene comunque. Manca coraggio che dovrò proporre. Ci sono molte cose bellissime. Deserto c’è assai poco rappresentato eppure io penso sempre come fossi nel deserto. Deserto sta con amore e pensiero che troneggiano. Dietro di loro c’è tempo parole linguaggio. Non so se stanno bene accanto. Io penso che il linguaggio è sempre più difficile un impegno rigoroso e sostanzialmente impossibile. Impossibile non l’ho annotato mai seppure avrò usato la parola. Chissà forse non volevo sottolineare che ci si trova troppo spesso di fronte a quanto pare impossibile. Manca settarismo. Mancano difficoltà e fatica. Dovrebbero esserci. Manca violenza e aggressione. Anche quelle dovrebbero esserci. Notte secondo me sta benissimo con vita. Natura con ricerca. Poesia mi pareva che non stesse bene con nulla poi ho deciso che invece si accorda con realtà. Luce mare mani avrebbero comunque potuto bastare per qualsiasi cosa. Risveglio c’è ma non è gran che bello: una parola eccessivamente sentimentale. Una parola buia dopo tutti questi anni. Le parole luminose mi verranno regalate penso. Ho messo silenzio e per questo non avrei dovuto mettere musica. Musica c’è per una forma di timore reverenziale (quanto confina con dipendenza servile nei confronti di quello che non capisco?) che ho ancora verso i musicisti. Non dovrei averla messa. Troppo onore. O forse ancora troppo scarso amore.

Regolerò negli anni a venire le faccende con quanto c’è di più difficile. Da subito dovrò propormi la costruzione delle difese della città e mettere invidia e veleno insieme. Ho presente la possibilità di coloro che dopo ogni rapporto cortese si allontanano danzando sulle scale dopo avermi corretto il caffè con il cianuro.

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Posted By on Lug 25, 2011

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Si dovrebbe dire qualcosa di tutte le cose. Evidenziare l’effetto di risalto che fa nella mente l’arresto del moto della caduta dell’albicocca staccatasi dal ramo più alto conficcato nell’ellisse dell’orbita di Giove prima che si schiacciasse sulle pietre bianche del pavimento del giardino privato dietro casa oggi alle tre. Si deve parlare tentare di scrivere qualcosa a proposito della calura impressionante dei giardini d’estate per cui si è cessato di uscire a giocare fino a che la sera non si porta via le caldaie bollenti delle nuvole di afa. Il caldo è una passione. Una forma violenta. Un ordine costituito. Bisogna fare la lotta denunciando e diffondendo la necessità della guerra contro il rumore del bollitore celeste che ci fa ammalare perché ci riversa addosso l’impossibilità di respirare sotto forma di miele dicono che è la natura della meteorologia impazzita. Bisogna esprimere l’inutile bellezza dello spreco tipicamente umano e scendere alla miniera dove si estrae la sapienza dalla passività dei corpi immobilizzati e torturati. Si esaltano i corpi infernali più che le luminose cavallette nell’oceano luminoso del paradiso. Scrivere amando allacciati come cinture di salvataggio gli uomini lucertola incatenati alle pietre i toraci che si arrossano tra pietra e sole e neanche l’indignazione gli riesce più e realizzano nuove forme di pensiero a proposito della resistenza. Una puntuale resistenza promessa per domani stesso se riusciranno a scampare ai raggi e alla solitudine. Bisogna dire i pensieri di coloro che patiscono torture che noi neanche possiamo immaginare. I pensieri di coloro che non potranno neanche mai essere consolati dall’idea che potrebbero anche essere salvati non fosse per l’indifferenza. Rendere conoscibile tutto quello che resterà per sempre sconosciuto a chiunque nella sua esistenza. Bisogna pensare che non è finita per sempre mentre tutto è oramai finito per sempre. Nella scrittura ci sono evidenti segni di ardore controllato. Bisogna denunciare la consolidata disciplina utile ad accaparrarsi l’Ambito Premio. Svelare l’impazienza antipatica dell’Artista-Bambino obbligato alla Predestinazione. Ci sono coloro che decidono le esatte proporzioni della diseducazione che acquista così un grande effetto estetico. Faccio anche l’archeologia delle rovine dell’emozione fredda che viene sommersa dal terremoto scrosciante della cascata degli applausi del ‘Pubblico’. Il ‘Pubblico’ che ovviamente e tristemente non è il pubblico.

Sto altrove a distanza. Riconosco il pensiero libero – nei cantieri delle civiltà  imbiancate della polvere delle alte tecnologie. Rovina anch’esso -però come una manciata di uvetta dalle palme di un ragazzino- nella calcina preparata per l’asfaltatura della pista di formula uno. Scrivo il ricordo senza storia della delusione che resterà ‘per sempre’ . La delusione è una manciata di puntini scuri in pochi centimetri quadrati della curva alla fine del rettilineo di partenza. Lacrime senza una ragione come fosse stato un evento naturale, non la distrazione fatale di un eccesso per l’entusiasmo irrefrenabile di una corsa. La pioggia di chicchi dolci potrà essere confusa nella sua disordinata disposizione con l’ipotesi sbagliata di una causa naturale. Il caos è falsa poesia e motivo di illegittima attribuzione di origine dei fenomeni. Di fronte alla manciata di uvetta sfuggita alle mani di un ragazzino e adagiata nella pasta di calce e sabbia bianca dove ogni lacrima dolce e appassita ha preso il proprio posto scomparendo e lasciando bolle concave sparse il riscontro di una verità al nucleo delle ‘cose’ è una previsione di natura arrogante. Quello che si può dire è che soltanto la fine ha un verso. E che la vita che non ha un punto fermo nel suo continuare è dunque senza ‘verso’ senza centro ed infinita. Dalla cultura che riflette senza pazienza e dunque è per ogni verso subito deludente e finita voglio volare alla chiarezza del pensiero che nessuno può dire la fine nella sua caratteristica che ha un verso unico e conoscibile troppo tardi. Cercare in queste terre occasionali le voci estese dalla terra al cielo da inseguire. La terra del pensiero che sa amorevolmente attendere una direzione che sopravverrà di fronte a noi superandoci con un balzo e una capriola e tutto sarà lo stupore del primo anno. Dell’inizio che si distende. L’unica intelligenza appetibile è la massima capacità di comprensione rimasta sulle spalle quando cadrà il mantello azzurro cosparso di stelle e si sarà sciolto l’ultimo grano di sale nell’acqua che beviamo perché possa restituirci l’equilibrio perduto a causa del sudore sotto le nuvole basse di agosto.

Differente dalla comprensione delle cose e dal discorso sulla ‘verità’ – indeterminata ed affascinante – la sapienza chimica in questi giorni di caldo si accresce insieme a certe idee sulla letteratura. Io per me ritengo che un essere umano che scherza sempre con troppa superficialità e odia fare sul serio con le cose e le persone scrive teorie e romanzi e anche poesia magari. Chi ha qualcuno che gli sta a cuore scrive soltanto. Forse questa è una differenza tra letteratura e musica. La musica e scrivere è immagine delle cose che non si possono pensare? Devo chiedere. Le cose che si fanno è musica che non si dice è quando le cose che si fanno sono l’immagine e l’immaginazione e sono noi ridotti quasi a niente di più che noi. Se il primo anno di vita è esistenza di realtà mentale senza coscienza la coscienza non avrà mai nessuna possibilità di realizzare un pensiero verbale a proposito di quel diverso pensiero: quel primo anno resta sempre quello che si deve tacere poiché non si può dire. Esso si ritrova  nella densità della vita collettiva. Ma non è mai ridotto al dopo: alle falde della piazza dove siamo morti per la passione alla grazia della donna che cammina assorta districando capelli tra le dita poi il dopo non ha trovato che la parola resistenza per affermare lo spazio libero e il pensiero schiavo della propria potenza. La musica è il pensiero della incredulità perché l’immagine resta sempre – essa dopo non muore mai – al primo anno che si risolve lento e lento scivola ride e dice siamo la pelle della muta del serpente fertile e intelligentissimo che scrive il patto sociale tra il fango e  il colibrì virtuale. L’immagine dice cose che non saranno mai più pensate: esse resteranno a fare vite irripetibili nella misura variabile della densità che in ciascuno assume l’idea di vita sociale. Di livelli di possibilità di conoscenza collettiva.

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quattro minuti scena risolutiva


Posted By on Lug 24, 2011

Hannah Hersprung nel film "Quattro Minuti" di Chris Kraus

quattro minuti scena risolutiva

( primo sogno ): Si nasce con incerta figura la nostra miseria è non poter risolvere quelle linee incerte perché escluderemmo la nostra nascita. Tra l’eccesso di luce e l’amore per il buio del fondo vibrano i corpi di balena. I mammiferi acquatici che non possono mai dormire fino all’arresto del corpo nell’immobilità sarà che allora sognano continuamente e non avendo intero mai il sonno sarà che non abbiano mai intera la veglia: forse hanno una veglia differente e adatta all’acqua. Siamo forse noi dico al risveglio dal sogno quelle vibranti montagne oceaniche nella condizione fluida e precipitosa che immagino. Nel sonno è la fluidità della biologia pulsante nel fondo scuro della materia non ispirata dalla grazia del ricordo nè dalla provvidenza delle figure. Il risveglio è il lusso d’altre funzioni appena superiori che realizzano il sogno.  E consente le parole. Le parole – vale a dire l’uomo oltre la propria notte – una creazione. Tu io noi: siamo l’uomo di stamattina alle persiane. L’uomo tu io: siamo i fatti accaduti come vengono alla mente. I fatti come vengono alla mente sono sempre ‘altri’ da quello che sono. E ‘altri’ sono subito dopo alla voce dei Narratori. I Narratori dei Fatti aumentano la loro importanza in fondo si può verificare che essi siano – a loro volta – Geometri della Segreteria al Ministero di Archeologia e Geologia che tracciano i progetti dei passaggi segreti alle piramidi. Nei disegni loro noi tutti siamo notizie alla voce: viventi della specie privilegiata gridati all’incrocio dei grattacieli dallo Strillone di Corte. Donne e uomini quotidiani, creazioni definitive ognuna a suo modo. Da raccontare. Finestre. Sferraglianti binari grigi e lucidi appena completati. Svegli con gli occhi spalancati e piangenti. Pronti per cominciare. Vibranti montagne di carne marina mai del tutto immobili nel sonno siamo coscienze illanguidite. Siamo coppie liquide. Tutto oramai abbiamo assimilato di canzoni e madrigali in disaccordo. Che il vero è ‘altro’ dalla storia.

Siamo altro da noi nello sforzo di essere io la tua fronte tu il davanzale per il tuffo nell’aria della piazza profumata di arance. A Taormina.

( secondo sogno ): L’uomo gli capita di potersi costruire la notte per il sonno con la calcina o le foglie. L’uomo. La sua compagna – dell’uomo – che è l’altra metà del cielo quella buona è la donna. La donna: campagna seminata a girasoli grano e papaveri e la metà buona del cielo accetta – torcendo da millenni il collo come un cigno malato di strabismo – il patto con i maschi. Accetta. Dice brevi cose. Non è d’accordo. Sa farlo di non essere d’accordo senza ‘non essere’ e senza fare il ‘non essere’ dell’altro. Sebbene la donna – sussurrano le ricerche di base – voglia farsi ancora più esatta. Somigliante ad una idea di sè che va portando sulle spalle subito svoltata la caverna. Attende il tempo di farsi. Ne vedremo delle belle noialtri ragazzi. Comunque questi due – maschio e cigno – creano. Di malavoglia – tuttavia inventano la grazia dei gesti. La carezza della mano sulla roccia serve ad evitare i danni maggiori le ferite mortali l’imprecisione che distrugge l’idea di un equilibrista sul filo del pensiero. Si veda Cyrano si veda si ascolti quando si lamenta troneggiando sopra la media della comune abitudine del discorso corrente. Intendo questo quando mi viene in mente che questi due – maschio e cigno – creano. Di malavoglia i fili di luce nei quadri e l’idea di lesione incisione cura chirurgia legatura fortissimo espressione musica intervallo tempo stanotte il giorno che viene.

Creano la propria specie creativa.

( terzo sogno ): Non d’amore è il suono che piuttosto è fisica. Raccontano i sogni che non sono per gente sentimentale. I sogni sono le parole che raccontano i sogni. Le parole che raccontano i sogni sono la fisica dei suoni della nostra voce. Nella nostra voce si incarna l’io narrante sempre. I ladri al mattino acchiappano la luce per tirarsi fuori dalla grotta: hanno mani piuttosto svelte come serve all’impunità dei furti nel mercato rionale della capitale. Il sogno dice dei furti perdonati, dei regali agli incroci, delle stelle aggruppate nel mito. Il mito è la falsa credenza che la mente origli sempre le stesse parole. Ci sono parole speciali che non dicono le cose ma le figurine sottili dei nostri incontri. Tu io la vita suoniamo alla porta del circo. Svoltiamo insieme. Vieni. I pronomi sono oppio e ‘tu’ ed ‘io’ e ‘noi’: quello è parlare! Le cattedrali possono pure crollare: i pronomi dureranno perché sono fatti di sabbia. La sabbia è quando tutto è crollato è rimasto a pezzi è digerito dal sole e genera nella sabbia la meridiana delle particelle fonetiche che dicono l’idea della persona senza la necessità di un volto da seguire. Nello stesso modo nella materia di acqua e polvere e terra sotto gli alberi sotto i monsoni si genera la grammatica del soggetto. Il suono è fisica tu io noi fatti di sabbia sono per gente niente affatto sentimentale ora si capisce. L’amore è per scegliere. Il sonno per la conoscenza. Il sentimento crede di doversi continuamente accordare e fa la geometria. L’affetto diverge determinando le condizione per le forme matematiche e le immagini dei numeri.

I pronomi sono la musica. La musica è l’oggetto della ricerca. Non ne è il fine ultimo. Però non si può evitare. Nella relativa linearità di una coerenza emotiva il suono si incontra subito prima della vittoria. Esattamente alle foci del fiume delle risoluzioni provvisorie ma trionfanti. Transitoria prigionia del genio. qui.

 

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