l’origine antica di oggi

Posted By claudiobadii on Feb 12, 2016 | 2 comments


Peter Doigt (copyright)

Peter Doigt
(copyright)

Cose di oggi esiti di cause antiche. A questo, continuamente, assistiamo. Urla di rabbie mai esaurite si sfogano. E lo sfogo non riduce di nulla i motivi di quel sentimento di delusione. Risa nascono per ingiusta allegria. Teniamo a braccetto impressioni sentimentali che non sanno dirci da dove mai provengano, ma è l’umanità che condivide il proprio tempo con popolazioni antiche. Ci sono -che sfioriamo nei centri abitati- attimi familiari su volti di sconosciuti. Persone con le quali ci pare potremmo intenderci le sfioriamo e le lasciamo sfilare via. La coscienza in quei momenti, velata di parole di seta e lino si volge intorno come vento di mare e di collina tacendo. E brucia (rovente) la pelle del viso; o irrigidisce, gelata, i muscoli; o trasforma in spine di ghiaccio la linfa che scorre lungo i polsi e le caviglie.

Solo raramente straccia l’imbarazzo e, nuda, sguscia per strada e si arrampica sulla facciata delle case del quartiere dove ci siamo arrestati per abbracciarci e dire, senza pensarci tanto “sei bellissima” e “sei bellissimo” seriamente intenzionati a non lasciar perdere niente di quanto si potrà avere, oggi. Che non è oggi, è antico: e dall’antichità prende lo slancio.

2 Comments

  1. A guardare la piena dall’alto dell’argine si scopre la bellezza di una struttura architettonica di questo genere: è un mare d’acqua quello che l’argine divide dalle case e dai campi subito lì dietro. Dove c’era il grano appena spuntato, ora spuntano le teste e i colli esili degli aironi.
    Cercavo una storia da inventare sugli argini, perché riguarda la pratica del contenimento.

    Penso che la scrittura somigli in alcuni momenti proprio a un argine.

    La storia non l’ho scritta, ma ne ho trovata una che parla di quelli che si mettono a raccontarle, ma non sempre riescono bene nell’impresa.

    “A sbagliare le storie”

    – C’era una volta una bambina che si chiamava Cappuccetto Giallo.
    – No, Rosso!
    – Ah, sì, Cappuccetto Rosso. La sua mamma la chiamò e le disse: Senti Cappuccetto Verde…
    – Ma no, Rosso!
    – Ah, sì, Rosso. Vai dalla zia Diomira a portarle questa buccia di patata.
    – No, vai dalla nonna a portarle questa focaccia.
    – Va bene. La bambina andò nel bosco e incontrò una giraffa.
    – Che confusione! Incontrò un lupo, non una giraffa.
    – E il lupo le domandò: Quanto fa sei per otto?
    – Niente affatto. Il lupo le chiese: Dove vai?
    – Hai ragione. E Cappuccetto Nero rispose…
    – Era Cappuccetto Rosso, rosso, rosso!
    – Sì, e rispose: Vado al mercato a comperare la salsa di pomodoro.
    – Neanche per sogno: Vado dalla nonna che è malata, ma non so più la strada.
    – Giusto. E il cavallo disse…
    – Quale cavallo? Era un lupo.
    – Sicuro. E disse così: Prendi il tram numero settantacinque, scendi in Piazza del Duomo, gira a destra, troverai tre scalini e un soldo per terra, lascia stare i tre scalini, raccatta il soldo e comprati una gomma da masticare.
    – Nonno, tu non sai proprio raccontare le storie, le sbagli tutte. Però la gomma da masticare me la compri lo stesso.
    – Va bene: eccoti il soldo.
    E il nonno tornò a leggere il suo giornale.

    Gianni Rodari (“Favole al telefono”).

  2. Le idee nate sono scomparse nell’arco di qualche ora.
    La legittimazione degli altri non è sufficiente a sostenere la nostra identità. Serve una nostra legittimazione.
    A ognuno la propria.
    Allora si scrive un vocabolario delle parole necessarie. Legittimazione, identità, cura.
    Perché si è imparato, come imparano sui banchi i bravi scolari diligenti, che nei rapporti privati non ci si prende cura, altrimenti non si può più intenderci sulla parola legittimazione. Con la parola cura, se ne vogliamo far uso, dobbiamo intendere quella delicata maniera di tener bene le cose che si amano. Un operaio a lavoro nella fabbrica di cristalli preziosi ha cura di piccoli e grandi oggetti che, con ‘cura’, provvede a passarsi fra le mani. Aver cura di una cosa è legger scritto su di essa il messaggio ‘’maneggiare con cura’’. Aver cura dei propri cari è averli a cuore. La cura sta al cuore. Qualcuno ci sta a cuore e ne abbiamo cura. Ci vuole cura per preparare la pastiera napoletana: ci vuole di sapere che servono i fiori d’arancio, ci vuole la cura della poesia della lista di ingredienti.
    Anche la parola pesantezza ha una sua certa dose di importanza in questa ricerca, perché da una parte ha a che fare con tante e tante questioni, una tra queste la gravità.
    Allora riprendiamo le parole legittimità e legittimazione. Se si è pesanti dipende da un fatto di serietà che ci ha salvati più di una volta dall’approssimazione, dalla superbia e dagli strafalcioni. Prendere sul serio ciò a cui si tiene è un atto d’amore. E’ questo un amore pesante, ma per chi non può legittimarne la serietà. Non si gioca per far finta, si gioca seriamente: e certo tutto questo non preclude il sorriso dei bambini quando si mettono a giocare. E’ pesante il dar peso alle parole, ma le parole pesanti sono quelle che non fanno parte di usi dignitosi dei vocabolari da cui vengono scelte. E’ una questione pesante il linguaggio, nel senso che… ha un certo peso. Si deve aver cura della grammatica, si deve saper maneggiare con cura.
    Ha peso ogni cosa, grava sulle vene, preme sulla superficie della pelle, ma la pesantezza? Di cosa ha bisogno? Di legittimarsi da sola certe volte. Di darsi il posto che si merita sulla parete lasciata spaziosa.
    Ora.
    Come avvenga questa cosa che la pesantezza si possa sentire legittimata ancora non la so raccontare perché una persona pesante come me non si è ancora legittimata da sé. L’identità, la pesantezza, la legittimazione.
    Ma è più una questione (difficile e delicata) decidere una volta per tutte che dubbi non ce ne saranno più, almeno su alcune piccole cose.
    La mia pesantezza e la mia serietà dovranno essere legittimate dai miei occhi un giorno. Perché la scelta non è una cosa da niente, le parole non sono una cosa da niente, certi abbracci come certi silenzi non sono una cosa da niente. E una pesantezza che non posso legittimarmi io stessa mi rende talmente pesante che il pensiero di potermi lasciar di nuovo cullare fra due braccia mi terrorizza.
    A esser pesanti nelle notti di burrasca si sta in macchina a parlare con chi ha cura delle cose, con chi non ha vergogna di dire ‘’ho sbagliato’’ anche se prova vergogna del dolore che la cosa può aver portato. A esser pesanti si scrivono le cose, i pensieri che non si lasciano oscurare dalla paura di sbagliare a esser pensati e di sentirsi inadeguati. A esser pesanti si prendono le parole dai vocabolari per dedicar tempo all’uso e declinazione di ‘libertà’, ‘vitalità’, ‘scelta’, ‘calore’, ‘riconoscenza’. Perché… anche qui: la riconoscenza non è servile inchino di chi si trova in debito al cospetto di qualcuno. Riconoscenza è proprio riconoscerlo, vederlo e lì, non negandone l’identità, dire ‘’sei bellissimo’’ seriamente intenzionati a non lasciar perdere niente di quanto si potrà avere: farlo cioè diventare la parete di una casa che mai abbiamo avuto ma che ci meritavamo. Qualcosa ci meritavamo e non ce la siamo concessa. Non si dimenticano cose così. Come non si dimentica l’amore che ci ha tenuti in piedi e fatto crollare perché si è pesanti e il cuore ha gravità più del nostro costato a volte. Si è pesanti e insinceri per idee campate per aria alla fine: le storie romantiche senza l’amore pratico: difendere, proteggere senza altro più.
    E’ dura non esser pesanti, altrimenti saremmo leggeri se non lo fosse!
    E’ stata dura essersi presi tanto a cuore la trasformazione della propria rigidità, essersi presi e aver dato tempo, considerarne l’incomprimibilità.
    Ma poi ci sono le storie di ‘’meno passione ci vuole, e più meccanica perfetta dei motori a reazione e dei cuori artificiali’’. E certe storie non è pesante mettersi qui a raccontarle: io sorrido e sto bene a sentire raccontare le storie degli androidi migliori di noi che si stanno progettando chissà dove. Per questo è servito e serve ancora studiare. Io sorrido nel sentire Richard Galliano mentre scrivo storie per portar avanti una ricerca. Sorrido anche se so che sono pesante, che in altri posti ci sarà da ascoltare un’altra musica, da trascorrere il tempo in un’altra maniera. Sorrido perché sono pesante a lamentarmi. Perché qui ci sarebbe davvero bisogno, ma di un’ostrica!!!! sulla lingua, delle ‘istruzioni per l’uso’ dell’ostricaio venuto da lontano, ci vorrebbe quell’ostrica che, appena ti si posa sul palato, è come uno scoglio in piena faccia e senti il sapore della roccia e dell’onda infranta sopra.
    Sono pesante anche per una questione di tempistiche, di incastri, perché ci vuole di non essere ritardatari, ci vuole un po’ di precisione, di disponibilità alla vita e alla vitalità propria e altrui, ci vuole un po’ tanto di tutto. E il gusto, quello sì che preme e grava sulla pelle e senti che non lo scacci via, che bussa e chiede di essere ascoltato. Il gusto è un compagnaccio scomodo in questi tempi dedicati alla mancanza.

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