anche le parole derivano dalla materia

Posted By claudiobadii on Feb 15, 2013 | 2 comments


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….(l’immagine si trova qui: http://www.undo.net/it/mostra/148775)…

In tal modo l’illimitatezza dell’apeiron(*) cominciava a manifestarsi come un plausibile segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina” (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93)

Dunque c’è, anche nella inesauribile ricerca, il sospetto di una più infinita espressione di divina immanenza. Questo chiedere, e chiederci a vicenda, sarebbe questa insistenza illimitata la prova d’immanenza. L’estendersi di trenta anni gli uni di fronte all’altro è l’apeiron, il senza limiti, la forma perfetta del non trovare mai la conclusione, il percorrere indecidibile: tutto questo un plausibile segno di illimitatezza divina, che risiede in tutto ciò che, a vederlo che si diffondeva in non rappresentabili modi, abbiamo cercato di comprendere osservando e proponendo gli strani disegni delle superfici topologiche. Avremmo invece, dunque, percorsa simbolicamente una assai più precaria ed incerta estensione? quella cioè delle riflessioni dei filosofi medievali? Noi siamo stati sull’area di una superficie (affascinante ci pareva!) che è solo il discorso che non avverte di stare girando attorno all’implicito che lo agisce? Dobbiamo concludere già ora che in fondo si è pensato per via che non sapevamo pensare?

Ho avuto paura, mio amore. Perché il pensiero mi è apparso un atto di sola soggezione. Più acutamente: di una soggezione invisibile e inconoscibile. Soggezione immanente. Allora sono ricorso alla nozione di affetto che mi deriva da ben differenti circostanze. In quelle circostanze l’immanente soggezione diventa estensione di parole. Sai, i prati di viole e di malva e di altre piante officinali. Mi sono figurato che i filosofi medievali avessero pensato di tenere l’amore in superficie, e implicito dio. Che avessero lasciato che ci amassimo pure, restando distratti dal dio implicito proprio nell’infinità di quegli amori indefiniti. Fecero anche una morale rigida perché restassimo concentrati nevroticamente su quel sentimento peccaminoso. Purché restassimo nello stupore amoroso con l’idea di dio infissa saldamente dentro di noi, dentro i nostri atti. Cosicché loro potessero restare confortati che l’illimitatezza dell’amore, l’indicibile del sentimento, l’inesauribilità della domanda, l’idea di mancanza propria del desiderio erano tutti segni dell’esercitarsi poderoso di una qualità di divinità incardinata nell’essenza umana.

Nella paura che ho provato mi è anche sembrato che, alla fine, tutto fosse diventato un po’ differente dall’inizio. E’ stata l’idea di te a limitare la paura. Hanno pensato dio dentro di noi: vabbè, mi dicevo, hanno affermato che è impossibile sfuggire, col pensiero filosofico, alla divinità che si annida in noi secondo una delle ipotesi del pensiero filosofico stesso. Dio è immanente a tutto, mi sono detto poiché è immanente al tutto come è nel pensiero filosofico. Poiché il pensiero filosofico, logico e razionale, è già pensiero divino. Esso, divino, stabilisce o preordina la propria immanenza nella propria trama secondo argomenti indefiniti e infiniti, secondo accostamenti ambigui tra i propri argomenti.

D’altra parte, un poco meno spaventato, ho provato simpatia, ho notato il loro pensiero poderoso. L’applicazione continua, ho immaginato. E poi il fluire delle loro parole, quando l’idea diventa persuasiva (non necessariamente vera ma di una persuasività incombente). Ho avuto simpatia per quei pensatori. E’ evidente che hanno pensato appassionatamente alla sacralità del procedimento della conoscenza. Alla sacralità della forma razionale e logica del loro pensiero, che hanno reso immanente all’idea della parola ‘verità’. L’hanno fatto con tale forza, che hanno potuto esprimerlo con parole che comunque hanno la qualità di apparire pensieri. L’hanno fatto raggiungendo parole di tale qualità che possiamo dire di fatto che molto spesso esse sono proprio pensieri, e che non è una trovata retorica, ma è una affermazione di oggettività semantica.

Ho pensato che essi hanno raggiunto il bellissimo risultato di un gran bel tono di linguaggio, un linguaggio complessivamente convincente per la sua composizione verbale. Ho pensato, però, che per capirlo davvero quel linguaggio, e per apprezzare l’umanità turbinosa ma anche l’irruenza spiritata e spirituale di quelle argomentazioni, dovevo far ricorso ad un ricordo. Mi stava venendo alla mente, di fatto, mentre leggevo quegli argomenti, quella volta che dicesti che avevi fatto un viaggio ‘meraviglioso’ e non finivi più di dire quella parola: ‘meraviglioso’…. Che non finissi più di dire quella parola significa che, pur avendola pronunciata una sola volta, essa era talmente ben formata che pareva potessimo seguirne le onde sonore fino ai limiti dell’illimitato universo. Nel viaggio avevi trovato alberi e acqua. Si ascoltava l’esauriente sapore d’albero nell’acqua sulle tue labbra, e l’acqua, caduta dall’albero, che diventava la sicurezza di piccoli sassolini salati sul palato, chiusi in bocca.

Io ora posso leggere i pensieri dei filosofi medievali come quei sassolini. Mettendo insieme i tuoi racconti con le loro riflessioni posso farmi passare la paura di cadere nell’irrealtà della divinità immanente, nell’irrealtà del pensiero religioso. I pensieri profondi e appassionati dei filosofi sono frammenti di universo. Sono frammenti di universo quei sassolini che tu riversavi in me durante gli appuntamenti: che in verità avevo progettato perché le nostre ricerche potessero salvarci proprio dalla confusione che quell’amore potesse essere segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina. Il nostro amore per la ricerca doveva distinguere la scienza del pensiero senza coscienza, dall’implicazione della divina illimitatezza.

Dovevano realizzare, praticamente, l’immensità della conversazione tra noi. Pensavo: ‘Tra noi potrò dubitare di me, della mia potenza di pensiero, come fossi tu la divinità. Non oltre’. Succedeva comunque che noi dubitassimo, ogni volta che trovavamo parole che erano pensieri. Nello stesso modo i filosofi medievali, presi totalmente dall’assunzione del discorso filosofico fino nel ventre divino, si perdevano sempre in un delirio mistico. Sono ricorso a te durante lo studio, perché la sessualità del corpo femminile vicino a me potesse evitarmi il misticismo. Per altro non sei servita a placare la frustrazione della mia arroganza, quando ho visto assai bene che, tutto ciò di cui da anni ci occupiamo è del resto, e da menti assai potenti, già stato preso in considerazione.

Con simpatia mi chiedo che ore dovevano trascorrere monaci e alberi fioriti e viandanti al sole e all’acqua. Pensavano dell’illimitato l’indefinitezza, come noi pensiamo all’infinità delle ricerche da fare, anche nelle cose sussurrate, anche nelle mimiche del rimando della procrastinazione, anche nelle strategia innocenti di dire ‘non ancora…non ancora’ per determinare ancora un poco di tempo. Dunque secondo il discorso dell’immanenza dell’indefinito dio vince, si appropria del discorso d’amore. Ma ora mi dico che, ‘no si appropria del discorso quando esso finisce di dire altro e smette di esserlo, un discorso amoroso’. Dunque è giusto ed è necessario che si vada avanti nonostante le difficoltà di incontrare così grandi intelligenze. Quelle filosofie così complesse. Quelle parole pensate, che diventavano esse stesse il pensiero che erano, che si sfrangiavano, come diffrazioni, attorno alle cose pensate e ne dicevano il nucleo e finirono per disegnarne l’arcobaleno.

Ho avuto paura leggendo dell’infinito in atto come la forma per eccellenza. “Essa è una materia infinita, indeterminata, eterna, indistruttibile e in continuo movimento.” (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93)

Poi un attimo di ripensamenti nell’etimologia: “Secondo Giovanni Semerano invece, ápeiron starebbe a significare fango, polvere e terra. Il che sarebbe molto più in linea con l’idea di arché degli altri componenti della scuola ionica.” (Wikipedia) L’idea della polvere e della terra, la filosofia della natura, l’origine materiale anche del pensiero e anche delle parole che derivano dal pensiero per esprimerlo. L’etica dell’etimologia, la morale della derivazione del pensiero dalle cose fisiche.

E poi, è pur vero che “.… l’illimitatezza dell’apeiron cominciava a manifestarsi come un plausibile segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina”… ma, leggendo oltre, …l’illimitatezza divina assunta nella proposizione immanente come indefinitezza dell’infinito in atto fa una “confusione rischiosa perché l’infinito dio e l’infinito apeiron dovrebbero pur mantenere evidenti le loro opposte nature per chiunque si ponga nell’angolo visuale, pur illusorio, del dualismo fondamentale di male e di bene, di limitato e di limite, di negativo e di positivo”. (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93). Questa immanenza, mi par di capire, rende indistinguibili proprio le qualità dell’infinità divina di cui essa sarebbe implicita manifestazione. Essa infrange “ almeno provvisoriamente le stesse leggi della creazione, consistenti in una  contrazione dell’infinità di dio nei limiti della forma, ovvero in una correzione, istante per istante, dell’indefinitezza dell’apeiron, mediante i precisi contorni di una figura assegnata.” (ibidem)

note: (*): ápeiron: l’etimologia più condivisa fa risalire il termine al greco a («non»), e péras («limite»), nella forma peiras del dialetto ionico di Mileto rappresenta, secondo la filosofia di Anassimandro, l’archè cioè l’origine e il principio costituente dell’universo. Wikipedia.

2 Comments

  1. Il “problema” ancestrale è la fusione tra le diverse rappresentazioni dell’infinito (tempo, materia), se rimango nella materia essa è infinita, indeterminata, in movimento, ma non è eterna e non è indistruttibile. Entropia docet: universo si espande, ma poi big bang o big crunch ?
    Il tempo scorre e rispetta le definizioni date (infinita, indeterminata, eterna, indistruttibile e in continuo movimento), malauguratamente è sempre relativo, si adatta alle dimensioni.
    A questo punto si prova a risolvere il dualismo dell’infinito inserendo DIO, ma la parola infinito significa non finito e secondo me non possiamo definire l’infinito da un mondo finito e viceversa, lo percepiamo, ma come avviene per il principio di indeterminatezza di Heisenberg (1927):
    « Nell’ambito della realtà le cui connessioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi ad una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere (all’interno delle frequenze determinate per mezzo delle connessioni) è piuttosto rimesso al gioco del caso »

  2. Penso alle lunghe dissertazioni che hanno rigurdato l’immanenza e la trascendenza e se tra queste vi fosse dualismo o causalità…e poi penso a tutte quelle storie e quelle canzoni che ti raccontano di uomini e donne fattisi sacerdoti per pene d’amore, o che invece abbandonano Dio per l’amore terreno, a come troppo spesso si rappresentino questi sentimenti e desideri come parificati o antitetici nella loro troppo spesso mistificata qualità di mezzi per vuoti da riempire. Di certo, se non si è ammalati, uno ha la qualità della realtà (sessulaità), l’altro dell’irrealtà (misticismo). Eppure nel richiamo alla divinità immanente non riesco a non vedere una qualità precipuamente umana: il pensiero. Mi chiedevano pochi giorni fa: tu, che sei atea, iconoclasta, più realista del re, dicci: di cosa è fatto il pensiero? Di materia. E’ il tuo cervello che lo genera e se anche ci fosse una divinità immanente a che servirebbe se non ci fosse una mente che può pensarla? E’ l’attivazione del pensiero alla nascita che rende possibile l’esistenza di ciò che ci rende umani. Come sosteneva Giordano Bruno, la religione non dà che una conoscenza parziale, di seconda qualità, poiché non ragionata, ottenuta cioè solo per sensazione e senza l’impegno cerebrale. E se fosse la presenza dell’immanenza divina ad aver generato la soggezione del pensiero? Pure è lecito il dubbio di tale immanenza di fronte alla nostra meraviglia in un campo di malva…eppure credo che il campo di malva sia meraviglioso perché lo vediamo noi che siamo meravigliosi, perché l’immanenza che ci pervade è la capacità di pensiero e cioè di umanità. Infatti penso e scrivo queste cose…faccio molti discorsi…ma penso anche che se trovassi un amore che sa baciare bene, ogni tanto mi zitterei volentieri! 🙂

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