affetti


Sketch 2013-12-01 11_23_17

“ASPETTI DEL PENSIERO UMANO”
©claudiobadii

Il vuoto impercettibile dell’aria tra la tua e la mia pelle è quanto ci lega. Misuro con lo sguardo la distanza tra i tuoi occhi. Misuro. Approssimativamente. Perché gli estremi mi sfuggono. I limiti delle cose dovrebbero sovrapporsi ai segmenti segnati sugli strumenti di verifica. Io li avvicino, allora, secondo il metodo basilare scientificamente necessario. Tendo un nastro flessibile sulla curva della tua fronte. Come scintille dalle estremità in contatto fuggono dalle mani cifre decimali. Centimetri. Millimetri. Frazioni di millimetro. Acqua, sembrano. Sono di amore liquido le misurazioni della città delle scienze esatte. Rinuncio, poiché il metodo è bellissimo, ma tu di più. È che, a questo punto dell’indagine medica sulla natura costitutiva del pensiero e sulla malattia del pensiero, la psicologia sembra coincidere con l’ontologia: ed è un po’ così poiché un vero pensiero medico sulla sanità mentale non c’è mai stato. Tutti confondono il pensiero con la filosofia. Però la filosofia ha il metodo della metafisica, e le relazioni del sillogismo o della dialettica, e l’opposizione dei contrari: cose che la biologia alle propaggini dei suoi costituenti primi pare eludere. E la psicologia, d’altra parte, non ha che il metodo dell’interpretazione del pensiero, una affrettata illusoria teoria della comprensione del pensiero una volta che gli si attribuisca la funzione provvidenziale di essere ‘là’ per generare una certa ‘metafisica della storia’. Finanche della storia del singolo. E vai che arriva l’interprete, provvidenziale pure lui, una sartina per rammendi dell’ultima ora.

Il fatto è che le misure non funzionano nella valutazione del legame tra fisico e psichico. Un pensiero, una volta nato, non torna più indietro. Non ha una casa in una struttura stabile, in ben circoscritti nidi cellulari. Da quei ventri spazio-temporali della massa cerebrale, dai quali si erano generate decisioni preferenze e giudizi, momento per momento nascono ancora idee e attività per il servizio di vigilanza e sogno quotidiani. L’irreversibilità della generazione fa parlare di una ‘realtà non materiale’ della vita psichica. Se stimolassimo ognuna delle aree responsabili delle raffigurazioni di cose e idee specifiche, non otterremmo più quelle precise cose e idee. Il soggetto fonda la certezza di sé sulla propria irripetibilità. Grazie a questo potente dato identitario possiamo misurare ‘a braccia’ la rotta, approssimandoci solamente, alla linea della verità definitiva. Sempre le estremità ci sfuggono dalle mani con le dita affusolate di lei che si era sciolta dall’abbraccio. I confini delle coste, percorse insieme negli anni luce trascorsi nel tempo fino a qui, dovrebbero sovrapporsi ai confini delle coste segnati nella nostra valutazione della loro geografia. Ma così non è. Come fossimo strumenti di verifica l’una per l’altro, ci avviciniamo, seguendo, nella vita amorosa, il metodo basilare della scienza.

Sovrappongo le mie mani flessibili alla curva della tua fronte. Come scintille, a contatto con la tua pelle, si sprigionano dalle mie mani cifre decimali di centimetri, millimetri e frazioni di frazioni di millimetro. E in quel fluido di particelle di fuoco so di aver fallito l’assoluta corrispondenza. Di aver mancato la conclusione. Nel ‘non morire’ -caratteristico dei semidei e della vitalità della attività biologica del pensiero- riposa la settima proposizione del trattato logico filosofico di W. “Ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.” Penso da tempo che la scoperta della “vitalità” da parte di M.Fagioli può consentire alla ricerca medico filosofica di riprendere. La filosofia dovrà dare voce al silenzio seguito alla settima proposizione e tornare indietro, fino ai presocratici. La medicina potrà andare irrimediabilmente innanzi, fornire assicurazioni che l’idea etica e filosofica della libertà di pensiero e ricerca della verità è garantita da una fisiologica sanità della vita mentale.

La libertà ha fondamento nella mancata corrispondenza bi-univoca tra nidi anatomo-funzionali e rappresentazioni mentali. Nella biologia cerebrale c’è una complessità che sembra escludere la possibilità di una coerenza deterministica dei procedimenti logici e dunque la loro riproducibilità sperimentale. Il pensiero della vita umana è protetto in un sistema chiuso. La vitalità dovrebbe indicarci come l’attività cerebrale possa trarre energia, per funzionare biologicamente, da un esterno comportandosi come un sistema aperto, e poi, al contrario, come possa sfuggire del tutto a qualsiasi azione della propria ‘causa’ sui processi di indirizzamento spontaneo e libero del pensiero.

L’amore – insomma qualcosa di pertinente ad esso – è la chiave costantemente variabile di un apparato crittografico, i cui elementi sono i singoli neuroni, le loro relazioni anatomiche e il rimodellamento sia delle cellule che del numero e la distribuzione delle sinapsi.

Scorro le dita sui tuoi capelli. Tu ti volti appena sorridendo riposata. Non saprò mai stabilire (misurare scientificamente) chi sia, in questo momento, più felice tra noi. Si capisce come, in circostanze di questo genere, il pensiero sia il processo coerente ed irreversibile di corrispondenza tra idee mute caratteristiche della permanenza della funzione pre verbale e la piena coscienza della propria gioia che si dice con parole.

Read More

affetto e identità


Posted By on Ago 27, 2013

foto
“La Tempesta”
©claudiobadii
per
OPERAPRIMA

Non sono riuscito. L’affetto è rimasto. Appiccicato. Il miele. Le dita. Resina di quando ero ragazzino. Non sono riuscito. Smacchiare coi solventi? Sarebbe una rovina! Restano. Il miele e le resine restano sangue dei pini e delle api. Così per gli affetti rimasti (non sottratti) le persone a volte si ammalano. Anime impalpabili di seta. Tutte attenzione e attesa. Le pretese restituzioni non ritorneranno. Le anime impalpabili si diffondono. Adottate da nuovi genitori. Amanti di ghiottonerie. Al fondo sempre ‘sul punto di morire’. Di ‘affogare’ nel miele. Di lasciarsi travolgere. Ammala scoprire qualcosa. Qualcosa è quanto è ‘di più‘. Quanto è ‘giusto‘.

Sarai sempre sul punto di non farcela. Ma  potrai sapere tutto. Disperarti. Per niente. Resterai volubile. Incomprensibile. Isolata. Lontana. Affranta dalla personalità esuberante di una figura appena percepita. I pensieri saranno premonizioni al loro stesso generarsi. Ancora nel buio cellulare. Non sarai ‘buona‘ a causa della tua incostanza. Sarai capace ma non ‘buona‘. Desiderata ma non amata. Perché l’affetto che ti agita non consola. Non perdona nessuno. E invece “Ti amo” pretende d’essere “Perdonami”. Perché amare vuol dire implorare la propria legittimazione. Le persone amate, diversamente da te, hanno la fermezza cruda. Le persone che possono essere amate -intendo dirti- è perché possiedono la cruda fermezza di un affetto parziale. Un affetto che le accontenta. Che non si espone. Che non può essere mai ferito. Esse hanno l’io solido che acconsente. L’affetto tuo invece è di più. Dunque è quantomeno ‘qualcosa‘. Intralcia la linearità. Appiccica le dita. Impedisce la condiscendenza. Avrai l’arte. Il tratto semplice sul foglio. Tu sarai immaginata Miele e Resina. L’affetto -il non sottratto dell’origine- è qualcosa che rende maestosi. Avrai la maestà tragica di un capolavoro. Sarai più di tutto perché ogni volta sarai qualcosa al cospetto della parzialità che rasserena poiché tutto rende somigliante al resto. Non riusciranno a farti migliore perché non si migliora l’impazienza con cui tu continui a riconoscere il mondo. Così nessuno potrà consolarsi e sentirsi buono dichiarando verso di te le sue migliori intenzioni.

La mareggiata di stamani. Le onde che si prendono la spiaggia. Si vedeva chiara e lontana la figura triangolare nel cielo che ieri avevo disegnata. Era una figura triangolare tra le nuvole. Le nuvole erano Scilla e Cariddi capovolte. Quando le orribili sirene precipitano urlando sotto la spinte di attrazione dell’affetto che scivola in mezzo a loro muggente e ben piantato. La natura aveva possibilità di recepire la proiezione di bellezza di anime sensibili e accettava regali che non avrebbe più restituiti. Bagnanti affascinati dal mare travolgente fino alla pineta erano le anime impalpabili di seta tutte attenzione e attesa. Coi piedi nel fiume d’acqua salata che tornava nell’alveo del Mar Tirreno dopo ogni ondata mi ripetevo che “…. l’affetto più spesso può ammalare e distruggere l’identità fragile dei primi anni. O può avere la conseguenza di renderla definitivamente certa e potente“.

Read More

la libertà di scrivere


Posted By on Gen 26, 2012

la libertà di scrivere

Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: che non è che sia delicata come essa appare ed è solo e soprattutto e definitivamente (per cominciare) uno scandalo.

Si tratta di mani che hanno la forza che -all’inizio di tutto– era per uccidere avendo impugnato la mandibola dello scheletro del rinoceronte o del cervo. E però, adesso, esse fanno cose indicibili che solo agli amanti in genere sono permesse, che alle vette dell’eccitazione dovrebbero condurre l’amore. E invece sono la ragazza o il ragazzo silenziosi, come automi d’aria, sospesi alle nuvole galleggianti sopra le nostre spalle, a fare su di noi gesti che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere: e che al contrario, in genere, non sa (non vuole) compiere.

Appesi come giacche da sera alla gruccia celeste degli uragani, esprimono l’indicibile e pongono la domanda su quanto sia importante usare la forza. Una forza inaudita e silenziosa. Una forza che non ha parametri. Lo scandalo del massaggio è una delle tante cose che si oppone alla letteratura. Il massaggio è uno scandalo che sfugge, chiudendosi nella sua casa di perfezioni. Consente l’uso della forza per il benessere, come si usano le armi affilate per le operazioni chirurgiche. Noi girati di spalle possiamo guardare il sangue scorrere in assoluto silenzio. Perfettamente obbedienti, il nostro sangue e noi stessi, al comando dei rianimatori che hanno a che fare con la vita e la morte, né più né meno.

Lo scandalo delle mani si oppone alla letteratura che vuole -vorrebbe- dichiararsi lieve e umanissima nella sua capacità di raggiungerci il cuore. Il massaggio realizza da fuori, misteriosamente, con l’azione sulla pelle, ciò che fa perdere la testa impedendo la coscienza. Non il pensiero.

Il massaggio fa parte della mia formazione. Lasciare che il ragazzo e la ragazza, appesi al cielo per quanto ne so disteso come sono seminudo sul lettino pulito, con la forza facciano quello che nessun altro potrebbe fare -se non con l’intento di seduzione o d’amore appassionato in una estrema realizzazione di civiltà del rapporto che porta al sesso e alla reciproca gioia- è parte integrante del mio transfert con il mio mondo umano.

Mi faccio la formazione anche, e forse soprattutto, attraverso oggetti parziali: libri, riviste, articoli scientifici. Ho sempre la sensazione, di fronte alla vastità del panorama, di dover operare delle scelte che saranno esclusioni. A causa di questo eccesso di libri e oggetti parziali, che costringono a fare delle esclusioni, perché l’offerta eccessiva sottrae il tempo per le scelte, ho più sicura la certezza che si scrivono libri poiché gli altri esistono.

Chiarisco: si scrivono libri affinché essi (gli altri) non esistano più: per un poco, almeno per quanto dura l’azione della scrittura. Avevo scritto che la letteratura è spietata ma ora dico di no, la letteratura è ingannatrice e pietosa, poiché essa assolve. Alla fine assolve l’omicidio che essa stessa compie, e lo fa facendo finta che si possa dire che una cosa finisce, che c’è un arresto del pensiero.

Ma non vengano a dirlo a noi lettori instancabili: perché alla fine della scrittura dei libri, che fa dello scrivere semplice letteratura, noi iniziamo tutto il tormento per aver letto qualcosa senza capire perché sia finito proprio là. E che cosa significhi che è finito. Dato che poi noi restiamo svegli o che, al contrario, ci eravamo addormentati infinite volte leggendo: come se noi stessi fossimo il testo che continuava. Come fossimo un testo in carne ed ossa, un testo immortale.

Noi che leggendo non avevamo coscienza di noi, seppure avevamo la veglia e il movimento e forse addirittura la volontà e la capacità di intendere, alla fine del libro siamo rigettati a qualcosa che non è chiaro. A qualcosa che dice “…era solo un libro”. Allora noi aggiungiamo: ” …già davvero: era solo un libro scritto per ucciderci!”

Lo sbarco nel mondo nuovo, dunque, non dovrà essere uno stile diverso delle forme delle attuali scritture, ma uno scrivere senza posa, una rivoluzione del comportamento, cioè dell’immagine inerente a scrivere: che sarà arricchita di un avverbio di tempo, qualsiasi cosa esso significhi: scrivere sempre. Scrivere sempre sarà operare un’azione per privarla delle sua intenzioni estenuandola all’infinito. Realizzando la sua verità che è la sua impossibilità di essere conclusiva.

La demistificazione (non) avrà (più) nessuna rabbia, poiché la cessazione della finzione non sarà denunciata nel testo della scrittura, ma sarà esercitata con l’insistenza a tacerla agendo incessantemente con mani forti precise e decise sulla carta. Poiché si scriverebbe per seppellire, e la scrittura avrebbe il rumore di una gigantesca macchina per lo spostamento terra, l’unico modo per smettere di operare questi seppellimenti -che non sono neanche rimozioni ma subdole coperture- è quello di non prendersi il tempo per una qualsiasi sospensione.

Non vogliamo prenderci quel tempo e questo avviene perché sappiamo che la sospensione sarebbe la fine, e dunque il completamento del tumulo: seppure in tal modo avremmo molte benemerenze, in quanto salveremmo l’idea di letteratura cui per tanto tempo si sono rivolti in molti -con stimmate autoinflitte o peggio di origine psicosomatica- a caratteristica di erudizione e impegno.

Attualmente, e per chissà quanto ancora, a causa di tutto questo scrivere, perché sembra inevitabile (non lo è) che se si è scritto dovremo leggere, lo ‘scritto’ diventa, in quanto inevitabile, definitivamente impossibile. Tuttora comunque si vede bene che noi leggiamo sempre, obbedienti: leggiamo tutte le parole scritte nei libri (le parole della letteratura) che in realtà sono state vergate per seppellire le nostre stesse possibilità. 

Sappiamo che è così e che leggendo diventiamo in qualche modo peggiori: perché procediamo ad una identificazione con i nostri uccisori, con gli architetti della letteratura che in realtà sono i padroni e non solo i produttori di libri. Sappiamo benissimo che la letteratura distrugge. Essa distrugge non tanto le nostre possibilità di dire qualche cosa di più, ma le nostre salutari ed indispensabili speranze di non dire più nessuna altra cosa. Che è il motivo per cui ci hanno abituati a pensare dovremmo leggere. Per riposare. 

Sappiamo tutti che la letteratura così come è -proposta sotto forma gradevole nell’offerta di opzioni pluralistiche- non fa che impedirci sempre più crudelmente ogni possibilità di tacere. Allora: solo scrivendo senza posa, senza mai arrestarci – perché arrestandoci completeremmo qualcosa e avremmo un libro – solo quindi scrivendo senza mai scrivere libri – potremo fare la differenza tra letteratura e scrittura, e potremo realizzare l’immagine di un silenzio di fondo.

L’ immagine dell’identità originaria indicibile e sicura. L’idea della materia dormiente che non è biologia senza vita umana e non è neanche natura indifferenziata. Semmai, e al contrario, è realizzazione di funzioni che, in quella condizione, non sono in grado di pensarsi mentre accadono. La realtà del non cosciente essendo che esso non sa pensarsi.

Ti racconto chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: cioè finalmente (per cominciare) uno scandalo. Le mani che fanno cose indicibili che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere e che in genere non sa compiere. La volontà di ragazzi e ragazze che raccontano la forza indicibile che non ha parametri di scrittura. Una forza niente affatto letteraria pur nella sua estrema umanità che fa perdere la testa impedendo la coscienza responsabile ma non il pensiero.

Sotto le mani sapienti facevo le libere associazioni. Ho fatto la scoperta dei piatti di portata dell’orco. Esso cucina e porta in tavola i nostri ultimi spasimanti spellati vivi, e i generali che hanno restituita la divisa per la parata. Sotto le mani sapienti la volontà è divenuta l’idea di mantenere vivo il pensiero di dire tutto questo come un sogno.

Ero lo schiavo testimone in fondo al corteo. Mangiavo pane bagnato. Non mi avrebbero più ucciso: ed è stato così che ho scoperto la conoscenza (guarigione?) accidentale come variabile imprevista: una tra le infinite versioni della mia vita intera. In fondo al corteo ho capito che era necessario scrivere ma non scrivere libri.

E per quanto riguarda noi due posso affermare che è assolutamente necessario che tu interpreti i miei sogni. Ma non che li interpreti ogni volta con una versione definitiva e intransitabile. Ma invece che tu li interpreti non smettendo mai più di interpretarli. Che il tuo amore (lavoro!) sia di restare continuamente a interpretare. A realizzare, nella pratica, l’unico sogno che non si racconta perché non si può: l’ultimo sogno che arriverà quando non ci sarà più nessuno.

Tu giovane amore devi (se posso permettermi) interpretare la vita prima che essa accada. Tu devi stare lì accanto con coraggio perché io possa protestare contro di te dicendoti che “…avresti dovuto interpretare la mia vita da subito. Restando.” Perché io adesso ti devo spiegare, in forma cosciente e ragionevole -affinché tu alla fine abbia la sensazione cosciente di capire come stanno le cose ‘dentro’- che io (forse anche molti altri) sogno l’altro che c’è stato da subito.

Che sognando, secondo un pensiero che non sa pensarsi mentre accade, proprio per quella qualità del pensiero del sogno, stabilisco il sempre una volta per tutte, che è nascere. Sogno la possibilità di una nascita quando il pensiero non sa pensarsi ed è per questo che non è cosciente. Ed è per questo che è in genere anche bello.

Hai notato mai che i bambini sorridono quando si pronuncia “….C’era una volta…” (noi, sospirando): e allora loro sorridono per premiarci di una scelta vincente. Poi non ascoltano più altro che i toni e il timbro di guerre e rappacificazioni. E si addormentano, in genere. La fine non ha fascino, solo il non finito ne ha, solo la scelta corretta definitivamente vincente di quel modo di parlare.

E’ dunque evidente che scrivere libri è un tradimento: perché illude che si possa scrivere sempre e soltanto, cioè inevitabilmente, fino ad un certo punto. Mentre in verità l’unico modo di scrivere è scrivere sempre. Quasi scrivere continuamente, se si è abbastanza intelligenti (innamorati) in grado di accettare la provocazione amorosa. Così penso che, anche a proposito della formazione, l’insistenza e la continuità debbano averci molto a che fare. Ma per adesso non saprei dire di più.

Dunque per adesso non aggiungo che questo: che i libri e il riposo fanno la sfilata dei reduci vincitori, quelli con l’armatura ancora addosso, fanno la versione faziosa degli avvenimenti. Non ho mai capito se, nella confezione editoriale, ci fosse più dolcezza o crudeltà. Ho l’idea di molti guasti attorno a me, nonostante l’enorme vastità del panorama culturale, e mi dico che: la vittoria ha la testa del nemico nella mano fusa ai capelli con il sangue. Sparge gocce in giro. Si nutre leccandosi le ferite

Il silenzio durante la scrittura deriva da una azione presuntuosa di appartarsi per non capitolare alla vittoria in battaglia. L’azione di comprensione che vincenti sono le scelte. Così non c’e bisogno dell’omicidio rituale. Allora è evidente che la parata dei talenti è la fila per il pane. La fila di quelli che si sono riservati una posizione dalla quale avere sempre da ridire. Restando: l’uno con gli altri.

Ha ragione M. Fagioli: la pulsione, che è lo specifico disumano dell’uomo, è fantasticare come ‘non essere’ la realtà del non materiale del pensiero. Fantasticare sbrigativamente che il non materiale è non umano. Lasciando la libertà di pensare, di concludere per conto proprio che “…di conseguenza il pensiero, se non è biologia, è ‘natura’…”.

Procediamo con le gocce di sangue: scrivere non è scrivere libri. E’ scrivere sempre, continuamente. Io lo chiamo amore solo perché non ho trovato ancora una intelligenza personale che mi affranchi da quella parola così affascinante da pensare. Quello che conta adesso è dire che non è alla fine che si vince. Vince chi lotta sempre. Chi ha l’insistenza (la forza nel tempo) di stare lontano dalla vittoria che è sterminio e omicidio. Lottare è riproporre la scelta vincente. Non imporre il nesso che è vero ciò che si è rivelato più distruttivo per i nemici.

Dunque ci sono pensieri pericolosi e dovremo tener conto continuamente della potenziale pericolosità di questo medesimo pensiero. Così alla ricerca di te, delle ragioni dell’amore per te, alla ricerca della conoscenza attraverso la formazione, non riesco a smettere mai di dubitare. Al centro del mio pensiero e della gioia stessa di pensare, al centro della possibilità di pensare come destino, c’é un dubbio così espresso definitivamente

e se….?”.

Questa proposizione mentale, nella forma corrispondente alla composizione grafica con cui è segnata qua sopra, funzione di una fisiologia irriproducibile dalla cibernetica, è diventato per me il pensiero dell’altro. La certezza che esso esiste ricco di dubbi ben distribuiti. Secondo l’estetica della semina probabilistica. Quella semina, quella distribuzione, è la forma complessa del suo pensiero. Ripropone le parole e impedisce che la scrittura si arresti.

L’amore che amo esiste piena di dubbi. I suoi attributi, la sua bellezza, le sue speciali qualità sono i suoi dubbi probabilisticamente ben distribuiti. Se vuoi. Ti racconterò di chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Smise di essere in ansia chi si era invaghito delle forme del dubitare. Poi….

[banner align=”aligncenter”]

[banner network=”altervista” size=”300X250″ background=”2B2B2B” text=”919191″]

Read More

l’amore a memoria


Posted By on Gen 18, 2012

l’amore a memoria

Fosse per me metterei giù ogni volta le innumerevoli cose che amo. Quello che mi colpisce. Che mi arresta. Che mi impedisce di essere obiettivo. Fosse per me metterei, oggi, il volto della Venere del Botticelli. Il poeta tra i diseredati coperti di fango che piove dal cielo. La penna che si insinua verticale sulle curve delle ali di un gabbiano in totale controluce.

Glenn Gould che suona da trenta centimetri da terra il viso poco sopra la linea della tastiera del suo pianoforte a coda. La poltrona da sole davanti alla natura di un mare malato come una tomba pallido come la pietra. La ragazza sulla camminata al mare che si getta verticale contro la costa. La ragazza con il volto che guarda lontano offrendo solo i capelli neri a questa lato della fotografia.

Dipendesse da me metterei i graffiti delle zebre e dei cavalli. L’anonimato dell’universalità. Il bagno nel mare di latte del Mondo Nuovo di Crialese. Il coraggio di un sogno di assoluta pacificazione. Un unico attimo nella vita. Le mille nascite degli emigranti infagottati. Lei inappuntabile col suo cappellino demodè. Lei già Herpburn, da Tiffany ante-litteram. Lei che amerà anche per necessità la nuova terra.

Fosse per me alla fine metterei la foto del cinque di novembre del 2009 che avevo intitolato ‘IMC’ …indovina! Inconscio Mare Calmo: tanto trent’anni fa fui ‘toccato’ -un vero e proprio scemo– dalla scoperta di M. Fagioli. Eppure la formulazione inconscio mare calmo era provvisoria, necessaria, urgente: poi si sarebbe sviluppata molto col lavoro e gli affetti della ricerca.

C’erano queste possibilità di scelta. Poi sono entrato in casa. Niente faceva presagire. Niente fa mai presagire nulla, questo è. Le cose sostanziali non si presagiscono. L’amore coglie improvviso. Senza premeditazione. Niente! Neanche la scienza ha messo nessuno al riparo dalle invasioni barbariche del pensiero irrazionale  e generativo. Entrando in casa ho visto il vostro sorriso precipitare giù con la sua drammatica arrendevolezza.

Ho visto mettersi in scena -nella penombra del soggiorno- il mio dramma: la mia arrendevolezza al vostro sorriso. Le rughe della fronte che si spianano, gli occhi che si allungano, si socchiudono e tutta la felicità che scatena la vostra anima mimica che si riversa sulla vostre labbra addolcite. La linea delle labbra che si inarcava alla conquista del cielo. Ero solo in casa oggi e potevo permettermi certi lussi.

Allora la traccia di voi è incisa nella mia mente. I neuroni ‘specchio’, probabilmente, o chissà quale diavoleria. Una cosa tra l’amore e l’identificazione. L’intensità dell’affetto. Certo, l’affetto, come vuoi chiamarle ‘ste cose qua. Nel soggiorno oggi ero io che sorridevo al ricordo di voi. Il ricordo di voi: cioè, si deve dire, il mio sorriso. Quand’è così, quando il corpo vi ricorda come una poesia, io sorrido.

E’ un amore a memoria. Che mi ha cambiato. Siete così belli. E’ bello avervi addosso come una traccia, una traccia che è sapere. Intendo dire come saper nuotare e saper andare in bicicletta. Quelle cose che restano sempre. Perché ci sono amori che siamo certi di poter giurare che resteranno. Amori che non hanno bisogno di menzogne. Voi che adesso siete così vivi. Seppure appena un poco più lontani.

[banner align=”aligncenter” background=”2E2E2E” text=”A3A3A3″]

[banner network=”altervista” size=”300X250″ align=”aligncenter” background=”2E2E2E” text=”ADADAD”]

Read More