fallingwaterhouse

Posted By claudiobadii on Ago 8, 2011 | 0 comments


fallingwaterhouse

(pretesto: per una strana confusione culturale si racconta di un pensiero originario come attività mentale che non sarebbe creazione di nulla ma misura che computa le cellule e subisce i metabolismi misurando il tempo in termini di consumo: è la nascita dell’uomo con l’angoscia di morte afflitto dalla estrema misera in cui le vicende sono misurazioni di entropia: non c’è traccia di attribuzione di nascita alla nascita: non c’è l’io nel bambino….ma è sbagliato!)

Il fuoco fa pace con le metafore non so dire come. Se piove sul filo teso è poesia dell’impossibile: quante gocce e a che differente distanza fanno vibrare la canapa di cui è complessivamente ritorto la corda sottile? Del pensiero che scatta ci si invaghisce. Del fatto che siamo in grado di proiettare edifici di delicatezza nel caos della natura – per poi trarne leggi – si resta appassionati tutta la vita. Percorro con l’esattezza di un orologiaio la pianta irregolare pensata, esploro il cortile, rifaccio mille volte distrattamente la strada, camminando concludo che la ricerca è questa irregolarità di natura umana di rifare le stesse cose accertando ogni variazione minima e gloriandoci della nostra stravaganza che si allieta di quasi (!) niente.

Non potrei vivere se non mi fosse venuto in mente ogni volta il tempo e la luce e che il pensiero non avanza verso alcuna meta. La provvidenza sono le sue mani e il fatto che manda una rosa -….beh – questo è solo in apparenza così tanto differente dai girasoli di prima di adesso. I racconti non esprimono mai alcuna successione semmai suggeriscono con piacevole maestria che i grandi accordi sono quando non si ha paura delle coesistenze.

E’ notte bianca: il massimo della civiltà non è il sonno ristoratore della fatica di vivere: è restare svegli a sognare a spese dei sogni. Abbiamo progettato case e città da mille e una notte per stare nelle strade con gli occhi stupiti del fatto che tutto quel lavoro architettonico non era per abitare: non per abitare l’interno delle strrutture edificate. Disegni di mura affiancate abbracciate ritorte e contrapposte piegate deviate scavate aperte con porte pilastri scavi. Sculture di cose immaginate, di idee in sè, che sono cose in noi.

Espressioni di un’arte che trasformano la pietra in curve di accoglienza e poi alla fine una volta ricomposto tutto e tutto arredato – dopo uno sguardo fugace – eccoci fuori a vedere dall’esterno tutto quello spreco tutta quella meravigliosa manifestazione di potenza creativa quel mondo graffiato quegli incroci di strade e anche di ordini differenti di finalità sociali. Eccoci in giro negli agglomerati urbani, nella società dei palazzi dei tetti delle stazioni dei mosaici di tessere simili a pensieri a fumetti.

E là – proprio in tutto quell’ essere certi delle belle conseguenze d’essere umani – in quel modo complesso e indescrivibile – in mezzo al via vai delle possibilità convergenti o contrapposte – eccoci a voler decidere ogni volta ‘che fare’ come allora nei boschi. L’uomo primitivo – che sceglieva già subito con amore le sue strade invisibili – è di nuovo finalmente stretto alla nostra mano ai semafori come un fratello ritrovato e ricorda.

Abbiamo disegnato il mondo a partire dalla scienza del pensiero intimo – non privatoescluso – secondo l’Atlante di Anatomia Umana Normale delle Immagini Interne. In esso si evidenzia che non c’è in noi il Maligno e che semmai siamo noi stanotte quelli che voliamo per le strade come Miracoli di Innocenza. Passeggiando rumorosi buttiamo occhiate attraverso le imposte semichiuse. Così siamo fuori in questa notte bianca ma siamo anche un poco nelle case.

Siamo un poco quelli che non sono ancora usciti: quelli che fummo quando immaginando mondi – che poi abbiamo costruiti – ancora si abitava il disegno. E ne abbiamo di esempi per raccontare quello che siamo diventati dopo essere stati atterriti dai fulmini. Siamo la Casa Sopra la Cascata – tra molte altre cose. Siamo noi che parliamo di noi. E siamo assolutamente certi di aver costruito per  scrivere di queste scrivanie di passione, della vita nei segni della scrittura.

Siamo la certezza di essere noi che parliamo di noi – che diciamo di essere case sulla cascata. Noi arrediamo l’ambiente ostile con una imprevedibile serie di invenzioni architettoniche e linguistiche indistinguibili talvolta. Manteniamo comunque l’arroganza aristocrtica dei senza tetto vestiti con modelli transitori di sartoria di cartoni che ci scaldano in grande stile. A qualcuno facciamo addirittura invidia per la maestà del portamento libero. Il linguaggio affascina quelli che non terrorizza. Conferisce larghezza di vedute.

Il linguaggio è l’attico di marciapiede questa mattina in cui – come la luce fosse un luogo – siamo assorti nella spossatezza del buio attraversato. Questa mattina è per noi la civiltà luminosa della nascita ad occhi spalancati che non si andrebbe mai via e che è impossibile dimenticare tutto quello che è stato. Questa impossibilità di dimenticare di stamani dopo la notte bianca è stata definita molto tempo fa nel migliore dei modi vitalità. E’ soggettività e si oppone all’irrealtà di un vuoto di segni della mente neonatale che non è mai stata una tavoletta di cera.

Se piove sul filo teso è poesia? Quante gocce perché suoni la corda sottile ritorta? Del pensiero che scatta ci si invaghisce? Sono tutti in grado di scorgere i delicati monumenti delle leggi che governano ai nostri occhi la natura, le giostre a pochi soldi, le creazioni di plastica dei giocattoli per i nostri figli, le fattispecie di amori possibili, le parole che durano quanto la vita di chi ascolta? A chi chiedere la risposta alla domanda se la misura del tempo fuori dal sogno sia rintracciabile soltanto nella vicenda affettiva?

Ho pensato più di una volta senza dirlo “Finchè vive sarò eterno perché il mio durare è permanenza nel suo pensiero.” Ora mi dico che si vorrà che ci sia di più. Ma di più non c’è. Noi abbiamo memoria e attraverso la nostra memoria siamo testimoni delle esistenze delle persone che amiamo e per questo restiamo legati e facciamo il linguaggio e realizziamo il patto sociale che è più forte di tutto: è una testimonianza collettiva.

In funzione della realtà apparentemente precaria del nostro durare negli altri che fa il contratto politico tra esseri umani costruiamo capolavori che di questo contratto ricalcano la forza e la grazia. Una volta costruito il mondo viaggiamo per amore della meraviglia – e nel mezzo denso di questi nostri viaggi – qualche volta – capita che ci scopriamo improvvisamente sospesi ad osservare la ‘nostra’ bellezza.

Essa è evidente nel mondo riflesso sulle pareti a specchio dei grattacieli ben tesi verso l’alto fissati saldamente al respiro degli anni futuri. Il linguaggio è l’attico di marciapiede questa mattina in cui – come la luce fosse un luogo – siamo assorti nella spossatezza del buio attraversato.

Questa mattina è per noi la civiltà luminosa della nascita ad occhi spalancati che non si andrebbe mai via e che è impossibile dimenticare tutto quello che è stato.

Non si andrebbe mai via non è per angoscia della morte ma perché stiamo bene qui. Per la gioa della vita.

(Ripresa: non siamo del tutto ingenui suicidi che si va alla vita ad occhi chiusi: sappiamo bene i rischi e tuttavia -seppure e proprio perché ‘soltanto’ ‘cinema’ -ci appaiono bellissimi da esprimere: se non si è così pericolosamente ignoranti che confondono l’immagine con la figura. Ecco qua! )

 

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