la conoscenza attraverso lo studio infinito di una SCIENZA racchiusa in una TEORIA

Posted By claudiobadii on Mar 30, 2012 | 2 comments


 

Resta una fluttuazione a proposito del concetto di immagine inconscia non onirica. A proposito della formazione della immagine poi della parola e infine della scrittura. “Sai va bene”  Siamo costituiti di lontananze. “Tu sei il pane e il sole laggiù”  La distanza non farà mai l’imperfezione. Resta esatta la figura della misura di te e del tuo lavoro. “Non ti avevo mai sentito l’allegria del lavoro sulle parole nel telefono” La testa appena reclinata all’altoparlante immaginavo e il sorriso beffardo e buono che hai. Inclinato di circa ventisette gradi rispetto al piano del fiume. È l’amore alle spalle di questa certezza cosciente di noi l’immagine che è non cosciente se anche non sto dormendo e se anche non sono pazzo? Da tempo l’idea dell’origine materiale del pensiero è consolazione contro la disperazione. “Sai della mia ricerca…” che porta a pensare specialmente all’incertezza delle definizioni. Rinunciammo al libero arbitrio per la conoscenza. Non sono un caso l’emigrazione degli amori più grandi, trovarsi a sempre più grandi distanze, e le lettere finalmente ancora. “Ora, sai, si attraversa un piccolo fiume profondo…” Pietre scure di acqua di mare. Un oceano di onestà. Pagare, pagare, pagare, guadagnarsi correttamente le giornate, ripensando la storia dei libri con le fotografie dei primi braccianti delle bonifiche della palude. Acquitrini a perdita d’occhio da dissodare. La stanchezza che vola via insieme alla formazione a cuneo degli stormi degli uccelli migratori. Quando il freddo li caccia via e ci lascia solo noi e il sogno dei figli quando erano piccoli e ci stavano sul braccio. Se sono triste: certo, è immagine di base -in genere non consapevole- che mi tiene in vita. Poi penso coscientemente “Forse sarò felice anche senza di te…” come avevo sentito cantare in un film. Era non cosciente, la tristezza, e ora è una parola cosciente, una figura incontrovertibile. Non l’ho scelta la tristezza: è l’amore per te senza la furbizia del libero arbitrio. Non sto dormendo, e dal fondo continuano a formarsi successioni di realtà psicologiche che diventano misteriosamente lettere sullo schermo. Sulla tastiera virtuale che brilla come un campo di piccolissime aree minate da sensori variabili. Tecnologia dei legami ad ogni costo. C’è il tuo sorriso qua. Il fonema pensato si rispecchia nella credulità delle certezze che fanno si che ci raccontiamo favole di possibilità senza fine. “Voglio dirti, perché tu sia certo di me e della mia possibilità di aspettare per sempre, dirti di tutte queste relazioni vive, con me qui, così tante che non c’è tempo”

“Va bene sai” Era notte, tornavi accanto alla tua nuvola bionda profumata d’oro. Io in piedi accanto alla spalliera rossa del divano a sfiorarlo con la mano destra. Ero assorto alle tue parole forti di lavoro di dieci ore, ero come quando studiavo gli esami le notti prossime ai colloqui che tornava tutto il sapere appreso e in piedi ripetevo silenziosamente. Ripetevo in silenzio: dunque, cosa esattamente stavo verificando, mi chiedo adesso… le parole?… le immagini?… la conoscenza? erano costruzioni organizzate di pensiero verticale. Avevano un legame di ricordo con lo studio delle geografie elementari, con la descrizione della direzione dei confini delle nazioni coincidenti con i massicci alpini. Fondavamo tutti insieme -classi intere di ragazzini preparati- la nostra progressiva capacità di valutare da soli il grado di certezze a proposito di qualsiasi argomento. Dopo si arrivava alle figure mentali della materia delle facoltà superiori. Io scelsi quella che insegnava i rudimenti di una scienza non più occasionale da cento anni almeno: MEDICINA. Facoltà che, alla fine, doveva consentire legalmente l’azione del rapporto di cura.

Ascoltavo “Sto bene, sono felice, la mattina alle sei… sai non ho molto tempo… oggi c’era molto da fare… appena sarai qua… si… si” Adesso ho la facoltà dell’ascolto. Che mi sono fatto insegnare onestamente pagando di tasca mia. Ti dirò cose bellissime della vita che da noi ha assunto forma di pancia arcuata convessa prepotente. Ricordo la poesia della pancia. Io non la so recitare. Non l’ho mai voluta recitare. Io l’ho saputa pensare. Soltanto pensare: è quel pensiero l’immagine. Essa resterà per sempre non cosciente perché resterà sempre mia essendo le parole solo una richiesta. “Regalami la tua voce” avevo voluto dire. Ma solo i grandi attori rischiano per amore. Solo le ragazze assolutamente intelligenti sanno mentirci per amore. “Tu hai una nuvola bionda profumata d’oro” Come fosse la voce di un neonato che piangerà appena, e poi dormirà subito -noi lo sappiamo- perché sarà consolato da tutti, dalla sicurezza della materia accogliente, dalla sicurezza degli affetti come è emersa in tantissimi anni come potenza di pensiero. La pancia che cresce, che si avvicina come un balbettio sapiente, come la bellissima voce della cantante del bistrot parigino che ho in mente da sempre. LA DONNA CHE CANTA: di cui ho cominciato a raccontare a TUTTI

Va bene sai”… perché come avrai ben chiaro, quaranta anni dall’inizio del tempo degli esami, e trenta dalla scrittura di una poesia, adesso sta per esserci una nascita e c’è appena stata una emigrazione e da qualche tempo, dal settembre del 2010, c’é un linguaggio. Essi riposano sicuri nel fondamento. Ci sono state dimensioni di non essere. Ma ora, con la forza che ci tiene a distanze di una misura adatta a chiarire l’assenza di qualsiasi imperfezione, arrivano le parole nuove. Esse sono subito prima che io scriva. Stavano lì da sempre. Ma, senza l’azione del movimento che ci avvicina e ci allontana, non avremmo mai più saputo comprendere come si poteva misurare la vitalità della nascita. Sapevamo soltanto, MI ERO SOLTANTO IMMAGINATO, che si potesse avere la conoscenza attraverso lo studio infinito di una SCIENZA racchiusa in una TEORIA.

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2 Comments

  1. Claudio anche oggi la bellezza che sa nascere ha il suono delle tue parole e anche…scrivo

    Tenere la pancia che pesa,
    portare davanti una cosa,
    che piaccia o non piaccia si vede,
    costringe allo sforzo continuo,
    di fare le cose,
    comunque… vadano le cose
    d’intorno.

    La pancia ti inghippa,ti aggancia,
    qualcuno la sfiora,e accarezza,
    per bene che vada,
    qualcosa che è sotto la pelle,
    che dunque,
    non è dato vedere.
    Ma gli altri che sanno,
    di quello che soltanto io avverto,
    io soltanto,mi pare,nel fondo
    del ventre?
    Vedono e toccano e sfiorano,
    io credo,
    un mistero.Mi parlano già del
    ” bambino”,
    ma io invece vorrei che vedessero me,
    che mi porto qualcosa nel grembo,
    qualcosa che pesa,che aggancia,
    che nuota e che chiama,
    ma ancora bambino non è.
    Irrequieta,nervosa,irascibile,
    eppure felice,argentina rimbalzo nel
    mezzo alla vita che ho intorno.
    L’interno ,che tanto mi sento gravare,
    mi dice qualcosa,
    e mi spinge a ridere. Ma a chi?
    Per chi vale la pancia distesa,
    prorompente,talvolta,
    sfrontata,sfacciata e proterva?
    Essa offende,talvolta,me stessa,
    quando si agita,pulsa e ricalca
    movimenti profondi:
    “Guarda! sono le mani… è un calcagno!”

    mentre invece tutto insieme,quel
    gran movimento,
    è una vita.
    E sono anch’io, vorrei dire,
    che lo lascio (o la lascio)parlare,
    e mi offende perché è impertinente,
    e mi pigia vescica e polmoni,
    e mi abbrevia il respiro in sospiri affannosi

    quando voglio restare,
    e fa correre al bar più vicino,
    per poca pipì,
    quando parlo con uomini belli,
    e le amiche più care.
    Non c’è niente da fare per me,
    mi costringe,
    mi costringe ad amare qualcuno,qualcosa

    sulla quale son cieca. Altro che,come
    dice la gente,
    “E’ il bambino”… che ancora invece, non c’è.

    Ci sarà di sicuro:magari,tra poco,
    magari tra un giorno,o un respiro,
    spingerò perché nasca…
    lasciandomi sola a rifare allora tutto
    da capo,
    con lui o con lei,non lo so,
    una cosa che tutti sembrano conoscere
    bene nel come,
    ignorando molto spesso il perché.
    Questa pancia è una pazza ignoranza,
    e non ha paragoni,nella prassi dell’uomo.
    Questo fare che è lasciare che vada,
    nonostante si ignori il perché si
    dovrebbe permetterlo,
    rinunciare a pensare,
    perché questa pancia si tende,si spinge
    in avanti e nel fondo,facendosi
    strada attraverso tessuti ridenti,
    tra le braccia di questa ignoranza,
    che è l’unica adatta al sentire ed al
    fare qualcosa
    che valga la pena. Il perché verrà
    dopo,
    ma adesso il perché non mi serve.
    Anche lui con il quale ricordo di aver
    fatto l’amore,
    anche lui non è adatto a capire:e si
    sforza e, ovviamente
    fa una gran confusione. Mi conforta,
    e mi cerca,e sorride,come se”come se”

    che non serve:
    per la pancia ,io dico,non serve,
    per questa questione di vita e di sangue.
    Quando nasce una vita, io vorrei che
    ci fossero ,intorno
    molti amici,molta gente,con musica
    e il resto
    che accompagna la gioia,
    affinchè,fino in fondo,io potessi,e
    ogni donna,
    diventare ignorante di tutto,cioè in
    fondo perduta
    nel fare spingendo affannata,
    (come dicono avvenga),
    un bambino felice perché,
    il mio non sapere facendo,
    si fonda con il suo che non sa
    ma ha il coraggio di piangere e chiedere,

    prepotente,qualcosa.
    Cambia il ritmo del cuore,del mio
    O del “suo”non saprei,
    più serrato si svolge il respiro,
    soprassalti di vita,e legami con quello
    che poi
    toglierà l’ignoranza,
    come a dire qualcosa:pancia ingrata,
    ampio arco di sfera,
    tanto sei impertinente e innegabile
    adesso,quanto,poi,
    dolce e rapido sarà il tuo sparire.
    Pancia ingrata che lasci intuire,e non
    dici,e non dai alcuna
    certezza del poi.
    Se non che questo tempo,nel quale
    ti ho pure portata,
    non sarà più di nessuno:se non nel
    ricordo,
    che poi svanirà
    nella musica ostinata di un pianto,
    nella difficile armonia di due occhi
    esigenti,
    nelle gocce di latte,nei fiumi dei
    sogni
    di notti illuminate dai richiami del piccolo
    che in te si sviluppa.
    E i suoi sogni ed i miei saranno
    diversi
    e i miei sogni rincorreranno da allora
    la vita,e daranno un senso al ricordo
    di questi momenti incantati.

    la tua poesia “Tenere la pancia”

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