ciò che immediatamente siamo

Posted By claudiobadii on Dic 21, 2012 | 0 comments


quello che immediatamente siamo

quello che immediatamente siamo

All’addome sono rimasti muscoli e pelle e l’idea di una bellezza asciutta. I digiuni e la passione amorosa fanno scherzi salutari. La magrezza è insieme bella e lieve da portare. È l’artiglio di te che fa sanguinare la fronte il viso poi giù collo e cuore e addome fino alle anche e sempre più giù verso terra.

La magrezza estirpa la colpa e avvicina alle trasparenze del mattino. Io sono il racconto del mio risveglio e non oltre. Io sono senza alcuna colpa per alcuni istanti un vero innocente. Il pensiero di me non è consapevolezza storica bensì ’insorgenza’ dell’io crepuscolare del sogno e la vita -che chiamo ‘ieri’- è un ‘prima’ ma non una ragionevole causa.

La fame che ci provochiamo nel rifiuto delle cose sbagliate consente la comprensione degli elenchi di cose senza valore prospettico.

“Il mattino, l’aria leggera, il colore della sabbia,la lucentezza dei binari, la gelatina terapeutica del cielo notturno, gli ovali di ambra preistorica, i colori beige e albicocca, l’idea di vita mentale, la libertà del camminare, i decaloghi di promesse che si recitano ad una sconosciuta, l’acqua di mare, il mare intero, il piano del tavolo, la luce che entra alla finestra, la luce che esce dalla finestra, le case sul foglio da disegno, le cose viste dal basso, il crollo dei potenti, i portoni di legno nuovo, le stanze vuote, gli angoli acuti, i grattacieli, le tele di Fontana, la parola ‘dio‘ in lettere minuscole.”

Scelgo secondo intime mie convinzioni che non sono altro che un estetica individuale cioè un modo per illustrare la mia anima. Perché convinzione, qui, è l’accostamento di idee di cose secondo legami transitori tra immagine qualità e suono. Rapidamente scrivo, prima che l’idea successiva di altro ancora – che già si è formata nella mente – si imponga  creando un arco troppo labile di senso tra due parole successive e sciupi la cadenza e il disegno della scrittura.

Se la comprensione è espressione è perché l’immagine non è immediatamente né parola né suono né figura o segno e deve diventarlo. La comprensione è corrispondenza con una variazione: idea che tiene assieme una colonna di proposizioni anatomo/funzionali in un denso ambito di esiti ugualmente probabili.

La dizione che scelgo non è che la cresta probabilistica di un massiccio di molteplici resoconti di quanto capita che io sia (cioè che io pensi). La storia della scelta delle parole nella proposizione che ogni volta mi definisce è casuale.

Non è aleatoria: in genere riesco a dire quello che volevo. Ma i modi per farlo sono infiniti e sfuggenti e ogni volta devo gettarmi in picchiata dalle nuvole per afferrare segno per segno i segmenti necessari alla composizione delle lettere per la creazione delle parole.

Per il respiro il segno è la virgola. La virgola varia gli affetti che donano il timbro e modulano l’enfatizzazione del suono dedicato alle frazioni di senso corrispondenti ai fonemi e ai gruppi di sillabe.

Nel testo mentale ci sono più spazi di quelli che vedi nel foglio. Il testo mentale è la grafia delle variazioni chimico/fisiche che si succedono a formare la condizione psicologica corrispondente alla genesi di unità di senso compiuto che chiamiamo idee.

Può esserci una scrittura senza un linguaggio verbale. Bambini si disegna sui fogli, penso fosse ripetendo con la matita una serie definita di ‘cose’ davanti ai nostri occhi. Può esserci un pensiero pre-verbale. Può esserci dunque un tempo che non forma mai la figura. Un tempo einsteiniano prima di un tempo assoluto. La scoperta della relatività aveva bisogno prima di tutto di una potente capacità di regressione. Vedere profondamente infatti è esclusivamente ideazione.

L’idea non è rivelazione dello spirito oggettivo fuori di noi e del tempo. Le idee, il vedere cioè, sono espressioni di stati della natura fisica del pensiero. La variabilità connessa alla condizione non spirituale della vita mentale è condizione della successione delle idee che creano una proposizione. L’identità (l’io narrante) non è possibile che sia relegata (contenuta) nel mondo della necessità ma delle probabilità. Io in genere non sono esclusivamente -e neanche con significativa rilevanza- ciò che penso di dover essere ma mio malgrado (cioè con una certa sofferenza dato l’attuale riduzionismo razionalistico cui si è rassegnata la cultura), quanto posso essere. Essere è una capacità e non un obbligo.

Amare e ricordare sono perenne ricreazione e non testimonianze contingenti. L’atomo di Democrito si muove nell’universo di Parmenide certamente. Che c’è di meglio che sposarsi alla sposa fedele che è la fedele fissità che condanna l’immoralità del movimento che è  illusorio. Però la sposa fedele è essa una prestigiatrice e una maga illusionistica. E’ illusionistica la filosofia che accusa le altre di illusorietà.

L’universo di Parmenide, che ha la legge che accusa ed esclude tutti coloro che si lasciamo travolgere nel movimento muto del desiderio…. Ha la legge che impedisce di pensare il moto del pensiero che dice: ”il desiderio è un’idea (come un’altra!)“ Esso stesso -nella sua pretesa immutabilità e quindi a causa della fissità che gli si impone- non ha ‘misura’. E questa impotenza di misura che non consola (il che andrebbe benissimo) purtroppo, haime! neppure delimita: e questo non va affatto bene: poiché fuggire nella noncuranza di una delimitazione, attraverso la trovata di porre un assoluto, è una troppo facile scorciatoia argomentativa, una sciatteria formale, e una sguaiataggine metafisica.

“Ed eccoci 

 Noi

Ancora

 ‘Misura di tutte le cose’. 

Siamo”. 

 

Nell’umanesimo verosimile -architetti di multiformi ed improbabili grattacieli e di macchine per abbracci incerti- si sa esser felici del ‘niente’ che è il ‘niente’ della rapidità della pelle sulla quale le mani -ma anche l’aria e l’acqua- disegnano senza posa. Il niente che non è il nulla che sarebbe senza misura, ma è soltanto smisuratamente inquietante, ed ha l’inquietudine della rivoluzione e delle stragi e del sangue sulle rose, della poetica della storia: il niente che ha per unità di misura l’altro niente della casualità di noi, di te al mio cospetto e alla fine ha il niente della comprensione immediata di una trovata geniale.

Tu mi ami, dato che hai pietà della mia intelligenza. Se fosse più che pietà mi avresti già abbracciato e preso e trascurato. Sarei già una tua spoglia e non ancora sempre il tuo sogno. Ci sarebbe la conoscenza, nel gettarti me alle spalle. Preda di altre sarei un oggetto compassionevole, un fardello di ossa di guerriglieri bambini esplosi sulle mine dei campi dell’Afghanistan o in Siria. Voglio dirti insomma che tralasciando me avresti la passione politica e la fine del terrore della lesione fisica e il sogno del coraggio. Sono vere tutte e due le cose: la storia è casuale, l’intelligenza non è universale.

E così noi senza posa parliamo e scriviamo per delimitare la figura letteraria e il progetto scientifico della Fortezza della Gioia. Ricordo di te e storia probabile di un’amore. Dimenticanza di te e immediata fantasia della fine dei fallimenti. La cura della coazione, per dire.

Questo confusionario non confuso ‘pensare’ è per augurarti giorni felici. Poiché la festa non si esaurisce nel conformismo borghese. Al contrario è imperativo, per essere felici nella festa, essere in qualche modo  ‘innamorati’. Poter dire sinceramente. Buon natale.  Amore mio.

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.