Magritte, ancora, che aiuta nella decifrazione di un pensiero scatenato da una pellicola commovente.

Posted By claudiobadii on Mag 17, 2012 | 1 comment


Magritte, ancora, che aiuta nella decifrazione di un pensiero scatenato da una pellicola commovente

Nel momento che vidi la casa nella magia di Magritte soffiarono alle spalle le mitragliatrici ad aria compressa, il cielo chiaro e l’imbrunire attorno all’ingresso. Il nero stregato sulla pelle. Essere diversi finalmente (!) essere, finalmente, degli homless. Pieni di niente. Con i cappotti senza più bottoni e la magrezza. Magari puliti come ne ho conosciuti dignitosi che la mattina avevano il loro caffè assai presto e poi il viso sotto l’acqua e tornavano alla piazza sopraelevata. Cominciarono là le attuali riflessioni sul linguaggio al profumo di sapone popolare. Il caffè che da noi fa subito allegria e manca dovunque andiamo inaugura la ricerca del tempo di dieci anni fa. I signori del palazzo non erano contenti. Io distribuivo cioccolata. Certe abitudini sociali sono capaci di stabilire livelli come classi di censo. Non voglio andare oltre. Ci scambiavamo sigarette e i loro cani erano ben educati. Abbiamo misurato gli anni in centimetri con le dita degli schiavi africani contro il muro. I capelli tanti o pochi sono i nostri. Sempre stati i nostri capelli che la notte vennero a tenerli a balia. Furono tenuti a balia con le carezze i nostri capelli e per questo non potevamo più deciderci a fare nulla per cambiarli o tingerli. Li abbiamo tenuti come erano e per questo abbiamo dormito così come eravamo, avvolti nel nostro sonno leggero. Abbiamo dormito con la voce degli “America” nei pensieri e restati appoggiati ben saldi all’albero della musica pop di qualità. Forse cerco solo di ricordare l’atmosfera nella quale si sviluppò la necessità inderogabile di non lasciare incomprensibile una scoperta scientifica sulla nascita e l’origine del pensiero umano. Tutto riporta lì quasi sempre. L’enumerazione dei giorni e le dita dal dorso nero contro un muro segnato da una scala di anni in successione. Si misurava così un incremento. Perché potessero tracciare la linea con la matita si doveva stare ogni volta con il dorso appiattito alla parete non respirare mentre una mano tra i capelli teneva dolcemente la nuca premuta al muro e l’altra faceva scivolare la matita al vertice del cranio e graffiava un segmento orizzontale.  Si prendevano le misure approssimative del tumulto. Accarezzo il muro graffiato scrivendo e i segmenti scuri risaltano contro la luce sfolgorante degli equilibri ormonali: un torrente. Quella crescita ora è la forma scritta del pensiero verbale e nulla si è perduto. Le tracce del passaggio dall’infanzia all’età adulta sono rimaste. La scrittura è responsabilità di volgersi al cortile pieno di ragazzini vocianti mentre mi allontanavo dal muro delle misure con la sensazione delle dita trai capelli.

Devono essere state quelle a persuadermi all’immobilità di trenta anni di resistenza in un punto geografico. È sempre stato qua che si è svolta la vita mentre cercavo a meno che non fingessi di cercare nominando scientifico quel muoversi breve, quell’articolare la vita intera come fosse un  passo verso di noi e di te. Come se la vita fosse la composizione di un movimento adeguato, finalmente, alla presunzione dei pronomi personali. I movimenti sono stati minimi anche a piccola scala. Il più breve sembra l’unico decisivo. 

Niente da fare alla fine quando potremmo pensare di avercela fatta, di aver esaurito il compito prescritto sulla mappa e dunque dormire sulla X sopra il tesoro le mitragliatrici ad aria compressa sparano: la seduzione della marginalità ritorna. Ritorna l’etica degli ultimi, il cristianesimo intrinseco, la genetica della solidarietà. Non è che sia una bontà narcisistica semmai è una faccenda di guastatori. E’ avere in mano la chiave del codice, la barretta radioattiva, solo moderatamente radioattiva, della dedizione (una pretesa orgogliosa) ad altro ancora. Mi invento sempre qualcosa per cui varrebbe la pena rinunciare a tutto. Il cappotto troppo grande dove dorme il senza casa. I cartoni. La magrezza. Il deserto: Virginia Wolf e Ingeborg Bachman sono il deserto: due che potrebbero fare all’amore dovunque, proprio dovunque. Due sempre pronte a osare contro tutto per via delle parole scritte su un foglio di un editore raffinato, per via di quell’amore incredulo e sfrontato per le lettere: ma senza che ci si illuda un amore niente affatto scontato e durevole e fedele e dunque niente affatto consolatorio. Due, comunque, che ti portano nell’acqua e nel fuoco con troppo poca o altrimenti, ma imprevedibilmente, eccessiva convinzione personale. Tuttavia sono loro le mani trai capelli che misurano la mia crescita nella invenzione fantasiosa dei ricordi che giustificano tutta una vita. Ricordo le torte letterarie, le cucine economiche che scimmiottavano la ricchezza che non c’era in casa mia appena ci furono i soldi provenienti dalla attività commerciale. C’erano il televisore e il giradischi. La musica e le avventure in bianco e nero. Ed ecco le radici della comprensione dell’incanto. Il pensiero tra infanzia e adolescenza si formava come si compone la luce nell’Impero di Luci di Magritte: la sera fascinante di una luce alla porta, di un sorriso all’amore di lei, sotto (cioè mentre fuori tutto il resto sarebbe) il chiarore del giorno avanzato. Si potrà rimanere sempre nel portico all’ombra, fuori dalla linea della ricchezza media, impossibile da raggiungere per quasi tutti e questa sarà una scelta di vita. Per via di queste cose, tra le altre che non so ancora dire, alla fine torna sempre la poesia della lotta per i diritti umani, la commozione per le vittorie insignificanti: che hai impedito un semplice annullamento. Uno solo. Che allora anche il dolore diventa necessario e la gioia che senti mentre non sei riuscito a compiere un atto ‘puro’ di pura dunque assoluta giustizia (una giustizia che mentre ti rende il dovuto non penalizza nessuno)…..: allora, dicevo, quando la tua gioia deriva da un atto che pure ha provocato un dolore perché non sei riuscito ad avere giustizia oltre che per te almeno anche per il ragazzino (che ora -che ti vede partire perchè la madre razzista ti ha cacciata via per sempre- piange) ecco dunque comunque quella tua gioia resta e diventa una consapevolezza.

“Di nuovo la fisionomia di una lotta di classe, di fatto dunque la certezza che lotta di classe non è soltanto una locuzione verbale: è una condizione del pensiero.”

1 Comment

  1. Ora che un canto di parole attese è sonno che culla,sembra stridere più forte e inaspettata la voce di chi vuole rubarmi il risveglio. ma il dolore ha memoria d’amore e la tacca oggi è la gioia del salto sul muretto da percorre correndo.
    e..ritorno qui :The help ! 🙂 a confondermi con i giganti,e siccome
    “La parola
    non farà che tirarsi dietro altre parole,
    le frasi altre frasi”(i.b.)
    trovo …
    http://youtu.be/E8czs8v6PuI
    “… le parole, le parole inglesi sono piene di echi, di memorie, di associazioni. Hanno vagabondato sulle labbra della gente, nelle loro case, nelle strade, nei campi per così tanti secoli.
    E questa è una delle capitali difficoltà nello scriverle oggi – che esse sono stivate di altri significati, di altre memorie, e hanno contratto così tanti matrimoni celebri nel passato. La splendida parola vermiglio per esempio – chi potrebbe usarla senza ricordare la moltitudine dei mari? 1

    Ai vecchi tempi, certamente, quando l’inglese era una lingua nuova, gli scrittori potevano inventare nuove parole e usarle. Oggigiorno è abbastanza facile inventare nuove parole – esse sbocciano sulle labbra, quando abbiamo una nuova visione o proviamo una nuova sensazione – ma non possiamo usarle perché la lingua inglese è vecchia.
    Non è possibile usare una parola nuova di zecca all’interno di una lingua antica per l’ovvio e misterioso fatto che una parola non è un’entità singola e separata, ma parte di altre parole. Infatti non è una parola, finché non è parte di una frase. Le parole appartengono una all’altra anche se, certamente, solo un grande poeta sa che la parola vermiglio appartiene a la moltitudine dei mari.
    Eppure in questo momento almeno un centinaio di professori stanno tenendo una lezione sulla letteratura del passato, almeno un migliaio di critici stanno commentando letteratura del presente, e centinaia su centinaia di giovani uomini e donne staranno sostenendo esami in letteratura inglese a pieni voti, e ancora – scriviamo meglio, leggiamo meglio di come abbiamo letto e scritto quattrocento anni fa quando noi eravamo illetterati, senza senso critico, analfabeti? La nostra moderna letteratura georgiana è una toppa su quella elisabettiana?
    Bene, a chi dunque dare la colpa? Non ai nostri professori; non ai nostri critici; non ai nostri scrittori; ma alle parole. Sono le parole che vanno incolpate. Sono le più selvagge, le più libere, le più irresponsabili e le meno addomesticabili di tutte le cose. Naturalmente le puoi acchiappare e ordinare e piazzare in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari; loro vivono nella mente. Se volete una prova di questo, considerate quanto spesso in momenti di emozione, quando abbiamo più bisogno di parole non ne troviamo nessuna.
    Eppure il dizionario c’è; lì a nostra disposizione ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma le sappiamo usare? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Guardate ancora una volta il dizionario. Lì, senza dubbio giacciono opere teatrali ancora più splendide di Antonio e Cleopatra, poesie più amabili di Ode all’usignolo, novelle davanti alle quali Orgoglio e Pregiudizio e David Copperfield sono rozzi pasticci da dilettanti. È solo questione di trovare le parole giuste e metterle nel giusto ordine. Ma non possiamo farlo perché esse non vivono nei dizionari; vivono nella mente. E come vivono nella mente?
    Variamente e stranamente, come molti degli esseri umani vivono, girovagando qui e là, innamorandosi, e accoppiandosi. È vero che loro sono molto meno legate da cerimonie e convenzioni di quanto siamo noi. Parole regali si accoppiano con le comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, parole tedesche, parole indiane, parole negre, come gli pare e piace. Infatti quanto meno noi indaghiamo nel passato della nostra cara madrelingua Inglese, meglio sarà per la reputazione di questa signora. Perché è diventata una “traviata”, una bella ragazza traviata.
    Così imporre qualsiasi legge a delle tali irriducibili vagabonde è peggio che inutile. Poche risibili regole di grammatica e di ortografia sono tutte le costrizioni che possiamo imporre loro. Tutto quello che possiamo dire di loro – mentre le sbirciamo oltre il limite di quella profonda nera caverna, solo a sprazzi illuminata, nella quale vivono – la mente – tutto quello che possiamo dire di loro è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle, ma pensare e sentire non riguardo a loro, ma riguardo a qualcosa di diverso.
    Sono sommamente sensibili, facilmente intimidite. Non amano che la loro purezza o impurità venga messa in discussione. Se fondate un’Associazione per l’Inglese Puro, loro vi mostreranno il loro risentimento fondandone un’altra per l’Inglese Impuro – da ciò l’innaturale violenza di gran parte del linguaggio moderno; è una protesta contro i puritani. Loro sono sommamente democratiche, anche; loro credono che una parola sia tanto buona quanto un’altra; le parole maleducate sono buone quanto le parole educate, le parole incolte sono buone quanto le parole colte, non ci sono ranghi o titoli nella loro società.
    Nemmeno amano essere infilzate con la punta della penna ed essere esaminate separatamente. Se ne stanno insieme, in frasi, paragrafi, talvolta per intere pagine contemporaneamente. Loro odiano essere utili; odiano fare soldi; odiano tenere conferenze pubbliche. In breve, detestano qualsiasi cosa che le marchi con un significato o che le releghi in un unico stile, perché è la loro natura cambiare. Forse quella è la loro peculiarità più impressionante – la loro necessità di cambiamento. È perché la verità che cercano di catturare è sfaccettata, e la comunicano essendo sfaccettate, illuminando prima in un modo poi nell’altro.
    Così loro significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; loro sono inintelligibili per una generazione, chiare come la luce del sole per la successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare differenti cose per differenti persone, che loro sopravvivono. Forse allora una ragione per cui non abbiamo grandi poeti, novellisti o critici letterari oggi è che ci rifiutiamo di lasciare alle parole la loro libertà. Le spilliamo a un significato solo, il loro significato utile, il significato che ci permette di prendere il treno, il significato che ci permette di passare gli esami…” (v.w.)

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