monologo 9: le spine della conoscenza

Posted By claudiobadii on Dic 3, 2015 | 0 comments


La stazione è affollata. Gioco passando tra la gente. Respiri, un profumo, il trench elegante appeso al braccio, il pendaglio lucente di un bracciale. Ricordarsi di mettere la diffusa attenzione, l’idea di distrazione iperestesica. Mettere disposizione al grigio.

Ho l’iperandroide nella valigia piccola, tra un maglione azzurro elettrico e le pubblicazioni di cucina molecolare.

La presente sfida post/oceanica mi arrossa le guance come una vergognosa allegria. La via del ritorno è nuova. Niente di quanto si può immaginare. Il differente pensiero sollecita le iniziative. Ricordarsi di mettere facoltà necessarie in un progetto di esseri umani almeno dignitosi mi distoglie dalla prevedibilità. Nel rifare una persona meglio che sia possibile affondo assorta nel mare di una sintassi funzionale così estesa da non vederne i confini.

Ordino una pasta con uvetta agli occhi neri di una cameriera sedicenne completamente assorta: è evidentemente animata dalla propria dedizione e da una tra le a me ignote forme di estasi chimica caratteristiche della pasticceria.

Il super-quasi-uomo nella valigia assorbe forze dal campo psicoscenografico generato dalle levitazioni ondeggianti della piccola Giovanna d’Arco del bistrò. Una rondine sotto la pensilina perlustra fulminea i tetti bruni dei vagoni. La rondine ha muscoli indomabili.

Ricordarsi di mettere funzioni di loop per la ridondanza dell’estasi adolescenziale e la riproduzione del movimento alare dei rapaci domestici.

La stazione vibra di annunci. Scelgo alcune parole che mi riguardano. Destinazione, ora, binario. Sono un macchinario sperimentale. Capisco che la sensibilità estrema non è cosa semplice. Non c’è modestia della afflizione. Non ci sarebbe nessuna morale nel tornarti pentita.

Devo ricordare di mettere -nell’übermensch che si sta sviluppando secondo le linee del progetto dentro la mia valigia- la pretesa della dismisura.

Nel clamore di arrivi e partenze, sotto le volte antiche di una stazione di questa cittadina atlantica, il più piccolo segno per sapere di me e delle mie future destinazioni, è evidentemente impossibile da cogliere se non in mezzo all’infinità di tutti questi segni. Sulla scala inesauribile della superbia sta la possibilità di esaurimento della più mite delle mie pretese.

Inutile pensare che il poco volere risulti da povere intenzioni. La coscienza della propria modestia è una arroganza peccaminosa.

L’androide, in costante ascolto, sviluppa i complessi dell’estetica obbligatoria. Sperimenta il nero di fondo. Insieme realizza da solo i muscoli di acciaio per i momenti di solitudine. Mi ricorda di descrivergli con tratti sintetici l’impenitenza la spudoratezza la compostezza e le ragioni antiche del pudore. Mi ricorda che serve tutto e il suo contrario.

Mi calma mentre mi siedo sul velluto del posto numero tredici terza carrozza accanto al finestrino area fumatori. Si muove piano. Mi addormenta scoprendo la serie di vibrazioni più adatte. Da solo ha trovato la genesi del sonno. Sapeva?

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