Non ci sarebbe niente di scritto nella mia vita senza la simpatia, la vicinanza e la conferma precaria.

Posted By claudiobadii on Apr 10, 2012 | 0 comments


 

“Più allegra, perché più sofferente” dice la frase di un saggio sul popolo brasiliano e la rivoluzione politico sociale effettuata da Lula negli anni dei suoi mandati elettorali. Questa affermazione è dolce a coloro dai quali ha in regalo la comprensione. Ho una innata simpatia per quelli che possono capirla, quella frase. Essa, dunque, mi ha trascinato tra la gente. Sempre la luce vedo in certe frasi. Le idee altrui ficcate negli occhi. Le sonde dell’intelligenza da ogni parte.

Camminando il pensiero sono variazioni di affetto, perforazioni nel ghiaccio dell’artico. Non ci sarebbe niente di scritto nella mia vita senza la simpatia, la vicinanza, e la conferma precaria. L’invidia sontuosa mi porta -segnalando potenza e bellezza altrui – alla sartoria per il vestito da cerimonia. Per le celebrazioni di incoronazione, fondazione, varo, conferimento, inaugurazione, augurio, ricordo, trionfo, vittoria, compassione civile, orgoglio popolare, opera lirica, sinfonia, teatro tragico, comprensione e concerto.

Pare che dalla realtà delle strutture anatomiche e biologiche cerebrali si passi alla funzione mentale attraverso la fisica delle particelle subatomiche. Si può dire in altri modi -forse- ma credo sarebbero dilazioni, di quando non ci si vuole assumere la responsabilità di un immobilizzazione e di un ritardo. C’è un punto di difficoltà innegabile, prima di andare oltre la simpatia per il sublime.

Essa alla fine è solo una resa. Contro l’immobilità della simpatia e il ritardo della condivisione delle banalità vado puntuale al mio solito lavoro: il minimo che posso fare. Che vuol dire che è anche il massimo e l’essenziale per cominciare. Non si deve avere troppa ansia e troppa sfiducia. Altrimenti si fallisce. Si va incontro alle aspettative irreali e alle delusioni.

Si deve studiare. Lasciare alle spalle il presumibile. Così oggi leggevo, in un libro di fisica, veramente, non di psichiatria, che il problema della comprensione e dunque forse della legittimazione di certi ‘fenomeni‘ si lega al linguaggio. Che esso è, applicato al problema delle interazioni, proprio un completo fallimento in genere. Perché si struttura secondo una logica causale della realtà percepita e non ha derivazioni dalla fisica delle probabilità.

Il linguaggio che ha solo cose possibili è cieco. Ha una struttura che lo rende opaco -forse irrimediabilmente- ed è una grande complicazione per il mio lavoro che non ha che  parole per funzionare. Così sono rimasto in silenzio, a lungo, e la mente non suggerisce nulla di nuovo. Forse è un difetto di pensiero che mi prende, un po’ credere che questo arresto sia la fine. Fine del tempo a disposizione. Della vita. No, è un luogo. Una piazzola nel deserto di fiori.

Con solo i fiori e senza la presenza umana. Essere alla fine: è così che tuttavia angosciosamente procede la logica: verso la fine, la morte, il piacere della conclusione definitiva. La logica procede per la morte. Ha alla base l’istinto di morte. Dopo ha alla base l’irreale del paradiso o della prigionia. Forse la fisica del pensiero sano ha invece ripristinata la vitalità, che negli esseri umani è una continuazione costante di una origine inarrestabile. Forse.

Alla base è sonno della nascita e anatomia illustrata per immagini: silenzio, mutismo verbale, cellule. Poi componenti strabilianti e solo immaginabili, perché non si indaga su se stessi oltre un dato limite di apprezzamento. Càpita il pensare non cosciente, senza rilevanti dati da segnalare ‘là fuori’. Càpita l’immagine che emerge da una via sottile, una immagine definita “linea di formiche comparse sul muro chiaro“. Elevata tecnologia di biologia indicibile umana.

L’immagine sta in caduta perpendicolare ad una linea di pietre azzurre da mosaico. La base di silenzio di mutismo. Di cellule. Essa durerà un po’ o molto, forse. Potrò aspettare. Non cerco gli stimoli. Alla base sta la nascita che si ritrova nel silenzio della lettura. Nella passività dell’osservazione della bambina che impara a sviluppare l’equilibrio, sulla corda del parco, mentre conosce -ogni volta- la sua migliore amica. Lei ha reso probabili moltissime migliori amiche in ogni luogo della città.

Ora distante dal parco, qui, è una piazzola nel deserto di fiori. Con solo i fiori senza presenza umana. Tranne me: che scrivo le cose che non ci sono e restano senza esistenza: i pensieri. Poi diventano vivi quando sento le persone in fondo alle scale, che tornano (ormai sono tanti anni) perché non c’è stato l’annullamento. Il lavoro ha forma di passi sulle scale. E ha potenza di creare la casa, la soglia, e la stanza intorno alle figure che salgono. E creare le mura d’aria, che separano questa casa dalle altre case.

La strada. Il giorno. Il luogo. La misura. Progressivamente si dispongono seduti sui divani e le seggiole in cerchio, e infine si fermano, respirando leggeri. Arrivo per ultimo, poi siamo all’inizio che sta alla estrema periferia degli abbracci di saluto. All’ingresso. Il metodo della seduta collettiva esclude una relazione ‘fisica’. Dicono che sia preferibile. Nei divani stanno assai stretti. Non si sa che effetto avrà sull’inconscio.

Per saperlo dobbiamo sviluppare la capacità di restare assieme fino all’altra estremità della relazione, che ci precipita di nuovo nel mondo. Abbiamo costruito con la nostra coesistenza -che adesso è allegra- un lavoro. Esso ci ha permesso la responsabilità di scegliere. Gli uni gli altri. Adesso ci tocca pensare alla ulteriore responsabilità di fare altre scoperte.

Il lavoro solitario, lo studio, il silenzio delle piazzole dei fiori: beh, non sarebbero più sufficienti.

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