secondo tentativo di parlare del silenzio

Posted By claudiobadii on Apr 23, 2012 | 0 comments


17 gennaio 1904, Mosca, la ‘prima’ de “Il Giardino dei Ciliegi” di A. Chekov. Si conclude col rumore di un cavo spezzato. Stanislavsky (il regista) lo ottiene percuotendo tre cavi di metalli diversi insieme ad un breve rullo di tamburo. Chekov ammirato della riuscita dell’effetto scenico promette: “Scriverò un’opera teatrale che comincerà così: ‘Che meraviglia che silenzio! Non si odono né uccelli né cani né cuculi né civette né usignoli né orologi né campanelli e nemmeno un grillo canterino…’ ” Fu ironia per sottolineare la perfezione esecutiva di Stanislavsky. Che sarebbe stato privato di ogni rumore dal silenzio. Ma noi andiamo alla ricerca di sfide. E pensiamo che ogni mattina il sogno è affidare uno stato d’animo ad una traccia che è solo rumore di figura. Che rumore di figura già è coraggio di fantasia, ed essa è condivisione e consenso alle conseguenze del sonno. Cerchiamo sugli esiti e le circostanze e le cause di ogni transitoria privazione di coscienza e parola, di autocritica operante e linguaggio parlato. Aderiamo con convinzione allo scandalo: il miracolo della percussione che realizza lo strappo e invita a vivere momenti inevitabili di perplessità avviandoci verso l’uscita del teatro. 

I lampioni all’aria nevosa (deve esserci stata la neve a Mosca il gennaio di quell’anno) stanno a rischiarare una ulteriore espressione scenica neanche più rumore e vibrazione. Privata anche del cigolìo di una intenzione, perché dovrà sentirsi la composizione della panna dell’assenza dei suoni, all’apparire della figura dell’attore. Una imposizione non appena si alza la luce dell’inizio. Uno scherzo, il silenzio: che, in genere, è un fragile tiranno uguale, per ferocia inconcludente, all’assenza di un padre. E trasformare ‘quel’ silenzio, in silenzi e segreti di un personaggio diverso, meno fatale, o addirittura benefico, che impone il dominio con mani lievi, che tolgono tutto quanto era stato, e al cui passaggio il tempo viene invertito. Un silenzio come un tempo tirato su come una rete o una vela, scomparso come acqua assorbita in grani di sale che diventa umidità da saggiare con la mano che affonda nel sacco di grani grossi. O da misurare secondo la tavola dei colori, un estratto rosa nei chicchi di riso. Una tintura appena rilevante. Il silenzio che sia morte dei soliti suoni e fine della realtà abbandonata. Il bianco di un anno di stenti e di freddo che muore tra le braccia e sul viso di un ombra imbiancata di luce. Un’assenza differente dal buio.

Insomma l’altra faccia di un cavo che si spezza e al di qua la restituzione di un padre. 

I neuroni sono affollati a forme di stella -e non secondo strisce di chiaroscuro- nelle aree afferenti della percezione del silenzio, la quale costituisce una autonoma configurazione molto attiva nella composizione delle masse di lavoro durante la fisiologia a scoppio -o esplosiva, meglio dire- che reagisce alle assenze improvvise e all’ira immediata delle sparizioni, che è così specifica che anche la distribuzione anatomica ne viene implicata. Perché il silenzio non è innocente. E diventa organizzazione non solo della gerarchia delle cose del mondo, ma anche dentro, dentro di noi e là dentro dunque diventa struttura e poi funzionamento e dunque addirittura l’autonomo prodursi di uno stimolo fisico che realizza un inevitabile conseguente modo di pensare, subito dopo che gli ammassi a forma di stella dei neuroni specializzati hanno misurato il sufficiente grado di quiescenza. E si compone l’idea di un genere di eroina sporadica, un faro nella sabbia. Le forme del romanzo ricalcano il disegno anatomico stellare, solo che qua fuori è una cicatrice. Il segno di uno sparo sulla spalla. La forza di lesione delle punte sui fogli. 

Il silenzio è la messa in scena dell’immobilità di un esercito di marionette. L’eco degli arti di legno caduti insieme in un applauso storpio. Un non finito degli amori impotenti e anche tutte quelle morti nella guerra. Piacerebbe dire la grandezza del pensiero in faccia alla neve che non è freddo e nemmeno negazione ma storia appassionata. Per questo bisogna che gli scenografi lavorino a costruire platee accoglienti. Trascurando gli attori. Fidando in un pubblico migliore. Ora siamo minacciati intellettualmente. Non stiamo comodi dove stiamo e abbiamo necessità di essere circondati di forme migliori dove sederci. La stanchezza è una forza che agisce da fuori. La crisi di panico è l’inizio della guarigione perché nella campagna si è sentito un grido terrificante, una bomba di pezzi di legno è caduta vicino simulando una voce umana e ora bisogna parlare a lungo del silenzio. Inventare un suono che si sciolga in scenografia palcoscenico illuminazione e figura. E poi dare inizio a tutto ciò che resta senza spiegazioni. Riuscire è gratuito. 

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