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(ci lega qualcosa differente dall’amore)

Dicono di diffidare. Ma non ho mai voluto controllare. Così la mente è rimasta in ordine. Anche se non so nulla di quello che mi circonda. Quando mi si racconta qualcosa…. in quei casi mi rattristo perché sembra che niente sia cambiato. Come se tutto questo lavorare non avesse lasciato traccia. Io non sono certo che sia così. Ma siccome, per quanto già dichiarato io non controllo -per rispettare una forma di obbligo deontologico- si può capire (e si deve scusare) la limitazione prospettica di uno che guarda solo ‘da dentro’. Comunque adesso chiedi “Perché le persone non capiscono?” Non lo so. Ma non mi consola dire che le persone sono sempre invidiose e che fanno gli annullamenti contro la bellezza e l’identità. Può essere ma non mi serve a diventare migliore, è una sapienza furba, una impostazione difensiva. Io penso che finché le persone non saranno persuase significa che il lavoro non è stato sufficiente, non è ben fatto. Non ho interpretazioni suggerite da una sensibilità paranoidea, non ho la reazione sdegnosa e prevedibile della vittima dell’ottusità del mondo. Mi sono fatto semmai l’idea che i più sospettino una nostra (mia) meschinità, quella della mia paura di riconoscere la mia propria difficoltà a causa di tutto quello che evidentemente, stando così le cose nella altrui incomprensione, c’è da fare ancora se si vuol portare avanti una ricerca. Potrebbero avere paura della nostra paura. Potrebbero non fidarsi affatto temendo che noi stessi temiamo le grandi difficoltà future. Allora diciamo che invece sappiamo di aver fatto poco. E non bene come si poteva. Chi ha talento fa ciò che vuole, il genio ciò che può. Non abbiamo noi l’unicità del genio ma lo specifico irripetibile, l’identità che deriva dalla distribuzione casuale e probabilistica della genetica dei singoli. La base comune è l’irresponsabile distribuzione delle basi molecolari del DNA e l’aleatoria anatomia neuronale nella massa cerebrale. Si cerca il pensiero che si origina nella biologia alla fine del parto che chiamiamo l’io della nascita che è casuale aleatorio e probabilistico e dunque ‘senza peccato’. In relazione a questa idea dell’origine materiale del pensiero, quando mi chiedono se io sappia della libertà, rispondo che essa non mi compete perché non è patrimonio del primo anno. E per questo non me ne occupo ormai più durante la ricerca. Faccio -d’altra parte- poche cose alla volta. Come fossi stanco, che non è. Ma voglio comunque procedere piano. La lentezza è perché non sono mai più certo che si possa una volta essere finalmente arrivati. Una volta arrivato, mi dicessero che è tutto là, che non c’è altro e che potrò riposarmi come un premio, il peso insostenibile della fermezza mi franerebbe addosso, come la pensilina della stazione. Chiamo ‘ricerca’ la marcia di avvicinamento e ‘ambulatorio’ questa costruzione di muro carta e cotone. L’ambulatorio è anche ‘riposo’, assai diverso dall’idea del lavoro di molti. ‘Oasi’ è il sentimento della relazione che si interrompe dopo due ore ogni volta. E ‘transfert’ e ‘controtransfert’ chiamo le posizioni ideative e affettive reciproche delle ‘anime’ in palio. E declino in forma attiva e passiva il verso del rapporto. Come se, quando l’altro diventa uguale a me avendo capito una cosa prima oscura e fuggente, il tempo tornasse nelle mia braccia come lui o lei tornano nell’alveo della propria esistenza. ‘Amore’ è il nome uguale di ciascuno. Quello che devo specificare è che invece non è ‘amore’ la dinamica tra di ‘noi’. È qualcosa differente dall’amore. Questa è la cosa davvero difficile da comprendere ed è il motivo della ricerca che, quindi, è anche ‘cura’ di una non conoscenza. Credo che non ha fine. Bisogna insistere sempre. Non si vede il motivo di una interruzione, una linea esatta di conclusione. Credo che sia perché il pensiero per via dell’origine materiale cambia continuamente. E non si può che assecondarne la natura che garantisce la genesi e poi lo sviluppo del linguaggio. Sono andato a curiosare dunque nella linguistica. Per la prassi del mio lavoro con gli altri ho scovato una definizione nelle riflessioni degli scienziati di quella disciplina appena differente dalla psicologia e ad essa afferente. Il rapporto medico/paziente è un lavoro di cura che tuttavia, continuamente, è in grado di “ampliare le basi empiriche delle teorie”.

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mi manchi


Posted By on Set 27, 2013

Il Mutismo Laborioso Delle Api ©claudiobadii QUADERNI

Il Mutismo Laborioso Delle Api
©claudiobadii
QUADERNI

10 elevato a -35 è la frazione di un metro che designa la scala di misura  più piccola che CREDIAMO POSSA ESISTERE. Poiché sotto quella misura il concetto di distanza perde significato a causa degli effetti quantistici diciamo che il limite di esistenza di scale ulteriormente piccole non è la loro plausibilità ma la loro inutilità. L’estensione di per sé, per quanto piccola, non pone la propria irrealtà. Però ha un fascino il fenomeno mentale della pensabilità del reale esistente per cui dal fenomeno dell’osservazione degli oggetti sensibili fino a scale di misurazione solo immaginabili resta con ostinazione una realtà di estensioni avvincenti. Una possibilità di realtà radicata dentro di noi fino a frazioni estreme di interi ‘dati’. Siamo capaci di mantenere in noi l’idea di una realtà estesa con persistente ostinazione fino a gradi estremi di misurabilità. Con testardaggine simile persiste l’idea di te nella mente mia fino ad oggi che sto affacciato alla terrazza dell’attico. Scruto le colline che disegnano l’anello sopra l’acceleratore. Cercando la tua figura in avvicinamento. Ci invidiano d’essere quasi troppo vecchi per tutto questo quieto fervore. Che è tuttavia evidente non si sa se per la sua quieta potenza o il temperamento del suo calore. Alla nostra età questa evidenza è una sfacciataggine. Ma abbiamo sovvertito lo schema. Sistemato la libreria sui volumi della biblioteca comunale. È tempo degli unguenti profumati. Essenza. Base. Pelle ben lavata. Prendersi a cuore. I balsami addosso. Maglioni tessuti di profumo di lana. Profumi persistenti. Guardare con una vista guarita. Chirurgicamente. Trasparenza e accettazione. Essere ben disposti. Non abbiamo in mente i processi di montaggio produzione e vendita. Noi facciamo l’accumulo di capitale sulla linea di demarcazione dove la biologia epidermica fruisce di un’economia di frontiera. Molecole addossate a molecole infiniti confini sovrapposti e microscopici filtri porosi. La pelle ha la mimesi dell’integrità e della continuità per la esatta coerenza dei margini. Nutrimenti. Psoriasi scomparse. Altri mali in gioco tra difficili diagnosi e sperimentazione farmacologica. Resistiamo cento anni da questa parte della trincea. Realizziamo il sogno del pioniere e del giovane colono. La fisica ha spogliato gli alberi della passeggiata ti scrivo allora sotto segmenti di fil di ferro chiaro attraversando i reticoli dell’ombra dei rami sul foglio e con mano ferma come il cuore che ti pensa. C’è nel pioniere e nel colonizzatore singolo un romanticismo illetterato e non letterario. Un animo simpatico e nodoso come il legno degli alberi spogli di questa via. È insieme un ricordo di quello che dovrò fare stamani e domani per sempre. E con il ricordo degli impegni futuri è tener a mente di vivere. Mi manchi. Così vivo l’avanzamento dei lavori. C’è nell’animo di giovane pioniere che è insieme un contadino di frontiera la curva dell’orizzonte che si alza al centro dello sguardo e declina a destra e a sinistra dove rotolando si ammassano le cose inutili del viaggio. Mi è arrivata una tua lettera portata dalla carrozza postale come una regina. La distanza via via che avanziamo invecchia le cose che abbiamo lasciato là. Sei diventata una donna adulta che scrive d’amore baci e suoni e si offre di riuscire a soffrire per l’assenza di viaggio di chi ama. Mi manchi. È un coro mattutino che cantiamo tutti insieme. Il canto dell’esodo. Le foglie cadute è per il freddo. Le leggi biologiche floreali trasformano il paesaggio e tutti noi come se questi alberi nudi ci tenessero allo spiedo sulla brace dei sassi ghiacciati. Mi manchi scende dal cielo sono foglie e neve coprono la pavimentazione di bruno chiaro. La fisica dell’attrazione terrestre mischia foglie e neve abbiamo una estesa tessitura annodata sotto le scarpe a perdita d’occhio. Mi manchi si estende rassicurante a domani e dopo per sempre. Come un impegno. Abbiamo di fatto contratti redatti con inchiostro su pergamena come nei film ma con minore enfasi scenica. Il ricordo dei nostri amori è uno sfondo variabile inadatto alla recitazione. Più che altro con questi rami metafisici contro le strisce luminose del cielo è il mutismo laborioso di un ape che rappresenta il presente senza te.

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“Più allegra, perché più sofferente” dice la frase di un saggio sul popolo brasiliano e la rivoluzione politico sociale effettuata da Lula negli anni dei suoi mandati elettorali. Questa affermazione è dolce a coloro dai quali ha in regalo la comprensione. Ho una innata simpatia per quelli che possono capirla, quella frase. Essa, dunque, mi ha trascinato tra la gente. Sempre la luce vedo in certe frasi. Le idee altrui ficcate negli occhi. Le sonde dell’intelligenza da ogni parte.

Camminando il pensiero sono variazioni di affetto, perforazioni nel ghiaccio dell’artico. Non ci sarebbe niente di scritto nella mia vita senza la simpatia, la vicinanza, e la conferma precaria. L’invidia sontuosa mi porta -segnalando potenza e bellezza altrui – alla sartoria per il vestito da cerimonia. Per le celebrazioni di incoronazione, fondazione, varo, conferimento, inaugurazione, augurio, ricordo, trionfo, vittoria, compassione civile, orgoglio popolare, opera lirica, sinfonia, teatro tragico, comprensione e concerto.

Pare che dalla realtà delle strutture anatomiche e biologiche cerebrali si passi alla funzione mentale attraverso la fisica delle particelle subatomiche. Si può dire in altri modi -forse- ma credo sarebbero dilazioni, di quando non ci si vuole assumere la responsabilità di un immobilizzazione e di un ritardo. C’è un punto di difficoltà innegabile, prima di andare oltre la simpatia per il sublime.

Essa alla fine è solo una resa. Contro l’immobilità della simpatia e il ritardo della condivisione delle banalità vado puntuale al mio solito lavoro: il minimo che posso fare. Che vuol dire che è anche il massimo e l’essenziale per cominciare. Non si deve avere troppa ansia e troppa sfiducia. Altrimenti si fallisce. Si va incontro alle aspettative irreali e alle delusioni.

Si deve studiare. Lasciare alle spalle il presumibile. Così oggi leggevo, in un libro di fisica, veramente, non di psichiatria, che il problema della comprensione e dunque forse della legittimazione di certi ‘fenomeni‘ si lega al linguaggio. Che esso è, applicato al problema delle interazioni, proprio un completo fallimento in genere. Perché si struttura secondo una logica causale della realtà percepita e non ha derivazioni dalla fisica delle probabilità.

Il linguaggio che ha solo cose possibili è cieco. Ha una struttura che lo rende opaco -forse irrimediabilmente- ed è una grande complicazione per il mio lavoro che non ha che  parole per funzionare. Così sono rimasto in silenzio, a lungo, e la mente non suggerisce nulla di nuovo. Forse è un difetto di pensiero che mi prende, un po’ credere che questo arresto sia la fine. Fine del tempo a disposizione. Della vita. No, è un luogo. Una piazzola nel deserto di fiori.

Con solo i fiori e senza la presenza umana. Essere alla fine: è così che tuttavia angosciosamente procede la logica: verso la fine, la morte, il piacere della conclusione definitiva. La logica procede per la morte. Ha alla base l’istinto di morte. Dopo ha alla base l’irreale del paradiso o della prigionia. Forse la fisica del pensiero sano ha invece ripristinata la vitalità, che negli esseri umani è una continuazione costante di una origine inarrestabile. Forse.

Alla base è sonno della nascita e anatomia illustrata per immagini: silenzio, mutismo verbale, cellule. Poi componenti strabilianti e solo immaginabili, perché non si indaga su se stessi oltre un dato limite di apprezzamento. Càpita il pensare non cosciente, senza rilevanti dati da segnalare ‘là fuori’. Càpita l’immagine che emerge da una via sottile, una immagine definita “linea di formiche comparse sul muro chiaro“. Elevata tecnologia di biologia indicibile umana.

L’immagine sta in caduta perpendicolare ad una linea di pietre azzurre da mosaico. La base di silenzio di mutismo. Di cellule. Essa durerà un po’ o molto, forse. Potrò aspettare. Non cerco gli stimoli. Alla base sta la nascita che si ritrova nel silenzio della lettura. Nella passività dell’osservazione della bambina che impara a sviluppare l’equilibrio, sulla corda del parco, mentre conosce -ogni volta- la sua migliore amica. Lei ha reso probabili moltissime migliori amiche in ogni luogo della città.

Ora distante dal parco, qui, è una piazzola nel deserto di fiori. Con solo i fiori senza presenza umana. Tranne me: che scrivo le cose che non ci sono e restano senza esistenza: i pensieri. Poi diventano vivi quando sento le persone in fondo alle scale, che tornano (ormai sono tanti anni) perché non c’è stato l’annullamento. Il lavoro ha forma di passi sulle scale. E ha potenza di creare la casa, la soglia, e la stanza intorno alle figure che salgono. E creare le mura d’aria, che separano questa casa dalle altre case.

La strada. Il giorno. Il luogo. La misura. Progressivamente si dispongono seduti sui divani e le seggiole in cerchio, e infine si fermano, respirando leggeri. Arrivo per ultimo, poi siamo all’inizio che sta alla estrema periferia degli abbracci di saluto. All’ingresso. Il metodo della seduta collettiva esclude una relazione ‘fisica’. Dicono che sia preferibile. Nei divani stanno assai stretti. Non si sa che effetto avrà sull’inconscio.

Per saperlo dobbiamo sviluppare la capacità di restare assieme fino all’altra estremità della relazione, che ci precipita di nuovo nel mondo. Abbiamo costruito con la nostra coesistenza -che adesso è allegra- un lavoro. Esso ci ha permesso la responsabilità di scegliere. Gli uni gli altri. Adesso ci tocca pensare alla ulteriore responsabilità di fare altre scoperte.

Il lavoro solitario, lo studio, il silenzio delle piazzole dei fiori: beh, non sarebbero più sufficienti.

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la ford modello t e il cambio del mondo

la ford T, l’immagine, il lavoro, il pensiero e l’azione sociale

Abbiamo ripetuto infinite volte il gesto che produce il lavoro alla fine della giornata: ma non riesco a pensare ad una coattività malata. Non si vede ai nostri piedi che l’ammassarsi degli oggetti prodotti: tutti uguali tra loro eppure quella ordinata somiglianza mi consola e non genera alcuna sensazione di noia. Il tempo del lavoro e la natura dell’universo delle cose che il lavoro ha allineate e distribuite sono espressione di umanità cosicché possiamo ridere riflessi negli occhi d’oro della specchiera alle spalle della donna che ci serve la frutta e il vino nei nostri rarissimi giorni di festa.

Siamo figure antiche, popolazioni arcaiche oggi viventi ai margini dei boschi e delle tundre. Fossimo naviganti comanderemmo rimorchiatori attraverso gli stretti tra gli oceani: nientedimeno. Dunque né del tutto perduti ma neppure presi in definitiva considerazione. Siamo bambini delle prime classi elementari: potreste sentirci pronunciare, a voce alta, leggi regole e definizioni che sembriamo leggere su una lavagna celeste e tutta la nostra serietà non è che nuvole. “Leggimi, leggimi i pensieri !” – pretendiamo continuamente dai nostri amori. Perché non vorremmo mai durare fatica.

Per parte nostra rispondiamo più che altro una specie di decifrazione delle azioni del respiro che costituiscono le riprese che scandiscono il discorso. Sono soltanto istruzioni per l’uso delle anime le parole d’amore: e riteniamo che, in genere, tutte le parole lo siano. Comunque dovranno diventarlo. Guardo dalla vetta del grattacielo sfuggito all’attentato dell’odio e della stupidità dell’estremismo religioso i giorni allineati come cose fabbricate con le azioni delle mani alla catena di montaggio.

Ci sono automobili lucide tutte uguali alle porte spalancate della fabbrica e le donne e gli uomini in fila che non vedono l’ora di salirci sopra. Che vogliono sentirsi addosso l’odore dolce di vernici come la seta del vestito il fumo delle sigarette e – all’apice delle notti dopo la festa che si è svolta per la via principale della città – le carezze che si attendono da secoli e poi alla fine si pretendono come diritti sindacali. Chi ha amato davvero sa che permane un mondo domenicale nelle scenografie dei pensieri dotati di certa gioiosa praticità.

Quando la porta della stanza della ricerca si chiude – dopo aver lasciato uscire tutti fino all’utimo quelli che hanno scelto di non lasciar perdere niente – è allora che mi resta ogni volta impressa in fluoresenza l’idea di possibilità molteplici: è questo il semplice schiudersi di uno spiraglio. “Non sono finito” – penso. E  guardando di fronte mi colpisce che – nonostante la mia modesta forza non mi abbia mai consentito di essere certo di non fare mai qualcosa di sbagliato – tuttavia il buio assoluto non si è completato chiudendosi addosso a me come il coperchio di un sarcofago. “Anzi!

Oltre il limite dello schermo di veglia si compongono caleidoscopiche forme di ombre in agitazione. “Una ricerca è costituita in un luogo precisato e ogni volta inizia con fin troppo esatta puntualità. Le persone non sono quasi mai nello stesso numero e le cose che si dicono non possono essere previste da nessuno poiché non ci sono mai stati accordi prestabiliti di nessuno con me.” Mai si è realizzato la contenporaneità fatale di una assenza di tutte le persone e la ricerca è potuta proseguire.

Non so se potrà essere il linguaggio a chiarire tutto. Ora diventa importante la (parola) fantasia perchè essa consente di ricreare il pensiero che si è formato, a proposito del mondo e delle relazioni, in assenza di coscienza. Posso dire che alcuni sognano la attività della ricerca come un rapporto sessuale di grande intensità. Ma questo, seppure li rafforzi e li inorgoglisca per qualche breve giorno, non fa alcuna trasformazione. Altri propongono una immagine di indecenza quando colgono la  necessità, per qualsiasi ricerca, di opporsi all’istituzione.

Ci sono dunque sogni assai più riservati di quelli a contenuto francamente sessuale, ed essi hanno il gusto dell’insistenza nell’ affermare la necessità di riproporre il rapporto nei tempi e nel luogo stabiliti. Io penso che questa è una buona disposizione d’animo per portare avanti quanto si è cominciato circa trenta anni fa. Adesso è necessario trasformare quanto si è sempre definito immagine in lavoro e restituire alla realtà non materiale del pensiero la certezza di potersi tradurre in una potente azione sociale.

L’immagine della ricerca adesso potrebbe essere pensata come una affermazione del tipo: “L’assoluto non esiste come realtà umana.”

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il sogno di Biancaneve

il nero il lavoro il destino e le donne

I lunghi cavi che portano l’energia per il suono e per i fari che tolgono il buio dalle spalle e la cenere del pentimento dai capelli stavano distesi nell’erba. Noi sopra vestiti in prevalenza di scuro per fare festa agli sconosciuti ai maghi che dovevano fare i suoni per raggruppare legare far sorridere aiutare togliere i mali della terra dalle mani dalla mente lasciar entrare l’aria dolce che saliva dal basso e arrivava anche dalla riga rossa del vento maestrale. Ora resta un silenzio di giorni muto come la densità ottusa e soda delle fibre muscolari attivate dal movimento delle pulizie fatte con gli amici nell’afa del giorno dopo. Le briciole di torte dolci e salate di formaggi verdure zuccheri sono note di quanto era successo. Vedo quanto scritto: prima viene il lavoro delle persone. Ora di nuovo c’è il lavoro di altre persone. ” Il lavoro al posto del destino” sto pensando. C’erano stati i maghi che avevano mosso l’aria col suono ma non so dire nulla perché il lavoro di prima dava anche in quel momento la opacità della coscienza la stanchezza che impedisce l’attenzione concentrata e resta solo il brusio accordato nell’idea che avevo ritrovato la felicità delle parole che ci scambiamo per anni le parole con le persone belle della ricerca. Non ho ascoltato la musica. Forse scoprirò che dovevo ascoltare e dovrò ascoltare in seguito: “ma non è neanche detto” mi concedo oggi.

La festa delle persone ha preceduto accolto contenuto protetto la festa dei suoni. Ma io non ho ascoltato nessun suono. Erano animali furetti volpi ricci sbucati dalla linea dei campi le persone ben vestite e curate e profumate come si deve sempre in una festa che è rispetto per l’interrsse di uno o più sconosciuti. Erano animali intelligenti furetti volpi ricci scoiattoli barbagianni istrici e lepri nella radura di Biancaneve, sbucate tutte insieme dalla linea delle torce per la guerra alle zanzare che restassero lontane oltre noi sopra i campi incolti, le persone ben vestite e curate e profumate per assaggiare notizie di parole riguardo al pomeriggio alle musiche. “Chi sono? Racconteranno una storia!” Non erano certo là solo per le pietanze. Forse le persone belle, sbucate dalle auto lasciate ai margini della radura polverosa, oltre il prato, mi hanno sedotto. E non ho saputo notare altro. Non ho ascoltato se i musicisti hanno raccontato la loro storia, il loro lavoro, le parole -offerte per essere morse mangiate leccate e assaggiate- saporite, per offrirsi ad un tradimento d’amore, ad una seduzione riguardo alla curiosità, al desiderio per i suoni e la loro origine. Non ho ascoltato perché, forse, non c’erano queste parole da scoltare per togliersi il desiderio di sapere. “Allora – mi dico – il poco aiuto, per servire quelle persone affamate di sapori, e la solita facilità di stare insieme agli altri per la felicità delle parole che vengono su, come gli gnocchi alla esplosione del bollore, hanno prevalso anche sulla musica.”

È durata la musica: accolta dal buio caldo dello stare insieme legati con le parole. Si notava il riflesso del lavoro dall’interno del casolare profumato, e tutto quel lavoro rotolava sui tavoli provocando le scelte. Si notava, fuori, la bellezza del nero, delle luci, dei cavi svolti a terra per assicurare l’alimentazione delle sezioni ritmiche. (I maghi, per quel che ne sappiamo adesso, avevano deciso che invece i fiati avrebbero avuto maggiore libertà.) Io anche, per il mio piacere, avevo deciso di guardare vicini gli occhi delle donne che fanno la ricerca, venute apposta per essere rapite da eventuale fascino delle persone: venute a cercare il lavoro persino dove è più rischioso fino a perdersi: nella religione dei suoni. Però non ho chiesto ” Ti piace?” : perché non ascoltavo più nessuna musica, perché già ridevamo raccontando di noi, delle nostre facce, e correvamo sulla musica come su un prato, con i serpenti neri dei cavi di alimentazione innocui ai nostri piedi, come serpenti senza veleno quando il desiderio non si teme e si soddisfa…. Posso dire di noi che eravamo tutti sorrisi elettrici e lampi di gioia ad orologeria. I maghi li ho intravisti: tutti raccolti tra loro, nella camicia sgargiante dei suoni: distinti e distanti da tutti. Non so dire nulla. Nella mia idea della faccenda -perché magari tutto si è svolto in altro modo- ho preferito lasciare tutti così distinti e distanti. Senza voler sapere se era tutto quel nero dei nostri vestiti che ci aveva già fatti noi distanti da tutti. Senza sapere cosa fosse la musica quella notte. Le persone sedute ad ascoltare, cioé noi vestiti in prevalenza di scuro per fare festa e i furetti le volpi i ricci sbucati dalla linea dei campi le persone ben vestite e curate e profumate come si deve sempre in una festa che è rispetto per l’interesse…

….o le persone eteree, i maghi, distinti sempre in sinfonici accordi reciproci, ma sempre allora -nell’addensarsi del nero del cielo- così distanti. Vedevo i tempi differenti. Restituiti e misurati. “Ora possiamo tornare a lavorare con amore anche noi distinti differenti distanti con infinita attenzione” ho pensato. Camminavano le persone a prendere le cose da mangiare e arrivavano ai tavoli piene di ghiotta curiosità ed io sentivo irresistibile la bellezza indecente del gusto di piacere e non ascoltavo la musica. Il lavoro sul prato aveva disposto desiderio e seduzione: ero felice che fossero in prevalenza donne, donne in sfacciata prevalenza a denunciare la deludente sordità maschile alla procacità. Si allungano le mani e si è preso tutto quanto: i sorrisi, le intenzioni evidenti, i polsi profumati. Si saranno in un attimo affondate le labbra nella crema della concessione e i maghi si bastano sempre ed io ero così distante che non mi basto mai. Ed ero così felice perché penso che quella differenza lascia libere le persone. Sentirò nelle registrazioni che i fonici ( fate conto il gatto e la volpe scaltri e defilati ) dovrebbero aver catturato l’eco di quanto è entrato nell’anima senza passare per la coscienza. Poco a poco vedrò meglio ma non tutto perché nel tempo le cose saranno svanite.

I maghi distanti tutti raccolti gli uni accanto agli altri tengono il loro segreto. Linguaggio e musica si sono avvicinati un attimo poi separati. Solo poche ore prima i maghi erano al lavoro: deponevano cavi neri per l’alimentazione sembravano operai al servizio della creazione del suono adatto. Poi via via che il buio scendeva trovavano una chiusura forse necessaria. Io restavo felice nell’amore per il lavoro che precipitava con i profumi dall’interno del casale antico e si legava bene con i sorrisi e le voci dei camerieri improvvisati e con le infinite scuse di seduzione che tutti sapevano inventarsi. Dopo, al momento della musica, credo di aver scelto di non ascoltare perché ricordo solo volti di donne e sorrisi e le creme profumate di idee di concessioni sempre possibili.

Una voce di donna ha insistito fino a che il tramonto se l’è portata via e nel buio hanno iniziato a cantare i grilli. Io guardavo il fondo del catino della notte e ricordavo che per me il nero è l’eleganza della necessità, la forma di chi si sente libero nel rispettare l’obbedienza alle regole. Non mi chiedo più se possa avere una qualche ragione chi trova la forza di una ragione nell’annullamento delle ricerche indispensabili. Ricomincio a cercare da qui: avevamo accennato qualche sera prima se si dovesse provare a sviluppare la questione della minorità assoluta delle donne nelle sessioni di musicisti erranti: quasi ci fosse un problema una fobia una incompatibilità attuale. Chissà!?

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