Posts Tagged "resistenza"


perché poesia


Posted By on Gen 6, 2012

perché solo questi modi di scrivere tengono insieme l’umanità del pensiero che resta linguaggio nonostante tutto; e perché da un poco penso che si debba riuscire a rappresentare la coralità qualsiasi cosa voglia significare; e perché credo che il coraggio non ci se lo da da soli quasi mai e non è strano -riflettendo- capire che spesso l’illogicità e l’ingiustificabilità ne sono fonti ricchissime; e perché sento una imposizione ad un verso delle cose come un’etica che orienti le preferenze proprio come orienta l’inclinazione del tuo sguardo quando mi vedi arrivare e organizza la piega del sorriso quando sulla spiaggia si capisce che quel puntino laggiù vicino alla casa rossa sarà senz’altro il gelataio che viene piano ma inarrestabile a salvarci dalla morte certa; e perché mi auguro che ora capirai perché piangevo quando lessi queste poesie: avevo solo il sapore della dolcezza sulle labbra per capire come ci si scontra con tutto quello che continua a non andare come dovrebbe. forse leggerai come leggevo io così diverremo uguali e smetterò di perseguitarti con il mio desiderio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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commiato per una aristocrazia dal basso

“Nonno mi ha guardato con un sorriso e ha detto :- ‘Solo chi apprezza veramente la vita e la libertà, e comprende fino in fondo, merita di vivere libero….anche se è un semplice pollo.’  Io ci ho pensato un po’ su e gli ho chiesto :- ‘E se tutti i polli un giorno diventeranno come lui? ‘ Dopo una lunga pausa nonno ha detto :- ‘Allora bisognerà abituarsi a cenare senza zuppa di pollo…’ Il concetto della libertà è sacro per i siberiani.” (‘Educazione siberiana’ – Nicolai Lilin -Einaudi Editori – 2009 e 2010 – pag. 23 )

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grazia della modestia


Posted By on Ago 3, 2011

grazia della modestia

Di mattina d’estate deve essere lo stimolo della ricerca a porre l’attenzione su una vecchia pellicola famosa e penso ormai ritenuta inservibile nella sua pretesa attività di denuncia. Però le figure di arte sullo schermo sono affascinanti. Il colore ingrigito provoca la passione assai più di certi capolavori impressionisti. O più degli smalti urlanti. Orwell ha terribili colori segni ingrigiti dal presente segni di un presente vecchio per via di quella corsa all’innovazione che si basa sull’alterazione ossessiva di tutto. Orwell mostra lo scheletro del totalitarismo. “Teoria e pratica del collettivismo oligarchico” – “L’ignoranza è forza”. Si trova nel grigio ottuso una potenza di opposizione. La provocazione schiacciante dell’inerzia dà la resistenza. Sento le parole recitate dall’attore abbracciato a Julia: ” Chi si aggrappa alla verità anche se è solo non è pazzo.”  Ascolto le parole programmatiche del Grande Fratello  “Scopo della guerra non è la vittoria ma la distruzione costante di tutto quanto prodotto”.  ” Il regime di potere si basa sulla povertà e la violenza contro i più deboli.”  Tutto si ripete da sempre e fallisce da sempre ogni opposizione. “L’acqua è fredda… non c’è più petrolio”. Gli amanti appena usciti dal sesso nel freddo con la prospettiva -che non temono- della fame e del freddo. Poi alla resa dei conti della conoscenza l’arresto e la prigione. Guardo i fotogrammi e so che tutte quelle opzioni si sono realizzate attualmente in modo evidente e globale. “Voi siete morti!”- la psicopolizia. Siamo l’uomo e la donna dopo il sesso nudi nel freddo della stanza aggrediti dalle divise nere che la regia propone come forza della negazione e poi dell’annientamento. La malignità organizzata del potere è sempre un monologo alla fine del discorso. Il crash sempre preceduto dalla grande svolta della parola ‘verità’ all’apice della accelerazione. Il progressivo migliorare senza una trasformazione è una accelerazione violenta che non tiene l’aderenza poi ci si sfracella nel campo. Quando nel discorso si nasconde la prospettiva del quadro che va dal buio alla luce parte il proiettile che ci ucciderà prima o poi. La rettitudine della corsa prospettica da noi al punto di fuga trasporta noi nel punto di fuga e veniamo uccisi dalle nostre speranze esplose nella canna di fucile della miopia. Il tempo lineare è un operatore della psicopolizia: ne abbiamo soltanto bisogno per ritardare la conoscenza secondo l’idea corrente del pensiero: l’illusione che il processo mentale si svolga nello spazio e arrivi solo quando è deteriorato ed inservibile alla propria maturazione. Aah! la bella idea consolante che il pensiero invecchia nè più nè meno dei gerani sul davanzale e sfiorisce non appena raggiunto il punto di rosso più intenso. Deve essere la ricerca che continua senza paura ad affrontare e smentire la tristezza e il pessimismo. Il tempo non ha la realtà fisica di una cosa che conta accumulazioni e sottrazioni delle qualità inerenti vestiti smaglianti e gramaglie. I pensieri che sono fatti di tempo sono immagini create nella mente non figure che si lasciano intravedere come una visione del dopo nel fondo della stanza.

Da minuti continua nella finestra accanto a questa dell’editor di testo lo svolgimento scattante delle figure dai colori ingrigiti ma affascinanti sullo schermo. Il colore diffuso che fotografa il tempo come usura provoca attivamente una passione superiore a quella provocata dalle tinte impressioniste. Più degli smalti urlanti dei poster della Rivoluzione con le bandiere che garriscono spinte dal vento che soffia in faccio agli eroi come una benedizione divina. La rivoluzione non può mai vincere perché quel vento che spira sui volti degli eroi non è una metafora o una allegoria: è proprio l’abbaglio mistico di chi credeva di essere armato di una teoria definitiva sulla verità. E’ il manifesto della violenza ‘legittima’ scatenata dalla riduzione alla misera. La rivendicazione dei diritti senza alcuna teoria sulla violenza dell’assenza e dell’annullamento porta all’omicidio contro i giusti. Le vittime atterriscono suggerendo di una ribellione impossibile.

“Papà mamma voi due siete in lotta dentro di me” si dice nel film ‘L’Albero della Vita’ ed è difficile non disperdersi nelle parole affascinanti che pretendono la commozione. Lo si fa. Ci si identifica con chiunque abbia pensato quelle parole per metterci di fronte ad esse isolati nelle poltrone accoglienti ad ascoltare che non siamo soli e abbandonati. Ogni volta che la commozione arriva da svariati e differenti luoghi di natura e significato disparati -tanto che non saprei raggrupparli in schemi utili allo studioso del mio comportamento- mi chiedo se la teoria della nascita ha valenze filosofiche che cambieranno o meno il pensiero e insomma determineranno una definitiva e irreversibile trasformazione della civiltà o della cultura della civiltà. In realtà mi chiedo se – in relazione agli avvenimenti determinati da certe asserzioni potenti del pensiero dei geni – potremo sorgere ed alzarci dalle poltrone per andare alla strada sui bordi e i marciapiedi e il ciglio piangente di erba bagnata e ridente di margherite e violette. All’erba addolcita di un campo in riva alle coltivazioni di un contadino reduce dalle grandi guerre. Sorriderci a vicenda come fosse naturale assistere al mattino e al crepuscolo con qualche scusa.  Andare sul ciglio per applaudire appena si intravede la polvere alzata dai bolidi in corsa – laggiù – all’inizio del rettilineo. L’inizio del rettilineo è alla fine del nostro sguardo volto indietro. Dal punto più lontano alla fine del nostro sguardo – nel punto di fuga della prospettiva dei ricordi – nasce il desiderio. Da là arriva il futuro tanto velocemente che ci sopravanza rombando e scivola via con effetto doppler. Con la musica di un cambio di tono per la differente pressione del tempo evocato dalle masse in movimento nasco dal buio pensavo alle corse dei bolidi. Era il tempo in cui il resto dell’impatto dei suoi occhi fiammeggianti era una carezza sul dorso della mano mentre spariva oltre l’angolo della porta. Una fata che si tuffava nella mia abbagliante ignoranza.

Era il tempo in cui l’ignoranza evocata dal desiderio soddisfatto nell’amore – si fondeva e si scontrava con l’ignoranza suscitata dalla complessità di una teoria sulla nascita umana e sulla realtà medica della vitalità che sono forza di una fisiologia da ripristinare. L’ho sùbito e sempre ritenuta la migliore teoria possibile. Studiando dentro l’università apprezzavo che quella fosse davvero una teoria essendo il resto rutti accademici. Aveva ed ha la grazia della propria trascurata proposizione quasi di chi non dà importanza alla propria accettazione. Aveva la potenza di legame delle parole con le parole che riproponeva -dietro l’incoerenza apparente- il disegno rigoroso dei frattali. L’ estetica della meraviglia di fronte al falso disordine della casualità dei movimenti caotici. Ma continuai a pensare a qualche cosa di più e solo ora mi chiedo se fosse previsto. Se è mai previsto che ci sia un futuro oltre la meraviglia. Stamani osservavo Orwell sullo schermo -quel suo 1984- e dico che stamani dovevo essere depresso per quel tempo. Chissà quanto quello stato d’animo è legato a queste domande. Se è vero che qualsiasi teoria verrà letta e decifrata secondo le nostre proprie vicende e la comprensione della sua originalità sarà solo se essa susciterà in noi una originale possibilità di restituirci la nostra storia: errori in testa come pennacchi sul cappello dei gendarmi.

Mi chiedo sempre se – nella teoria migliore che io abbia mai trovato a proposito delle possibilità umane e del futuro della civiltà e della cura delle distorsioni del pensiero di certi ammalati – ci sia anche la modestia come uno statuto implicito originario e inavvertibile, Per essere capaci di tollerare il fatto che sempre dopo l’amore avevamo sentito che ricominciava tutto: noi – la solitudine – l’immagine di lei distratta che vola nel buio – e il gusto di essere un poco soli a ricominciare la vita sospesa dall’amore. A riprenderci e ricominciare anche il tempo arrestato dalla comprensione condivisa delle mani sugli occhi e delle labbra sulla pelle che ci rende potenti d’aria ed inesistenti – per felici ore -sul piano della realtà sociale politica e pratica.

Nella poltrona calda ed accogliente di oggi non è che sappia rispondere. Perché anche una teoria -prima di tutto- sono le parole di qualcuno che ha voluto (lo volesse o meno) che ascoltassimo quanto aveva creduto che andasse ascoltato. La sua presunzione può essere smisurata ma essa dovrà vedersela con la nostra modestia. La misura è la grazia. La grazia che siamo certi esista nelle cose e nei comportamenti se -nel poco che con essi si afferma- si determinano mondi. Se si realizzano fessure aperte su mondi. Le smisurate teorie sull’uomo devono vedersela con la modestia della riduzione alla poesia cellulare. All’allucinazione quantistica che non risolve nulla perché seppure il pensiero è materia tuttavia non è semplicemente fisica che obbedisce alle leggi. Perché la fisica non obbedisce alle leggi. O meglio: le leggi della fisica non sono leggi dell’obbedienza. Le teorie sull’uomo sono teorie sul pensiero continuamente ripensate.

Ma non c’è altro che ciò che esse fanno nel pensiero e non c’è altro da dire: se non che -ciò che sono- è ciò che diventano nel pensiero differente da quello di chi volle che ne tenessimo conto. Assistiamo a pretese. Non è proprio totalitarismo tuttavia è una diffusione di atmosfere violente sotto mentite spoglie. Una mattina di agosto la mente cerca, nel grigiore di una previsione esatta, la potenza della resistenza che non divenga promessa o rabbia. Che si apra alla grazia di altri. Per non restare sempre soli. Ho trovato il lieto fine perché ho voluto trovarlo per non restare triste. Ho trovato tra le cose che sapevo da tempo e avevo messo da una parte (‘Non si sa mai’ – mi dicevo ) la favola del mantello fatato (*). Non si sa mai, appunto, altri proiettili cercassero e riuscissero a trovare la strada delle nostre case nonostante il cambio di indirizzo.

Ho trovato il pensiero che tornava come un gatto magico sul tavolo. (**)

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musica contro l’invidia


Posted By on Lug 27, 2011

sax tenore

musica contro l’invidia

Dunque c’è una teoria di base e poi una serie di anni. Persone. La difficoltà di escludere atteggiamenti settari. C’è la potenza e la miseria delle parole. C’è l’immaginazione. La conoscenza induttiva. I tags della vita. La nuvola di elementi prevalenti circondati dalla musica. Il fruscio di quanto accade soltanto di rado. Nomi di cose. Altro notte pensiero mani mondo risveglio natura tu rosso linguaggio ferita felicità deserto caffè. C’è la parola disegno e incanto. Non c’è la parola denuncia. C’è resistenza non ci sono odio distanza cultura santità. Silenzio sole e scrittura ci sono. Sottomissione non c’è e penso che avrebbe potuto e dovuto esserci. Avrebbero dovuto esserci appassionatamente troppo presto infinitamente oscurità morte declino ritorno rapidità. Ci sono i pronomi tu e io. Lei non compare nella nuvola come una deliberata esclusione che più che altro evidenzia che lei poteva esserci. Loro non c’è. Noi c’è per ridere e farsi accanto e rubare. Noi chi? Due tre più di tre un mondo intero una piazza di persone? Piazza non c’è eppure la piazza è una ‘figura’ di grande potere evocativo seppure foneticamente non sia entusiasmante ma lo diventa se uno è accogliente alle probabilità architettoniche del pensiero. Piazza doveva esserci perché c’è materia e sarebbero andate assai d’accordo e si sarebbero arricchite l’una dell’altra come una buona compagnia di innamorati. Mente sta bene con ferita. Sonno con resistenza. Molte cose che ci sono starebbero bene con quanto non ho saputo vedere. Molte cose che ci sono inevitabilmente riveleranno la difficoltà. Manca pesantezza che mi appartiene comunque. Manca coraggio che dovrò proporre. Ci sono molte cose bellissime. Deserto c’è assai poco rappresentato eppure io penso sempre come fossi nel deserto. Deserto sta con amore e pensiero che troneggiano. Dietro di loro c’è tempo parole linguaggio. Non so se stanno bene accanto. Io penso che il linguaggio è sempre più difficile un impegno rigoroso e sostanzialmente impossibile. Impossibile non l’ho annotato mai seppure avrò usato la parola. Chissà forse non volevo sottolineare che ci si trova troppo spesso di fronte a quanto pare impossibile. Manca settarismo. Mancano difficoltà e fatica. Dovrebbero esserci. Manca violenza e aggressione. Anche quelle dovrebbero esserci. Notte secondo me sta benissimo con vita. Natura con ricerca. Poesia mi pareva che non stesse bene con nulla poi ho deciso che invece si accorda con realtà. Luce mare mani avrebbero comunque potuto bastare per qualsiasi cosa. Risveglio c’è ma non è gran che bello: una parola eccessivamente sentimentale. Una parola buia dopo tutti questi anni. Le parole luminose mi verranno regalate penso. Ho messo silenzio e per questo non avrei dovuto mettere musica. Musica c’è per una forma di timore reverenziale (quanto confina con dipendenza servile nei confronti di quello che non capisco?) che ho ancora verso i musicisti. Non dovrei averla messa. Troppo onore. O forse ancora troppo scarso amore.

Regolerò negli anni a venire le faccende con quanto c’è di più difficile. Da subito dovrò propormi la costruzione delle difese della città e mettere invidia e veleno insieme. Ho presente la possibilità di coloro che dopo ogni rapporto cortese si allontanano danzando sulle scale dopo avermi corretto il caffè con il cianuro.

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Posted By on Lug 25, 2011

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Si dovrebbe dire qualcosa di tutte le cose. Evidenziare l’effetto di risalto che fa nella mente l’arresto del moto della caduta dell’albicocca staccatasi dal ramo più alto conficcato nell’ellisse dell’orbita di Giove prima che si schiacciasse sulle pietre bianche del pavimento del giardino privato dietro casa oggi alle tre. Si deve parlare tentare di scrivere qualcosa a proposito della calura impressionante dei giardini d’estate per cui si è cessato di uscire a giocare fino a che la sera non si porta via le caldaie bollenti delle nuvole di afa. Il caldo è una passione. Una forma violenta. Un ordine costituito. Bisogna fare la lotta denunciando e diffondendo la necessità della guerra contro il rumore del bollitore celeste che ci fa ammalare perché ci riversa addosso l’impossibilità di respirare sotto forma di miele dicono che è la natura della meteorologia impazzita. Bisogna esprimere l’inutile bellezza dello spreco tipicamente umano e scendere alla miniera dove si estrae la sapienza dalla passività dei corpi immobilizzati e torturati. Si esaltano i corpi infernali più che le luminose cavallette nell’oceano luminoso del paradiso. Scrivere amando allacciati come cinture di salvataggio gli uomini lucertola incatenati alle pietre i toraci che si arrossano tra pietra e sole e neanche l’indignazione gli riesce più e realizzano nuove forme di pensiero a proposito della resistenza. Una puntuale resistenza promessa per domani stesso se riusciranno a scampare ai raggi e alla solitudine. Bisogna dire i pensieri di coloro che patiscono torture che noi neanche possiamo immaginare. I pensieri di coloro che non potranno neanche mai essere consolati dall’idea che potrebbero anche essere salvati non fosse per l’indifferenza. Rendere conoscibile tutto quello che resterà per sempre sconosciuto a chiunque nella sua esistenza. Bisogna pensare che non è finita per sempre mentre tutto è oramai finito per sempre. Nella scrittura ci sono evidenti segni di ardore controllato. Bisogna denunciare la consolidata disciplina utile ad accaparrarsi l’Ambito Premio. Svelare l’impazienza antipatica dell’Artista-Bambino obbligato alla Predestinazione. Ci sono coloro che decidono le esatte proporzioni della diseducazione che acquista così un grande effetto estetico. Faccio anche l’archeologia delle rovine dell’emozione fredda che viene sommersa dal terremoto scrosciante della cascata degli applausi del ‘Pubblico’. Il ‘Pubblico’ che ovviamente e tristemente non è il pubblico.

Sto altrove a distanza. Riconosco il pensiero libero – nei cantieri delle civiltà  imbiancate della polvere delle alte tecnologie. Rovina anch’esso -però come una manciata di uvetta dalle palme di un ragazzino- nella calcina preparata per l’asfaltatura della pista di formula uno. Scrivo il ricordo senza storia della delusione che resterà ‘per sempre’ . La delusione è una manciata di puntini scuri in pochi centimetri quadrati della curva alla fine del rettilineo di partenza. Lacrime senza una ragione come fosse stato un evento naturale, non la distrazione fatale di un eccesso per l’entusiasmo irrefrenabile di una corsa. La pioggia di chicchi dolci potrà essere confusa nella sua disordinata disposizione con l’ipotesi sbagliata di una causa naturale. Il caos è falsa poesia e motivo di illegittima attribuzione di origine dei fenomeni. Di fronte alla manciata di uvetta sfuggita alle mani di un ragazzino e adagiata nella pasta di calce e sabbia bianca dove ogni lacrima dolce e appassita ha preso il proprio posto scomparendo e lasciando bolle concave sparse il riscontro di una verità al nucleo delle ‘cose’ è una previsione di natura arrogante. Quello che si può dire è che soltanto la fine ha un verso. E che la vita che non ha un punto fermo nel suo continuare è dunque senza ‘verso’ senza centro ed infinita. Dalla cultura che riflette senza pazienza e dunque è per ogni verso subito deludente e finita voglio volare alla chiarezza del pensiero che nessuno può dire la fine nella sua caratteristica che ha un verso unico e conoscibile troppo tardi. Cercare in queste terre occasionali le voci estese dalla terra al cielo da inseguire. La terra del pensiero che sa amorevolmente attendere una direzione che sopravverrà di fronte a noi superandoci con un balzo e una capriola e tutto sarà lo stupore del primo anno. Dell’inizio che si distende. L’unica intelligenza appetibile è la massima capacità di comprensione rimasta sulle spalle quando cadrà il mantello azzurro cosparso di stelle e si sarà sciolto l’ultimo grano di sale nell’acqua che beviamo perché possa restituirci l’equilibrio perduto a causa del sudore sotto le nuvole basse di agosto.

Differente dalla comprensione delle cose e dal discorso sulla ‘verità’ – indeterminata ed affascinante – la sapienza chimica in questi giorni di caldo si accresce insieme a certe idee sulla letteratura. Io per me ritengo che un essere umano che scherza sempre con troppa superficialità e odia fare sul serio con le cose e le persone scrive teorie e romanzi e anche poesia magari. Chi ha qualcuno che gli sta a cuore scrive soltanto. Forse questa è una differenza tra letteratura e musica. La musica e scrivere è immagine delle cose che non si possono pensare? Devo chiedere. Le cose che si fanno è musica che non si dice è quando le cose che si fanno sono l’immagine e l’immaginazione e sono noi ridotti quasi a niente di più che noi. Se il primo anno di vita è esistenza di realtà mentale senza coscienza la coscienza non avrà mai nessuna possibilità di realizzare un pensiero verbale a proposito di quel diverso pensiero: quel primo anno resta sempre quello che si deve tacere poiché non si può dire. Esso si ritrova  nella densità della vita collettiva. Ma non è mai ridotto al dopo: alle falde della piazza dove siamo morti per la passione alla grazia della donna che cammina assorta districando capelli tra le dita poi il dopo non ha trovato che la parola resistenza per affermare lo spazio libero e il pensiero schiavo della propria potenza. La musica è il pensiero della incredulità perché l’immagine resta sempre – essa dopo non muore mai – al primo anno che si risolve lento e lento scivola ride e dice siamo la pelle della muta del serpente fertile e intelligentissimo che scrive il patto sociale tra il fango e  il colibrì virtuale. L’immagine dice cose che non saranno mai più pensate: esse resteranno a fare vite irripetibili nella misura variabile della densità che in ciascuno assume l’idea di vita sociale. Di livelli di possibilità di conoscenza collettiva.

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