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quello che varia


Posted By on Gen 26, 2013

Leggendo in giro ho trovato questo articolo, tra i tantissimi che esprimono, per scoperte successive, la strada verso l’amicizia definitiva tra biologia e pensiero, l’origine materiale della vita mentale, il tramonto del dualismo oppositivo, la possibile soluzione di una dicotomia. La cultura è attività umana operante, è un agente con effetti di modulazione su organizzazioni anatomo-biologiche, che forse possiamo definire come funzioni. Le funzioni sono abilità. Gli esseri umani hanno abilità definite e specifiche. Quelle abilità sono segni di irreversibilità, che ci contraddistinguono. In questo mondo -ben protetto dalla esatta definizione delle abilità di cui ogni specie è proprietaria- è evidente la sterilità di certe opposizioni di principio, che sono contrapposizioni dicotomiche. A lungo, ma transitoriamente, le ipotesi teoriche possono differire: poi sempre si accordano su conclusioni, che sono scoperte ulteriori. A tener presente questo dato, l’eccesso polemico è un atteggiamento psicologico dei ricercatori e degli scienziati. Il benessere personale e la nettezza delle motivazioni sono indispensabili agli scienziati, per muoversi lungo la tessitura neurale altrui. La trama di quella tessitura è l’altrui pensiero. Esso è la funzione variabile alla base di inconscio, coscienza e comportamenti.

Anche l’idea della necessità di benessere personale, e di nettezza delle motivazioni degli scienziati, non è che il pensiero (mio), che debba esistere un certo schema sinaptico, nel labirinto scintillante di arazzi neuronali che costituiscono, in suggestive stratificazioni, la materia cerebrale dei ricercatori. Un articolato ricamo si genera durante l’attività mentale, e continuamente si trasforma, nella realtà materiale, sotto l’influenza su di essa delle nostre culture individuali. Accade mentre esploriamo le funzioni corrispondenti al benessere personale e alla nettezza delle motivazioni di esseri umani della nostra specie (gli altri). Gli scienziati sanno dell’azione della cultura e dei suoi effetti di modulazione sulle loro medesime organizzazioni anatomo-biologiche, corrispondenti alle funzioni del loro pensiero. Lo sanno: ma non riescono ad averne coscienza. Non hanno coscienza di quanto sta avvenendo in loro, seppure siano certi che in loro tantissimo avviene che essi stessi chiamano la loro identità. Ma essa, che è la possibilità della loro intera vita non confusa, è anche un limite fisico alla loro capacità di conoscenza di sé.

Allora scelgono di osservare i fenomeni oggettivi della funzione cerebrale negli altri. Scelgono di indagare coscienza inconscio e comportamento altrui. Lo fanno attraverso  denominazioni lessicali, attraverso la ricerca di certe parole, poiché sono le parole la misurazione esatta di quanto deriva come linguaggio, comportamento, pensieri coscienti e sogni, dagli accadimenti biochimici: le parole rivelano le variazioni della trama sinaptica degli altri. I cercatori dei fenomeni della vita mentale scrivono, con le parole piu adatte che riescono a trovare, le modulazioni emotive che essi riscontrano nelle emozioni e nei comportamenti altrui, che corrispondono a schemi funzionali: una volta fatto questo possono finalmente riportare il materiale del loro studio, a dati corrispondenti di chimica e di biologia, di elettrostimolazione e di secrezione neuroormonale.

Poi aggiungono altri segni, altre misurazioni sottili, altre parole: esse devono differire dalle parole precedenti, dire differenze rilevanti dai risultati delle ricerche prima esperite. Così gli scienziati potranno ulteriormente separare e scegliere. Gli scienziati e i ricercatori, con questo modo di progredire, con questo metodo delle parole, nominano gli affetti e diventano certi di quello che accade nella vita materiale della mente. Essi dicono che c’è una origine materiale del pensiero. Essa si rispecchia nei segni pittorici e grafici della scrittura. Gli scienziati stessi, a loro volta, somigliano ai poeti: con quella loro strana certezza che c’è una rigorosa corrispondenza tra schemi anatomo/formali e scienza dei sentimenti

Così possiamo scorrere, senza paura di approssimazioni sentimentali, le parole della poesia della diagnosi della psicologia evolutiva. Enumerare le proprietà specifiche della specie umana: scrittura, lettura, comprensione e generazione dei segni, somiglianza, differenza, accordo. Possiamo cogliere, nell’ambito di un uguale patrimonio specie/specifico, l’alterazione della funzione: essa corrisponde ad un degrado dei toni affettivi delle parole. Il degrado è inteso quando le parole scivolano verso il freddo. Il freddo si pone all’opposto del calore, che è alla base delle funzioni che generano i legami. Il calore è per l’agitazione d’amore.

Forse c’è una eccitazione nella attività fisica delle particelle, in certe aree cerebrali, quando proviamo investimento e desiderio. Ma come si passa dalla diversità senza malattia, dalla separazione senza controllo -al loro opposto: la diseguaglianza senza interesse, l’uguaglianza senza simpatia, l’identificazione senza amore, la sostituzione piena di odio? E come indagare sull’altra parte della ricerca: quale deve essere la funzione, la tessitura neuronale nello scienziato, che gli assicuri pensieri chiari e sapienza di distinguere? E’ nella competenza linguistica l’evidenza della acquisizione della sensibilità e della conoscenza del ricercatore?

La diagnosi ha una qualità di valutazione esatta in termini psicologici. Quando si parla di dicotomia, rabbia, disaccordo, biasimo, isolamento aggressivo, ritirarsi disprezzante, autoreferenzialità…. Sono alcuni dei meccanismi di difesa di un rapporto infelice.

Il pensiero dei ricercatori deve ideare ipotesi di azioni dentro l’architettura fisico-chimica della biologia cerebrale. L’immaginazione deve essere in grado di pensare un accordo possibile: tra psichiatria e scienze umanistiche, tra azione fisica della lettura e della scrittura, tra azione invisibile del pensiero e le nostre consapevoli intenzioni d’amore. Tra le nostre intenzioni d’amore e la concessione di una nostra iniziativa alla ricerca degli affetti dell’altro per noi. Un giorno transfert e contro/transfert, i difficilissimi termini di una relazione, che non si lascia mai indirizzare precisamente secondo utilità efficienza e ragionevolezza, si comporranno. Quando avremo ammesso che, nella genesi materiale del pensiero, sta la probabilità di immaginare una realtà umana per adesso inesistente. Un sasso colorato abbiamo lanciato nel cielo, ed esso non cade più. Sta finalmente colorando tutto ciò che eravamo certi di non riuscire ad immaginare. Il sasso lanciato nel cielo colora gli abissi sopra di noi dei toni caldi e densi della nostra incoscienza.

Il cervello e la lettura, un meccanismo universale (“Le Scienze”- edizione italiana – gennaio 2013)

 

“Che si abbia a che fare con parole scritte in alfabeto latino oppure con gli ideogrammi tipici del cinese o del giapponese, leggere coinvolge due sistemi cerebrali universali, a prescindere dalla cultura a cui si appartiene. A scoprirlo è uno studio condotto da ricercatori dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (INSERM) francese, dell’Université Paris XI e dell’Accademia delle Scienze di Taiwan, che ne riferiscono in un articolo a prima firma Kimihiro Nakamura pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

La padronanza del linguaggio scritto non è un’abilità innata ma dipende dalla capacità, mediata dall’educazione, di apprendere regole che collegano codici scritti, suoni e significati delle parole. A livello neuronale, imparare queste regole comporta alcuni cambiamenti strutturali e funzionali, soprattutto nell’area della corteccia visiva ma anche in altre regioni del cervello. La nostra capacità di risposta efficiente viene tarata su una specifica modalità di scrittura.

Che i circuiti attivati dalla lettura di un sistema di scrittura squisitamente fonologico (come quello dell’alfabeto latino) e da uno ideografico (più legato a un elemento pittografico) fossero gli stessi non era scontato. Studi su soggetti orientali normali e dislessici, infatti, avevano indotto alcuni ricercatori a ipotizzare che la lettura dei sistemi di scrittura dotati di una complessità visiva elevata – come il cinese – non attivasse le aree della classica rete di circuiti dell’emisfero sinistro coinvolti nella lettura alfabetica, ma altre regioni situate in particolare nella corteccia premotoria. Questo a causa dell’importanza dell’esperienza cinestetica nell’apprendimento degli ideogrammi mentre vengono scritti.

Nakamura e colleghi hanno sottoposto due gruppi di volontari di madrelingua, rispettivamente francese e cinese, a scansioni di risonanza magnetica funzionale mentre erano impegnati in un compito di lettura e interpretazione semantica. Per determinare quali aspetti della lettura fossero specificamente legati alla cultura e quali no, i testi sono stati presentati ai soggetti in differenti modi: normale, in corsivo, statici, in movimento, distorti e rovesciati. L’analisi dei dati di neuroimaging ha rivelato che, durante la lettura, sia nei soggetti francesi che in quelli cinesi, si attivano due regioni cerebrali distinte, associate rispettivamente al riconoscimento delle forme visive e alla decodifica dei movimenti. La differenza è che quest’ultima regione ha mostrato una maggiore attivazione nei cinesi quando si tratta di leggere parole in movimento.

La mobilitazione della memoria motoria della scrittura non è quindi una specifica componente della lettura ideografica e logografica, ma è presente anche nella lettura dei sistemi alfabetici. In tutte le culture, anche molto diverse, la rete neuronale matura, deputata alla lettura, comprende sia un sistema di analisi visiva della forma (in primo luogo la cosiddetta area VWFA), sia un sistema di decodifica del gesto motorio associato alla scrittura. Quello che varia da una cultura all’altra, concludono i ricercatori, è solamente la modulazione dell’intensità relativa di attivazione fra i due tipi di circuiti.”

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trattamento

C’è, nella letteratura specialistica, un continuo proporre nuovi interessantissimi studi per ‘anticipare’ la comprensione della clinica, l’inquadramento delle sindromi e gli atteggiamenti terapeutici. Leggevo e pensavo: questi bellissimi testi non potranno essere mai usati come si vorrebbe, per anticipare davvero una crescita di conoscenza. Potranno aumentare la quantità di nozioni che si hanno, questo sì. Ma…essi sono stati scritti perché i loro autori hanno alle spalle decenni di lavoro. Solo dopo decenni di lavoro potremo dunque assumerci la felicità intellettuale della comprensione degli schemi e della loro (cioè della nostra) legittimità. Poiché la loro legittimità sta nella loro comprensibilità e la nostra legittimazione sta nella nostra capacità di comprenderli. In questa conferma reciproca, che avviene nella lettura, si realizza una eterna ghirlanda brillante che schiarisce e consola, che porta il benessere di scoprire di aver lavorato bene, prevalentemente bene. Lo si scopre proprio attraverso la comprensione immediata che nella lettura si realizza. Si capisce attraverso una lettura consensuale. L’aver lavorato bene, rivelato nella comprrensione fluente degli altrui studi, non ha solo valore retroattivo, poiché i libri che si studiano confermano, con la fiaccola del comprendere immediato, che c’era si un buio nel nostro avanzare incerto, ma senza terrorizzanti presenze già da prima. Il fluire consensuale dei resoconti dell’altrui studio e pensiero fornisce anche il valore di una speranza, regala un modo migliore di rivolgersi al futuro immediato, ci lascia avvicinare sorridenti alla prossima ora di terapia: perché non ci spaventa di sapere con certezza che solo adesso si sa dirigere la fiaccola avanti. Non spaventa ogni volta essere certi che soltanto oggi un libro ci ha dato l’innesco per il fuoco. Il tempo nostro ci ha fornito la competenza scientifica e affettiva per la comprensione di quanto da altri è stato scritto, dopo che molto del loro tempo fu impiegato con affettività e competenze. Lo studio è adesso una nostra conferma e riproposizione. Una attesa di nuovo (ogni volta) possibile. La vita professionale futura un atteggiamento aspettante e silenzioso. Un assetto indispensabile, viene detto. Un attegiamento, augurabile in un medico, di cui sempre si parla, che non sempre si ha.

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Resta una fluttuazione a proposito del concetto di immagine inconscia non onirica. A proposito della formazione della immagine poi della parola e infine della scrittura. “Sai va bene”  Siamo costituiti di lontananze. “Tu sei il pane e il sole laggiù”  La distanza non farà mai l’imperfezione. Resta esatta la figura della misura di te e del tuo lavoro. “Non ti avevo mai sentito l’allegria del lavoro sulle parole nel telefono” La testa appena reclinata all’altoparlante immaginavo e il sorriso beffardo e buono che hai. Inclinato di circa ventisette gradi rispetto al piano del fiume. È l’amore alle spalle di questa certezza cosciente di noi l’immagine che è non cosciente se anche non sto dormendo e se anche non sono pazzo? Da tempo l’idea dell’origine materiale del pensiero è consolazione contro la disperazione. “Sai della mia ricerca…” che porta a pensare specialmente all’incertezza delle definizioni. Rinunciammo al libero arbitrio per la conoscenza. Non sono un caso l’emigrazione degli amori più grandi, trovarsi a sempre più grandi distanze, e le lettere finalmente ancora. “Ora, sai, si attraversa un piccolo fiume profondo…” Pietre scure di acqua di mare. Un oceano di onestà. Pagare, pagare, pagare, guadagnarsi correttamente le giornate, ripensando la storia dei libri con le fotografie dei primi braccianti delle bonifiche della palude. Acquitrini a perdita d’occhio da dissodare. La stanchezza che vola via insieme alla formazione a cuneo degli stormi degli uccelli migratori. Quando il freddo li caccia via e ci lascia solo noi e il sogno dei figli quando erano piccoli e ci stavano sul braccio. Se sono triste: certo, è immagine di base -in genere non consapevole- che mi tiene in vita. Poi penso coscientemente “Forse sarò felice anche senza di te…” come avevo sentito cantare in un film. Era non cosciente, la tristezza, e ora è una parola cosciente, una figura incontrovertibile. Non l’ho scelta la tristezza: è l’amore per te senza la furbizia del libero arbitrio. Non sto dormendo, e dal fondo continuano a formarsi successioni di realtà psicologiche che diventano misteriosamente lettere sullo schermo. Sulla tastiera virtuale che brilla come un campo di piccolissime aree minate da sensori variabili. Tecnologia dei legami ad ogni costo. C’è il tuo sorriso qua. Il fonema pensato si rispecchia nella credulità delle certezze che fanno si che ci raccontiamo favole di possibilità senza fine. “Voglio dirti, perché tu sia certo di me e della mia possibilità di aspettare per sempre, dirti di tutte queste relazioni vive, con me qui, così tante che non c’è tempo”

“Va bene sai” Era notte, tornavi accanto alla tua nuvola bionda profumata d’oro. Io in piedi accanto alla spalliera rossa del divano a sfiorarlo con la mano destra. Ero assorto alle tue parole forti di lavoro di dieci ore, ero come quando studiavo gli esami le notti prossime ai colloqui che tornava tutto il sapere appreso e in piedi ripetevo silenziosamente. Ripetevo in silenzio: dunque, cosa esattamente stavo verificando, mi chiedo adesso… le parole?… le immagini?… la conoscenza? erano costruzioni organizzate di pensiero verticale. Avevano un legame di ricordo con lo studio delle geografie elementari, con la descrizione della direzione dei confini delle nazioni coincidenti con i massicci alpini. Fondavamo tutti insieme -classi intere di ragazzini preparati- la nostra progressiva capacità di valutare da soli il grado di certezze a proposito di qualsiasi argomento. Dopo si arrivava alle figure mentali della materia delle facoltà superiori. Io scelsi quella che insegnava i rudimenti di una scienza non più occasionale da cento anni almeno: MEDICINA. Facoltà che, alla fine, doveva consentire legalmente l’azione del rapporto di cura.

Ascoltavo “Sto bene, sono felice, la mattina alle sei… sai non ho molto tempo… oggi c’era molto da fare… appena sarai qua… si… si” Adesso ho la facoltà dell’ascolto. Che mi sono fatto insegnare onestamente pagando di tasca mia. Ti dirò cose bellissime della vita che da noi ha assunto forma di pancia arcuata convessa prepotente. Ricordo la poesia della pancia. Io non la so recitare. Non l’ho mai voluta recitare. Io l’ho saputa pensare. Soltanto pensare: è quel pensiero l’immagine. Essa resterà per sempre non cosciente perché resterà sempre mia essendo le parole solo una richiesta. “Regalami la tua voce” avevo voluto dire. Ma solo i grandi attori rischiano per amore. Solo le ragazze assolutamente intelligenti sanno mentirci per amore. “Tu hai una nuvola bionda profumata d’oro” Come fosse la voce di un neonato che piangerà appena, e poi dormirà subito -noi lo sappiamo- perché sarà consolato da tutti, dalla sicurezza della materia accogliente, dalla sicurezza degli affetti come è emersa in tantissimi anni come potenza di pensiero. La pancia che cresce, che si avvicina come un balbettio sapiente, come la bellissima voce della cantante del bistrot parigino che ho in mente da sempre. LA DONNA CHE CANTA: di cui ho cominciato a raccontare a TUTTI

Va bene sai”… perché come avrai ben chiaro, quaranta anni dall’inizio del tempo degli esami, e trenta dalla scrittura di una poesia, adesso sta per esserci una nascita e c’è appena stata una emigrazione e da qualche tempo, dal settembre del 2010, c’é un linguaggio. Essi riposano sicuri nel fondamento. Ci sono state dimensioni di non essere. Ma ora, con la forza che ci tiene a distanze di una misura adatta a chiarire l’assenza di qualsiasi imperfezione, arrivano le parole nuove. Esse sono subito prima che io scriva. Stavano lì da sempre. Ma, senza l’azione del movimento che ci avvicina e ci allontana, non avremmo mai più saputo comprendere come si poteva misurare la vitalità della nascita. Sapevamo soltanto, MI ERO SOLTANTO IMMAGINATO, che si potesse avere la conoscenza attraverso lo studio infinito di una SCIENZA racchiusa in una TEORIA.

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Proviamo a dire poche cose tra le infinite che sarebbe necessario e per le quali la vita non basta. Cominciamo con una citazione da C. Sherrington “Man on his Nature” University Press, Cambridge, prima edizione 1940 (traduzione italiana dalla seconda edizione inglese: “Uomo e Natura” Boringhieri Torino – 1960) : 

“La mente, per tutto quello che la percezione può abbracciare, se ne va perciò nel nostro mondo spaziale più spettralmente di uno spettro. Invisibile, intangibile, è una cosa che non ha neppure contorno; non è una ‘cosa’. Rimane senza conferma sensoria e continua a rimanere tale.” ( pag.317 della traduzione italiana)

La scienza della natura ci conduce in una via senza uscita – la mente, di per sé, non può suonare il piano; essa, di per sé, non può muovere un dito di una mano.” (pag. 222 della prima edizione inglese)

“Vuoto completo sul ‘come’ la mente possa far leva sulla materia. L’inconseguenza ci sconcerta. Si tratta di una malinteso?” (pag. 232 della prima edizione inglese)

Adesso prendiamo Eraclito:

“Gli altri uomini non si rendono conto di ciò che fanno da svegli, così come non sanno ciò che fanno dormendo.” (fr. 1 parziale)

“Se uno non spera l’insperabile non lo troverà perché è inesplorabile e inaccessibile.” (fr. 18)

“I confini dell’anima camminando non li potresti trovare, anche percorrendo ogni strada: essa ha un logos così profondo.” (fr. 45)

E’ proprio dell’anima un logos che accresce se stesso(fr. 115)

“Non c’è uomo che abbia visto, nè ci sarà mai che conosca, la esatta verità intorno agli dei e a tutte le cose che io dico. Ché se anche uno arriva a dire la verità più compiuta, tuttavia non ne è consapevole; riguardo a tutte le cose non vi è che sapere apparente.” (fr.34)

Lo sforzo di conoscenza dei presocratici. La lotta dei contemporanei contro il sospetto che, cercare la conoscenza sia, in se stesso, un malinteso. Che forse l’antinomia uomo natura è irrisolvibile, e che il massimo – cioè emancipare il pensiero del metodo dalla credenza – porterà solo alla ‘certezza’ che l’essenziale è inconoscibile. La realtà attuale ha il regno della fisica, che indaga la materia: se quella scienza sia conoscenza per gli stessi fisici è ancora un accordo da trovare, almeno se deve essere il ‘mondo’ a confermare una unità di vedute. Allora forse la conoscenza è il modo della distinzione definitiva tra uomo e natura e poi “vedremo…” Ma certo queste parole, ‘realtà’ e ‘conoscenza’ , sembrano stare sempre più chiaramente su differenti mani. Tra le grinfie di una fata e un elfo, magari. Che non sanno dialogare tra di loro, seppure frequentino da millenni la stessa foresta. Così possiamo dire come sia che delicate dita candide e bianche stringano chiavi di celle sotterranee che contengono segreti. E come anche possa essere che zampe pelose brune, unghie ad artiglio, offrano pasticci di panna e frutta del sottobosco. Natura e uomo. Attività cerebrale che regola l’istinto e vita psichica che tenta la conoscenza della sanità del pensiero.

Nella mente si formano idee corrispondenti a ‘uomo’ e ‘natura’, ‘istinto’ e ‘conoscenza’.

Citazione bibliografica. Essa è indispensabile a segnare il punto di massimo sviluppo della medicina e delle scienze umane: “Istinto di morte e Conoscenza” M. Fagioli. Ma in questo caso non devo (mi è di fatto impossibile) proporre citazioni che limiterebbero la necessità di una lettura completa.

Nel libro, le parole della ricerca iniziata dai presocratici, diventano: realtà non materiale, immagine, pensiero, rapporto, rifiuto, linguaggio. E continuando la cantilena: istinto, natura, natura umana, negazione, fallimento, tragedia, lavoro, affettività, rifiuto, conoscenza. Sono granelli del rosario che, poi, gli specialisti e gli studiosi (medici e scienziati insieme) si sono impegnarti a incardinare in una costante ed insperabile riproposizione di resistenza, che allinea i giorni della ricerca in contenitori di tempo di trenta, quaranta, cinquant’anni. (A seconda delle date di nascita.) Nel libro (le parole) realtà, verità, vita, pensiero si succedono per definire le idee a proposito di sé stessi e degli altri, della propria ed altrui attività mentale, delle vicende psicologiche tra i partner di un rapporto: ma differenziandosi da, e rifiutando alacremente, le condizioni imposte da apparenze teoriche precedenti. Una possibilità di uscire dal disincanto di duemilacinquecento anni di approssimazioni tra le aspirazioni legittime verso dati ‘oggettivi’, e il confortante cinismo delle descrizioni riduzionistiche. Leggendo ho sempre pensato quanto fosse difficile riprendere il discorso originario. E strano doverlo fare ricreando nella mente, se possibile, l’infanzia dei secoli quinto e quarto prima di Cristo: infanzia evidente nel linguaggio ‘oscuro’ delle domande. Definite dai contemporanei: ‘frammenti’.

L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando i suoi occhi son spenti; da vivo tocca il morto, con gli occhi spenti, da sveglio tocca il dormiente.” (Eraclito: fr. 26) 

All’origine sembra, ad uno sguardo obiettivo, che il bambino sia proprio solamente natura. Istinto senza pensiero. Istinto…. “e incanto“- aggiungo. Si. Il frammento n°26, proveniente dai secoli quinto e quarto prima di Cristo, viene definito, ancor più degli altri: ‘oscuro’ !! “Ma anche incantevole di certo” – penso. E’ il mormorio cantilenante del neonato, sulla espressione mimica di un ‘animale’ addolcito e trasformato da un dubbio. E’ la cantilena delle bugie d’amore, che lo istituiscono in una vera passione, l’amore in questione. “L’incantevole cantilena è la bugia necessaria di un inganno?” – è un frammento di incertezza, una incrinatura nella fila delle asserzioni e -“E’ umano il bambino?” E “Così forse si chiede la mente nel quinto e quarto secolo prima di Cristo….”- mi invento io, e poi -“Ma se anche fosse, deve essere stato un attimo!“.

Il pensiero adesso è semplice e poverissimo: suggerisce che il libro propone… no! afferma che il neonato non è natura ‘animale’ da educare alla ragione. Io dico a me stesso:- “In quelle fattezze così diverse da qualsiasi specie precedente, in quell’essere così indifeso e infinitamente in grado di rendere precaria ogni nostra certezza precedente, c’é tutto quanto era necessario perché noi proiettassimo “là” tutto quanto ci serve per la felicità“. La cantilena diventa: istinto, natura, trasformazione della biologia, vitalità, stimolo, immagine, pensiero umano, nascita. Il frammento oscuro (“L’uomo accende a se stesso una luce nella notte….”) fa venire in mente altre parole: sognare, svegliarsi, ricordare, distinguere, immaginare, parlare, chiedere.

L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando i suoi occhi son spenti; da vivo tocca il morto, con gli occhi spenti, da sveglio tocca il dormiente.” E allora, forse, la conoscenza non ha fondamento nella natura. Può essere solo “umana” : cioè un’invenzione. Una proposizione: più inquietante e assurda di una macchina da scrivere in una radura della foresta amazzonica. Può essere solo equiparabile alle emissioni azzurre di fango di uranio, sul comodino di madame Curie. La quale, sognando la sua scoperta, moriva lentamente. Avvelenata dalla felicità di una scoperta mortale senza una conoscenza più generale delle cose. Eppure noi, nonostante la ‘morte’, identificandoci con quella realizzazione di fosforescenze azzurre, ci ergiamo nel buio, ci illuminiamo la notte, con l’orgoglio spieghiamo le ali, come angeli progettisti. Perché improvvisamente, attraverso l’ubriacatura euforica di una scoperta miracolosa, tuttavia abbiamo confermata l’idea della nostra appartenenza ad una specie differente: una distinguibile ‘umanità. Bagliori azzurri, sui mobili bassi accanto ai letti lungo gli ultimi quarant’anni. Dal 1972. Il frammento di pecblenda, la scoperta della nascita, un libro che spunta dalla tasca del camice dello scienziato e del dottore.

“Istinto di morte e conoscenza”, si andava specificando successivamente, voleva affermare la possibilità concreta di un movimento un ‘andare’ dall’istinto di morte alla conoscenza. Per concludere che il movimento – nel pensiero che non ha una realtà ‘spaziale’ – deve essere pensato come una ‘trasformazione’. La trasformazione della natura in natura umana. Era qualcosa. Era moltissimo. Era ‘tutto’.

Ora, dunque, non è quella parola ‘morte’ che scatena il sogno della resistenza ai tentativi di trovare ragioni di scandalo culturale. Il Fight Club di iscrizione, il club aristocratico dei boxer combattenti, ha l’insegna luminosa, di neon azzurrognolo, che scintilla e illumina la notte intorno: “CONOSCENZA”. Quanto citato prima rende ipotizzabile, (e poi bisognerà studiare millenni ancora per essere onesti nella proposizione), che alla pubblicazione non era accertata alcuna ‘conoscenza’. Fight Club dunque dicevamo: negli scontri cruenti delle dinamiche di rapporto con l’innovazione assoluta saltarono mascelle e sopracciglia, tra schizzi rossi di sangue. La vitalità della proposizione originaria del primo libro, un poco attenuava il dolore ‘fisico’ della certezza che le botte erano inevitabili.

E i libri successivi (*) fecero una finta innamorata, fecero l’inganno per amore, regalandoci la felicità con le bugie, che in fondo le violenze contro la nascita, per non riprendere il discorso di una conoscenza sancita definitivamente impossibile nella cultura, fossero trucchi cinematografici: la vita addolorata per le aggressioni ci veniva restituita meno dolorosa nella favola dell’interpretazione che ci illudeva che quanto accadeva era una metafora. Ma si capiva che l’Autore non aveva in mente di illudersi, con alcun romanticismo di maniera, riguardo allo scontro assoluto. Infatti non si riposava ‘mai’. (…tanto meno adesso, pare…) Però propose una umanità di un incantevole realismo poetico. Un lavoro un discorso e una prassi all’altezza dei trucchi cinematografici muti di Meliès. E, adesso, il razzo nell’occhio della luna è forse l’immagine più poetica che mi viene in mente. Ora: per dire cosa rappresentò (cosa fu, letteralmente) il libro ‘sanguinario’. Sanguiniamo tuttora anche non volendo. E’ il rosso dei capelli di certi sogni, il rosso scuro agli angoli delle stanze, il rosso nella prorompente dizione della parola: “..rosso..”

Ora le parole coscienti: libro, scoperta, sfida, scontro, vitalità, linguaggio, conoscenza. La sfida diceva che, chi aveva pronunciato la parola conoscenza, doveva saper sorvolare oceani migrando, avere buonissime ali, possedere la tolleranza dell’acciaio per sostenere la certezza che non poteva sapere più quando avrebbe di nuovo  riposato. Il battito: sonno, coscienza, veglia, nascita, vita, pensiero, materia, realtà.

Per l’entropia negativa della realtà del pensiero, l’uomo non tiene conto della natura delle cose. Non quando pensa senza riflettere. L’uomo, privo della riflessione, non si fida della propria scienza: e svela un pensiero differente. Nella foresta, progetta San Pietroburgo. Per andarci ad abitare. Essendo scontento del “Cuore di tenebra” delle foreste ‘in genere’. Non riuscendo a lasciare la follia alla morte eroica di Kurz, che in realtà era già morto per la pazzia di aver voluto tentare il rifiuto della ‘civiltà’ senza, prima!, pretendere da se stesso di riuscire a decifrare l’ ‘oscurità’ di Eraclito. Cioè senza aver, prima, lottato contro l’ignoranza sulla origine dell’immagine. Sulla ‘natura’ del pensiero. Sulla natura dell’uomo che è differente dalla natura… della natura.

Le parole, in modi differenti: nascita, immagine, certezza, realtà, rifiuto, linguaggio, rapporto. Il regalo delle rose. Le festività popolari. Il giorno del ringraziamento degli altri. Le proposizioni differenti. Se siamo sognati dalla pazienza di un fachiro. Se siamo la nostalgia di una terra per un migrante alla frontiera. Se si nasce quando lui ripensa e dice “Eri bella come una cicogna su un camino torrido“. Le parole: realtà, riconoscenza, stimolo, pensiero non cosciente, figura, stupore, attesa, proiezione, narrazione, promessa, innamoramento, silenzio, ricerca, risoluzione, candore, riposo, certezza. Sogno.

La conclusione da cui cominciare: istinto, conoscenza.

Istinto (di morte) (le parentesi sono una mia follia) e Conoscenza” è il titolo di un programma rivoluzionario: ineluttabilità del rapporto tra esseri umani, studio, applicazione scientifica del metodo della responsabilizzazione reciproca nell’amore e nel linguaggio. Che non si può avere la conoscenza se non si lascia la promessa di morte alla biologia. Se, prima, non si scopre che sapere la certezza della morte biologica non è sapere. Abbandonare la morte a se stessa e al suo specifico destino. Esclusa la biologia. Consegnata l’idea di istinto agli stimoli biologici della omeostasi, che ritarda la degradazione termica della materia del corpo. Assaporata la panna acida della natura fisica delle onde e delle particelle. Ci resta il mistero a proposito della vita mentale e della sua fisiologia. (La fisiologia corrisponde alla ‘sanità’ meglio dell’altra parola, ‘normalità’.)

Qui rischiamo affrontando quel mistero con la scrittura: con un atto psichico che traccia sul foglio i segni dell’immagine. Prima che essa si costituisca in figura. Perché la figura ci confonde: poiché essa in genere viene pensata come derivante esclusivamente dalla percezione degli oggetti materiali ‘esterni’. Ma alla nascita, quando l’esterno è un mondo che non può essere percepito per immaturità della biologia cerebrale, si deve parlare di stimolo che attiva una funzione: poi è tutto un figurarsi la nave nell’oceano.

Questa nave fa duemila nodi / in mezzo ai ghiacci tropicali / ed ha un motore di un milione di cavalli / che al posto degli zoccoli  hanno le ali / questa nave è fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo, e fantasia / molecole d’acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo, e poesia.”

e….

” In questa notte elettrica e veloce / in questa croce di novecento / è una palla di cannone accesa / e noi la stiamo quasi raggiungendo…” (De Gregori “I muscoli del capitano” dall’album “Titanic” – 1982.) (**)

La figura poetica del neonato è espressione di una vita psichica spontanea. Non una reazione istintiva che creerebbe il vuoto con la chiusura degli occhi. La conoscenza non è necessariamente ‘racconto’. Nell’impossibilità di ipotizzare una capacità (qualità?) congenita di pensiero alla nascita, dovremmo (non ci resterebbe che) ipotizzare che non c’é niente in noi prima della percezione. Che nasciamo… senza nascita.

L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando i suoi occhi son spenti; da vivo tocca il morto, con gli occhi spenti, da sveglio tocca il dormiente.” (fr. 26)

Ma anche:

E’ proprio dell’anima un logos che accresce se stesso” (fr. 115)

Dopo istinto e conoscenza la frase oscura di Eraclito risplende. Gli occhi chiusi sono fisicamente spenti. Ma la parola ha due immagini. Gli occhi sono spenti nella notte, se dorme. Sono però spenti anche da sveglio, quando tocca, senza riconoscerlo, il morto, l’essere umano che ha perduto la luce interna dell’immagine. Gli occhi spenti allora sono occhi ciechi: non sanno distinguere l’assenza nell’altro. Occhi chiusi o occhi ciechi. Eraclito non si dilunga nel dire ciò che sa. Lui dice che tutto è apparenza. Però questa è apparenza di un apparire, di una manifestazione. Del manifestare una scoperta e una conoscenza. E’ l’apparire della donna ai poeti. (“Tanto gentile e tanto onesta pare...”) Della conoscenza agli scienziati. La conoscenza è avere la qualità umana di distinguere chi chiude gli occhi per realizzare l’immagine di sé e del mondo appena perduto, da coloro che chiudono gli occhi per annullare rendendo fantasticamente inesistente il mondo fisico esterno della natura e il mondo psichico interno degli esseri umani. Distinguere i morti dai vivi è accendere a se medesimi una luce nella notte. Non so se è anche conoscenza. Se si può dire che sia questa la conoscenza. Non so.

Resta che abbiamo la sensazione di essere morti quando gli occhi sono incapaci di ‘vedere’. I giorni difficili e purtroppo, talvolta ammalati, quando l’immagine non si realizza. La nenia delle parole che si ferma. Quando si precipita in una infanzia senza coscienza che ora è solo malattia perché il senza coscienza è anche senza nascita (immagine). C’è la certezza di aver oramai individuato e nominato i termini esatti della ricerca medica sulla fisiologia del pensiero. Il senza parola, che la parola (infanzia) significa, non può diventare ‘linguaggio’ se non resta la funzione della nascita materiale del corpo che contiene la vitalità. Allora senza la vitalità del linguaggio umano Eraclito parrà oscuro. Seppure, per via della nostra evoluzione spesso carente, dietro l’oscurità della comprensione del senso delle sue parole, manteniamo la certezza che quella oscurità non è l’incomprensibilità della pazzia. Non abbiamo più la confusione incurabile. L’altro differente e incomprensibile non è pazzo. Non sempre. Spesso semplicemente serve il tempo per ‘capire’.

(*) M.Fagioli:  “La marionetta e il burattino”  –  “Teoria della nascita e castrazione umana” –  “Bambino donna e trasformazione dell’uomo”

(**) Si certo !!  Staremo molto attenti ad evitare il naufragio. Da anni siamo stati avvertiti. E’ che non ci spaventa l’uso della bellezza seppure era al servizio della narrazione delle disavventure. I mazzi di garofani sono anche per la sua bellezza redentrice.

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foto per concessione di di Cristina Brolli

(la foto del presente articolo è di Cristina Brolli http://cristinabrolli.com/gallery_view.php)

dopo mille e una notte ancora beve e ride e racconta gorgogliando tra pianto e febbrile amore

La vitalità della parola-immagine supplisce alla assoluta difficoltà di essere certi di una immagine della parola-vitalità. Sotto forma di lettere d’amore, per ottenere, al momento, ciò che l’attimo fuggente non concede, vale proporsi la ricerca se proprio la natura incerta di una eventuale immagine della parola-vitalità conferisca alla vitalità la capacità di pensare che si può riprendere un discorso che attraversi il corpo complesso monumentale e a tratti mostruoso del nichilismo. Un discorso capace di combattere le batterie angeliche della pretesa di innocenza della filosofia fondata a forza sulla poco vitale ed usurata assunzione che la filosofia sarebbe un pensiero disinteressato.

La capacità di immaginare una vitalità a fondamento della genesi dell’immagine deve essere scaturita come immagine di una capacità di ricominciare sempre la fondazione soggettiva del tempo dopo la ‘morte’ di dio (Nietsche) che nel pensiero filosofico si esprime nella formula ‘caduta della trascendenza’. Sono di ‘oggi’ le domande di un ebete girovagare attorno al tavolo nero enorme, descritto come destino che mi sono scelto, per la ricerca dopo la caduta della trascendenza. Sono queste alcune delle domande come passi attorno alle aree scure lucide e della masse dei volumi aperti e delle aree bianche dei fogli non scritti e grigie dei fogli scritti.

Esse sono: si sa immaginare la ricerca medica di una fondazione della soggettività come fisiologia del pensiero alla nascita? La ricerca medica a proposito della genesi del pensiero dalla biologia, ci assolve dalla solitudine della disperazione nichilista? Perché la ricerca sulla natura del pensiero e sull’uomo è un ‘attraversamento’ fino ad ora riservato (sia nelle fatiche gloriose sia nelle altrettanto glorificate conclusioni) ai mistici? Vale pensare e immaginare e ‘indovinare’ una scienza medica dei fondamenti del pensiero del tempo e del suono e del movimento? Come resistere al nichilismo il tempo necessario a fondare una medicina come scienza di una integrità alla nascita? Immaginare è scoprire con esattezza e nominare una nascita senza negazione? La negazione viene dopo quando gli occhi con la visione di figure realizzano una propria insufficienza sul pensiero senza coscienza del primo anno di vita?

Realizzare per immaginazione scoprire e indovinare è una caratteristica specifica della fisiologia della biologia cerebrale umana che si oppone all’irrealtà dell’idea di una genesi dal nulla dell’immateriale del pensiero? Allora è decisiva la denuncia dell’alterazione del pensiero che nomina il nulla come esistenza di una irrealtà fuori di noi. Questa denuncia comincia con la definizione di una vitalità del pensiero che immagina indovina e scopre la possibilità di cercare le forme della genesi del pensiero dalla materia. Distinguendo questo dal ‘materialismo’ che è ideologia e non è scienza. Una origine soggettiva non fa della vita un percorso di mistici nel deserto, fa l’ offerta di una aleatoria certezza. Il regalo impacciato del mazzo di fiori e frutta del contadino. Il mazzo ben composto delle aggraziate cose delle creature umane.

Certo che il ricominciare ogni momento la conoscenza avventurosa è ogni momento a-sistematico: è evidente che dire ‘…ad ogni istante t’amo…’  in amore è regalo. Ma nella vita attiva del pensiero è fondazione è dichiarazione di una riproposizione di mettersi al lavoro, di distinguere l’irrealtà del nulla dalla immodesta conclusione dell’avventura biologica nella morte fisica, e di separare senza confusione il tempo di mille battiti d’ali della dichiarazione d’amore, dal brusio ragionante della materia appena dietro la trasparenza scura di occhi infervorati e febbrili di una che pensa di andare via per sempre dai propri fallimenti. Il ricominciare ogni momento la conoscenza avventurosa è, ogni momento, un gesto asistematico collocato sulla coda dell’iguana nella teca di vetro, cadiamo dalla coda dell’iguana come perdiamo la certezza della trascendenza.

Il pensiero realizza l’immagine è come la febbre che fa il picco lieve rapido e bruciante di un aumento del calore avvertibile sulla fronte e ai palmi semiaperti e improvvisamente il pensiero è alle soglie del movimento e siamo vivi e lasciamo la seggiola degli infermi e ricominciamo a muoverci come la marea dell’oceano e facciamo un’allegoria e il mondo è nelle nostre parole silenziose e alla fine non servono e noi siamo parole che non servono che tornano ad essere pensieri non ricordi rimossi e ritrovati ma pensiero che ritrova la propria inutilità perché è il primo anno senza la coscienza e forse senza la coscienza della figura non si può agire la negazione.

Il ricominciare ogni momento è l’atto inevitabile di soggettività che ci regala la nascita più che la filosofia, e che la ricerca medica rende forse plausibile, prima di inoltrarsi senza provviste nel deserto. Il ricominciare, il rifondare il tempo soggettivo è una postura tra l’attesa appassionata del corpo dell’amato che arriva e la pietà di chi ha perduto l’unica certezza: non sai se di identità o di presenza dell’altro nel mondo. Asistematica è l’avventura della febbre al pensiero immateriale di ‘lei’. E se la febbre -quella febbre – non è malattia, al contrario quel pensiero è affetto dalla passione ( fissazione ) per una figura e sarà per questo che l’amore e la passione troppo genericamente intesa non sanno opporsi al misticismo. E invece viene l’idea che la febbre sappia dar luogo alla necessaria temperatura concettuale.

Il raggiungimento è ritrovamento della fisiologia di una forma di pensiero in condizione di assenza della coscienza, che non genera la ‘negazione’ poiché quel pensiero, in assenza di coscienza, è che ‘… la vitalità della (parola) immagine supplisce alla impossibilità di riferirsi ad una immagine della (parola) vitalità prima della quale si ha come origine fisiologica una febbre, il picco di un aumento bruciante di temperatura sulla fronte e nei palmi semiaperti…’ ma non è fissazione ad una figura. La vitalità si genera in una strettoia, in una compressione, all’apice di un picco che supera di pochi gradi la norma e la necessità, subito fuori dal regno della biologia pura, che della necessità e della omeostasi somato-sensoriale fa l’impero delle leggi uniche dello ‘scambio’.

La vitalità è l’attività appropriata della materia che fa un picco lieve rapido e bruciante, segnalando la lotta iniziata a tutto campo, o inaugura il via della maratona nel deserto? La vitalità è proprietà della biologia cerebrale dell’uomo sulla quale si fonda e si sostiene la vita mentale, che fa del nostro pensiero originario la fisiologia di una immagine e non la rassomiglianza senza identità di una figura? Senza figura il pensiero, in assenza di coscienza, può davvero fare la negazione o per certi istanti e giorni, come sembrerebbe adesso più ragionevole concludere, nelle pertinenze della nascita degli esseri umani la negazione non è possibile?

Può essere plausibile che sia quando la coscienza tardivamente riflette senza averne i mezzi sul pensiero di un primo anno privo di coscienza, che essa coscienza incorre in un doppio disastro conoscitivo? Il primo disastro che il pensiero sarebbe congenitamente difettuale e il secondo disastro che esiste un irrealtà, un nulla fuori dell’uomo? E allora si parla di nulla fuori dell’uomo per annullare una fisiologia del pensiero umano senza difetti? Scrivo: ‘… dunque amore mio dovrò difendere la salute della parola nascita con la vitalità della parola immagine….’  Scrivo ancora ‘….accanto alla nascita sta la alterità ( tu che sei l’alterità più amata ) come certezza e non come parola che designa una consapevolezza cosciente…’ La sapienza del pensiero in assenza di coscienza è il tratto breve e folgorante di attività mentale che fa sul viso l’arco della felicità come si potesse portare il pensiero al movimento.

E’ dall’aver realizzato il pensiero al movimento, lungo un primo anno di vita senza coscienza, che nasce la coscienza come cercare a partire da poco e traversare la stanza illuminata e girare l’angolo e scoprire figure intere di uomini e di donna da amare successivamente per il sempre che viene. Di questi tempi si lotta giorno e notte di coscienza e di pensiero, si lotta di domande che si concludono con un ‘amo’ rovesciato, si lotta coperti di arancione di questi giorni strani. E’ soprattutto lotta di certezza che il paradiso è l’alterità. Il verde delle bandiere africane è il paradiso e il paradiso è il verde di una foglia di salvia su una sfarzosa pizza appena sfornata.

E così andando avanti si lotta di certezze senza memorie, di paradiso che è pensiero che è mano appiccicosa di latte traboccato tra seno e labbra beate ed è sicurezza di saper afferrare uno sguardo fuggevole e attaccarcisi per vivere e dormire e ricominciare sfacciatamente ogni volta, senza alcuna riconoscibile parola d’amore. Nei prati di girasoli, alle albe molteplici che i neonati ripetono ogni poche ore, nella luce atmosferica di tende che addolciscono l’incanto omicida del sole nudo, e sempre sotto una pioggia di amorevoli suoni.

“La differenza tra immaginare e ricordare e’ nel semplice e feroce tuo sapore” (lettera di David Hilbert ad Anna Taylor) … ecco che poi leggo per caso questo e piango perchè comincio a sanguinare dalle dita e macchio tutta la mia coscienza di aver fatto il mio dovere ma il mio dovere è nella responsabilità del coraggio di buttare tutto a mare anche la chiarezza appena raggiunta ( ma era un’illusione come si vede…) se arriva qualcosa di inatteso e bellissimo che, come si deve, si mostra si racconta si dice per essere appena un poco migliore nel momento che si diventa del tutto trascurabili per trovare domani migliore anche te perchè anche io non voglio mai perdere tempo….

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