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nessuno può farci niente


Posted By on Dic 28, 2013

Devo scrivere il lieto fine adesso. Per un giusto dato di fisica potrebbe essere appurato che la lieta conclusione sia già qui. Spazio e tempo insieme hanno una natura che non possiamo individuare. Nella mente si compongono a fare l’io, io credo. Ho disegnato la sfinge come donna che mi piacerebbe trovare spesso il giorno così disposta a muoversi leggera e sghemba. Le ho fatto una flessione del collo sul busto che indica una assenza totale di serietà, cioè una determinazione ad una costante possibilità d’essere un quesito. Per questo la sfinge, ma una sfinge non mitologica e non irripetibile, una vera domanda continua inquietante, che continuamente chiede ma che cambia ogni attimo le risposte al quesito.

Con una così non ci sarà mai più un Edipo trionfante di boria, perché si saprà subito che non c’è una ed una sola soluzione. Come era scritto? Già, era scritto, alla fine della pagina del libro di psicoanalisi o meglio, di teoria psicoanalitica: Poi lui doveva uccidere il padre” e poi non aveva ucciso il padre, non era stato più necessario. Allora avevo capito che il discorso psicoanalitico nuovo non riguardava solo una certa teorizzazione sui modi dell’interpretazione, riguardava un modo differente di intendere la natura (la ‘nascita’) del pensiero. Non riguardava la storia ma la biologia. Non la scienza che il pensiero umano aveva definito originariamente “filosofia naturale”, ma la determinazione di una scienza più chiara e di una ulteriore scoperta sulla realtà fisica delle funzioni mentali.

Ecco non c’è sempre solo un destino. Poi lui non aveva ucciso il padre. Per una serie di pratiche sensibili e di scelte imprevedibili e non ortodosse, il contro transfert del medico era stato capace di deviare il ‘fato’. Si era trattato semplicemente, dico ora, di cultura coraggiosa, di una solitaria scelta: pericolosa, forse, per uno che avesse avuto un super-io appena un poco severo. Ma al medico in questione le cose non parevano così dissennate ed ebbe ragione infatti.

Ora: non ci sarà mai più Edipo alla fine della strada maestra. Non più un’unica possibilità. La sfinge non ha una sola domanda e non c’è una sola risposta. La donna avanza come sarebbe anche possibile. È un’ideale variabile per restare verosimile. Tale ideale plausibile pre-figura il lieto fine. Meglio: già lo è. Non fa da storia narrata, è prima delle presenti parole, è un disegno capitato al pomeriggio.

Cerco sempre le linee. I circuiti del piacere producono, alla visone della linea sottile, una certa quantità di dopamina: cosicché resto invischiato in un modo di pensare che mi farà finir male, cioè bene, dato che cercherò sempre più linee, e se allora riuscirò a mangiare e lavorare appena quello che mi serve per la vita fisica e il sostentamento delle persone che da me dipendono, resterà assicurato il tempo mio, la felicità segreta dentro le sbarre ritorte, le linee della prigione delle figure che spingono attorno il vento delle parole: la ‘grafia’ del pensiero.

Finirò per non fare altro che questa vita. Come Cezanne e come Manet. Nel giardino di ninfee. Edipo si è affogato nello stagno di un pittore impressionista ossessionato dai riflessi di fiori e cielo su acque ferme. Vedo documentari sulla vita -ricostruita postuma- di artisti barbuti grassi e dallo sguardo terribilmente dolce e spaurito. Costretti a fare il muso duro tra le braccia di donne imperative, corazzate per la dissuasione del genio. Barbe folte e lunghe, colline deludenti a vederle dal vero, colori sulla tela che assolvono dio per certi paesaggi che non avrebbero avuto nulla di strepitoso, non fosse stato per la cresima della vernice ad olio sparsa all’aria, che è la liturgia della trasformazione del corpo in lavoro e colori e, la notte, per ripicca, trasformazione di alimenti e bevande in veri e propri banchetti di pittori impressionisti a trangugiare il golem dei corpi delle modelle.

Finirò male cioè bene. Devo finire come loro. Da far pietà a disegnare linee. Nessuna figura. Nessuna compiacenza alla comprensione. Ho fatto abbastanza di logico e di logicamente criticabile sbagliato e condannabile. Adesso vado nella vita sospesa. Tra le braccia di ragazze sbadate e prive di senno. Con il tempo nel seno ricco di latte. Avvolto nelle nuvole di profumo. Una serie di giornate da far invidia. Non agli antipodi. La felicità nel giardino di casa. I mazzi di sorrisi sul pianerottolo. Venere porta i fiori. Stavolta è stato facile. Scrivo il lieto fine cioè che la felicità di adesso è permanente. Bisogna capire lo spazio-tempo della presente dimensione.

Esco con amici che non capiscono nulla di queste parole. Si ostinano di attribuire alle loro compagne e ai loro compagni la responsabilità delle incomprensioni d’amore. Dicono “È colpa sua io l’amo ma non me ne viene niente indietro e così” …. Ma non è quello il verso delle cose. Non vanno mai nella vita sospesa. Non vanno mai nel mondo oltre le figure. Non disegnano le linee. Non discutono tormentandosi le dita, allacciando e snodando le dita delle mani nella grafia della prigione cioè nel canto blues dei campo di cotone, discutono seri e corretti con mani pulite. Hanno i corpi tondi senza spigoli: differenti dalle mani degli artisti.

Ho amici pericolosi, che non accettano le linee avvolte ingarbugliate intricate dell’uomo di filo di ferro che io invece, appena me ne fu offerta l’occasione, feci subito entrare nella mia stanza avendone compreso l’imponente dolcezza. Avendo capito che era un uomo attorcigliato coi fili della pazienza dalla pazienza di un altro uomo che ne è l’autore, come si dice. Un uomo fatto di carne e sangue aveva creato un uomo fatto di fili di ferro dipanati e poi attorcigliati di nuovo ma in uno spazio angusto, quello spazio in cui l’immagine dell’artista voleva condensare il tempo che aveva visto nella crescita e nella maturazione della vigna che il filo di ferro teneva in filari paralleli ordinati.

Ho nella mia stanza un uomo di ferrea pazienza, di fili di tempo svolti nell’universo gravitazionale sotto forma di traiettorie di luce bruna. Ho il gigante dell’io, l’uomo ideale di spazio-tempo. Le dimensioni psichiche si vedono bene negli interstizi d’aria tra i fili avvolti. Si vede lo spazio curvato dalla massa del pensiero centrale che tiene la composizione scultorea. Si vede il nucleo nel quale tutto continuamente precipita, come anche noi sempre precipitiamo nel cono attraente della massa dei corpi chiari o neri delle donne che ci circondano e allora, al colmo della velocità delle nostre vite cadenti, ci pare di volare. Pensa te!

Avevo visto il gigante buono intrecciato da mani piangenti. Un uomo fatto di fili di ferro che erano certamente la forma ridente e irriverente dei capelli di Einstein. Avevo visto e sentito, nel freddo e nel caldo del vino freddo e del coucous gratuito bollente, il futuro già li. Avevo pensato che era un’opera d’arte. Adesso è nella stanza. Non che sia mia la scultura. Niente è mio di quello di cui colgo la bellezza. L’astratta essenza, che è la più potente sostanza delle cose, le libera dal possesso, le rende leggere imprendibili. Così più la guardo e più ondeggia e più mi prende in giro, sorride la statua di filo di ferro. È una figura buona la bella composizione artistica di Simone che Simone mi ha regalato. È uguale e diversa dalle donne imponenti dei pittori della Belle Epoque. Non è burbera e non dissuade la genialità.

Io mi faccio spesso la barba ed evito la grassezza. Per un fatto che deve essere in un certo modo la fisicità sulla quale si affondano le mani dei cercatori. Devono essere come le mani degli artisti e degli scultori soprattutto gli uomini e le donne che vogliono durare a cercare senza il peso dell’ottusità. Devono avere forme magre, sottili, con anelli, con segmenti visibili, con eleganti giunzioni da poter entrare nei guanti dei loro amanti, nei burattini delle loro storie. Devono essere artisti i cercatori, belli come mani brave e disponibili che ancheggiano in aria nei capelli di dio. Devono essere magri e forti capaci di muoversi -magari male- ma mai senza l’eleganza dello scarso ingombro. Come è necessario se si vuole far ridere e piangere.

Le persone che cercano dovranno diventare burattini che recitano l’invidia, il lupo, la rabbia, la delusione, la tristezza, la traversata del pacifico e dell’Atlantico, e, soprattutto, la bandiera sul polo magnetico dell’Antartide dove bisogna arrivare senza morire e senza restare statue. Io ho visto le mani dolci e tristi perché avevano disfatto la vigna allentando il ferro via delle fibre attorcigliate dei vitigni. Dove ferro e pianta entrano uno nell’altra. I chiodi nella carne. Edipo che si accieca perché ha ucciso il padre. E Gesù che viene inchiodato dalla logica del padre che lo sacrifica al male. Due miti. Meglio il primo o il secondo? Sempre di una irresolutezza della ragione si tratta. E poi è mitologia che si ripete. Liturgie. Non può essere.

Vado nella vita leggera. Dentro i ritornelli della musica popolare. Bisogna capire lo spazio tempo, la dimensione che si vive solo nell’io della mente. Lo spazio-tempo che è l’io. Che non sappiamo descriverci da noi. Eccoti che avanzi una ragazza per tutte a chiarire. “Guardami” dici come la modella di Matisse tutta nuda e lui così vecchio e curioso. Che fa le linee, una sola per tutta la figura. Maestri. Spazio-tempo dell’io. Linea intera continua che non finisce mai. Un trucco perché c’è il mondo della tela bianca. L’invenzione dei lingotti preziosi di grafite dentro il legno. Ancora legno e chiodi scuri per disegnare sulla carne del cielo di vernice e di colla impastate a fare lo strato su cui pitturare, dopo. Il trucco dell’amore per la carne bianca e il trucco della passione infinita per il tempo che è un desiderio impossibile a consumare. Se non sarai tu sarà un’altra, ogni altra forse. Non potrò mai smettere. Nessuno può farci niente.

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Alla sua origine è ricondotto il mio sentimento variabile per lei che risulta ‘natura’ e ‘forma’. Fondo la relazione sui miei modi di ammettere dolcemente o con acidità la sua legittimità di essere nel mondo. L’amore è potente ci consente l’arroganza di attribuire diritti di esistenza ai nostri amati fiori colorati o secchi nei vasi di mattoni e cemento coi quali abbiamo costruito le case. E’ fondato sulla concessione di plausibilità delle nostre  reciproche nascite. Feroce mentre dura e quando si esaurisce. Amandoti ti battezzo cara ragazza che credevi fosse un’altra cosa. Ti battezzo con le carezze perché qua dove si vive ci si somministra tra noi la comunione. Liturgie del sabato o della mattina presto o delle fughe nelle strade di città costruite appositamente per amanti e nelle balere durante le languide milonghe. Schiere mormoranti di pellegrini amandosi come noi determinano speciali funzioni della nostra mente per una psicologia etnica d’essere umani. D’essere ‘qua’. Con l’accordo sui colori del tuo foulard appena comprato sulla bancarella del commerciante cinese so che posso aumentare il grado della tua sensazione di esistenza come se ti fornissi pappa reale e ossigeno nello spazio dove respiri. La mia freddezza può indurre sentimenti di miseria e aleatorietà. Il disamore si avverte come un disconoscimento più radicale più freddo e più disperato di quello che dovrebbe essere. Talvolta l’azione della malattia si caratterizza come una precoce alterazione dell’investimento affettivo. È dislessia dell’odio. Intuitiva. Feroce. Normativa. Al suo estremo porta ad ogni sorta di banalità. Non è un ente metafisico. È una malattia di non saper avere compassione per una foglia o un mattino. È una malattia sociale. L’incapacità di generare il nostro proprio senso senza un ragionevole motivo fa sì che usiamo gli altri: a causa di una mancanza di autonoma fantasia. Dicono che c’è una metafisica del Male. Invece c’è l’odio precoce contro un bambino e per un’amante e il freddo che gli si impone e dopo c’è la sua anaffettività come unica possibilità di sopravvivenza fisica. Ne può derivare un modo d’essere banale come è banale la natura senza esseri umani a narrarne la bellezza. L’amore che delegittima è un affetto glaciale di chi non riconosce e non genera gradazioni di colore e dice soltanto ‘bianco’ neutralizzando le sfumature necessarie per dire il latte e la neve e causa la lesione nella mente di chi ascolta poiché gli impedisce di distinguere le gradazioni termiche e i colori delle parole. La gratuità di quel male corrisponde ad un non valer d’animo. A volontà miserabili e sghembe. È un male che uno s’è preso ma che quando ce l’ha ci tiene a tenersi. È una ben tenuta malvolenza. Un tener di conto la malvagità. E’ la vera fonte del potere. E così spesso è un errore d’amore a provocare il suo contrario. Un odio che si rivolge dove nasce l’amore medesimo: alla origine della forma e della figura, alla nascita dell’altro. L’opposto dell’amore che dà senso al colore grigio e blu dei grattacieli appena completati è la banalità dell’io biologico che sceglie secondo un discorso di razza. L’odio può arrivare a colpire non una qualità ma una legittimità. È un razzismo che comincia nel rapporto degli adulti con i bambini e seguita nel rapporto uomo donna. Non si finisce mai di curarsene il rischio. Si capisce che è una cosa seria difficile ed è dunque necessario non contentarsi d’averlo approssimativamente definito. L’amore mio per te e il tuo non basteranno di per sé senza una ricerca più accurata (più amorevole del nostro amore) dato il turbamento che ci prende o dovrebbe prenderci se fossimo innamorati davvero: non sapere se potremo mai  fare in tempo a capire quanto ci siamo perduti l’uno dell’altra quando pronunciavamo con enfasi la parola “NOI”.

 

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foto di Nazif Topcuoglu

foto di Nazif Topcuoglu

La scrittura corre nel traffico convulso della lettura e deve evitare di essere travolta ad ogni istante. Ci sono dei punti emozionanti nella lettura. Si vuol accelerare ma ci si arresta a segnare i propri pensieri nel cogliere segni di intelligenza sulle pagine. E scrivo per illudermi di vanità e partecipare: come fossi lì con lo scrittore -che eternamente scrive chino sui fogli di quella precisa pagina- a condividere. La mia scrittura dura sempre poco perché non è mai migliore di quella lettura che l’ha suscitata. Comunque è meglio che non lo sia. La mia scrittura è un affanno tra dire e ascoltare, tra ascoltare e non poter tacere.

Scrivo quasi come tentassi di fermare certe tue parole con la mano e soffocarti per rallentare l’incalzare della compostezza e dell’eleganza del pensiero tuo. Il filo forte di un avanzata ordinata e inarrestabile è il tuo pensiero libertino. Il tuo pensiero irriverente che si esprime silenziosamente da quaranta anni, tanto è che dura il nostro ‘amore’. Colgo le tue gemme di proposte scientifiche ed etiche e pragmatiche. Poi, tu, aggiungi sempre la pietà: sempre una goccia di thè sul palmo della mano, per confortare un animale semi selvatico: il mio cuore che vuol sentire che non pesi.

Dormo con i pantaloni sul cuscino, tu hai accanto la bambina, io sono libero. Leggo studio e preparo fuga e ribellione, guerra, forse guerriglia, e regate. I rematori galeotti sono ai loro posti e la Repubblica è in fermento. I messaggeri volano un meridiano all’ora. Come pensieri traversano le città. Dormire non è più un riposo, in tempo di ricerca. È armamento, fonderia ed atletica. È allenamento subacqueo. Leggendo e scrivendo continuo a pensare come il vento sulla spiaggia e pensando alle repubbliche marinare e ai cantieri navali scrivo che ciò che facciamo pensando è di calcolare le quantità di moto della masse di senso in gioco ogni momento, durante la vita sensibile, una per una, lanciate come frecce nella direzione dell’aria illuminata.

Sono numeri belli che si ottengono. Sono capigliature color rame. Soffi d’aria bruciati. Soffi di fusioni di fonderia. Bisogna dire che tutto avviene sul mare, e la matematica dei calcoli si fa sul ponte di maestra, navigando. Perché, nella laguna della perdita dei rapporti amorevoli, non si può misurare l’efficienza dei coefficienti aerodinamici e idrodinamici, dato che il poco vento -per non soffocare troppo soli- ci si fa per nostro conto: ché dio non lo manda e noi, dunque, avremmo dovuto naturalmente perire. Con i calcoli della aritmetica abbiamo invece progettato la probabilità di un destino differente ed eccoci qua con le gambe distese sui gradoni di marmo che scendono sul livello del mare ai moli di ormeggio.

Nella città di questo mare ci diciamo solo le ultime conclusioni di ogni gruppo di pensieri. Cosicché il linguaggio è cifrato, e la chiave di lettura è intelligenza storica e appartenenza civile. Noi siamo le nostre stesse conseguenze, in ricerca di chi si appassioni a questa modesta concatenazione che è l’anima nostra. Le parole, scambiate nel tempo tra un viaggio e il successivo, sono cronache sintetiche, rimandi alle ultime miglia di mare. I gazzettini gridano attorno, ma noi restiamo quieti, come nulla fosse. Il pensiero si perde perché  numerose idee si confondono con la percezione visiva di infinite piccole linee, disegnate dai riflessi del sole, sulla massa del mare all’orizzonte.

Ne viene una natura composita di ragionamento. La cui incertezza conforta e consente l’attesa. Pensare non è esclusivamente che noi  sappiamo ricordare o prevedere avendo visto e saputo, pensare è anche che noi sappiamo immaginare avendo calcolato. Penso avendo studiato come nel seicento si sviluppò il fenomeno culturale di un pensiero libertino che era precisamente un pensiero libero non una fantasticheria di dissolutezza. Figlio di quel modo di rivoluzionare la mente con immorali trovate, si vede bene che, a star qui sulle pietre, a fissare l’orizzonte come navigatori preistorici, ciò che può essere immaginato, ciò che è probabile, finisce per assumere una certa natura di realtà. La vista prolungata della linea fluttuante dell’orizzonte marino è una stimolazione che porta il pensiero ai propri processi primitivi.

Dunque: che io stia dormendo con i pantaloni sul cuscino non è tanto una frase bizzarra o la descrizione di una bizzarra abitudine. È, invece, una carta geografica e un planisfero, con il disegno dei continenti del sogno disposti vicino a me, come il vestito delle camminate al mare e, se ci si pensa bene, è un modo di affrontare la solitudine, è l’invenzione di pensare in modalità non cosciente, è disposizione funzionale all’imprevisto. E’ altruismo intellettuale. Voglio dire: la certezza di esistenza è certezza della probabilità di quell’esistenza. Ed è intelligenza primaria, regalo di senso ad una probabilità d’amore. Così la speranza non è fragile. La speranza è conoscenza.

Poi cerchiamo gli oggetti di cui abbiamo pensata certa l’esistenza probabile: le cose che sono realtà di pensiero. E siccome la speranza è conoscenza, usare il termine intuizione per riferirsi al differimento del tempo necessario all’esperimento d’amore, il tempo necessario a confermare non il sogno del desiderio ma la certezza della speranza, è un vezzo linguistico inutile e pericoloso. Non c’è alcuna ingenuità nel primitivo atto della funzione mentale. Essere immediatamente disposti a rischiare la colpa della nascita come impotenza e mostruosa mancanza di ragione, in cambio della solida probabilità di esistenza dei nostri simili (seno), è fisiologia primitiva dell’io.

Non c’è l’ingenuità all’origine. Non c’è, all’origine, la colpa perdonabile di una assenza assoluta di responsabilità. Non c’è quell’anima ingenua perché piena di peccato e cattivi propositi che è l’anima vacua e violenta del bambino nella visione cattolica. All’origine c’è l’innocenza che è potente. C’è un io che non è assenza di anima e non è irrealtà del peccato originale. C’è davvero un bambino soggetto di una realtà di pensiero che si origina (e poi si sviluppa) nella biologia cerebrale. e lo si può chiamare in causa nella storia della crescita insieme a noi. La persona presente è un bambino colpevole.

Il bambino furbo e ingenuo figlio della divinità che nasce privo di grazia se accetta la colpa del proprio difetto originario avrà il battesimo a sancire la sua naturale incurabilità. Invece la colpevolezza dell’innocenza originaria (nascere senza peccato) costa la condanna di cattiveria per non chiedere mai perdono. Eccolo questo nostro bellissimo figlio che ha immediatamente l’io del pensiero originario nato per via della luce che è entrata dentro gli occhi suoi, soggetto di accuse di irrazionalità di vuoto e di mancanza. Di disobbedienza.

Poi la vita è un esperimento di pensiero in cui chi sa disegnare il maggior numero di eventi, seppure rischia la nevrosi ossessiva, tuttavia ha a disposizione il massimo numero di scenari per il proprio e l’altrui sviluppo. Ci sono spiagge al limite dei boschi. Impensati giorni di bagni marini primaverili quando, navigando di fronte a quei lidi, vedi scorrere l’infinito sulle chiome dei pini piuttosto che dalla parte aperta del mare. E allora capisci che la bellezza è meglio accettata da chi l’aveva prevista.

Potrò riconoscere solo l’amore che so di meritare. E spiegare con chiarezza massima le cose che incontro soltanto a chi già le aveva chiare. Ti dirò: …“tutto è finalmente al suo posto”… e: “ insieme a te eredito la felicità”. Ma finalmente non corrisponde a deporre il fardello del tempo trascorso fino a lì. È nascita umana causata dalla stimolazione luminosa della retina, che genera insieme tempo e pensiero. E’ l’io della nascita essere insieme ed è precisa rapsodia di uno splendore temporale.

La vitalità depone la placenta con il parto mentre dormo con i pantaloni sul cuscino e tu hai accanto la bambina. L’origine materiale del pensiero ci permette di fidarci della realtà non materiale dell’immagine che viene alla mente con stupore perché non corrisponde alla percezione di una realtà materiale esterna.

E’ una immagine che sostiene la dizione REALTÀ NON MATERIALE. In essa non c’è traccia di stimolazione fisica degli occhi. Essa esprime una certezza del pensiero. Il pensiero, cioè l’idea, che REALTÀ NON MATERIALE non significa ASSENZA di realtà materiale ma certezza di ESISTENZA di realtà umana (…SENO…)

(foto del post reperibile qui)

 

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Purché sia uomo si può. Ma è un poter accadere soprattutto. Non un possesso e una conquista. L’ottenimento, nelle cronache dei paesi costieri, è all’ingresso e nel transito. È tenere nel muoversi. Nelle terre costiere il susseguirsi delle maree e l’eternità delle onde separano il tempo con i ritmi estremi. Purché sia uomo si può. Resteranno ogni volta sabbia conchiglie impronte rossori e sale. Ma purché sia uomo non rappresenta una confusione e neanche puro adattamento. Si dice e si é convinti. Si ha la convinzione e si dà. Il senso del dare è forte nel concedersi di compiere gesti di passione. Nel pensiero è tutto un ricordare cose diverse. Mentre ci avviciniamo lentamente le cronache nella mente rievocano quasi tutto. Le parole che si dicono nel prendere e scambiarsi abbracciati sono conferenze di più di un lettore di romanzi e dizionari che declamano contemporaneamente nella piazza. La memoria concentrica crea prima il rumore dei fili di pensiero poi il silenzio. Il tendone del circo è sempre pieno di gente. Nei territori di costa ci muoviamo come il pubblico illuminato dal fuoco centrale dei giochi e dei salti: il mondo fuori non potrebbe distinguere altro che approssimazioni di figure. E così, per questo, è difficile spiegare. Perché già in quell’agitazione che è anch’essa una marea, esistono tante occasioni di vicinanza e scambio e discorso. Bisogna capire, interpretare in quel preciso ambito di amore fisico caotico di folla sotto le grandi tende, ogni affermazione testimonianza e logica conclusione. I medici che si sono messi a chiarire la mente dalla parte del colore stanno lentamente abbassando le braccia. Pare che risulti evidente un modo molto complicato di fissare sciogliere rilegare e ricostruire i ricordi. Una invenzione non corrispondente al vero è la vera natura della testimonianza. Il giuramento è sempre uguale: formule. Esso precede tutti i nostri scenari. Purché sia un uomo. Poi ci si muove nel sogno. Come potremmo fare a sapere, in base all’esperienza e alla memoria, che città può costruire? Diciamo, prima:”Mi piace”. Anche quando è pericoloso: perché abbiamo ricostruito il passato con l’esatta esclusione di tutti i dati che avrebbero potuto attribuire elementi di rischio a quel desiderio. Così sbagliamo con la più grande innocenza. Ed è nei primi momenti dopo che tutto è successo di nuovo che si buttano giù alcune testimonianze: il diario. Le cronache del clown senza un preciso vestito che chiarisca la propensione e il mestiere. Grande volto e guanti giganteschi e scarpe da qua alla luna. Disegno centrale dell’esperienza uguale all’omino sensitivo tutto viso labbra mani e piedi che quasi è senza gambe e braccia ed ha un toracino smunto e non si saprebbe dire se abbia coscienza di quella propria buffa costituzione. L’hanno disegnato lungo una circonvoluzione cerebrale i medici che ricercano il pensiero sulle tracce del colore. Aree rosse blu violette verdi e arancioni e ognuna, tutte cioè, pallide o accese. Focolari che bruciano lo zucchero con l’ossigeno in modi tempi e intensità differenti facendo del disegno anatomico una espressione puramente pittorica. E della scienza uno sforzo indispensabile di azzardo. Purché sia umano si può. È tutto cambiato dunque. Identità sessuale e umanità. Sono paragrafi nuovi. 

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