2013


l’amore dopo tutti


Posted By on Set 11, 2017

te come un luogo

Quello che chiamo ricerca ha scavato dentro di me divenendo una caverna inseparabile dalla montagna in cui le acque l’hanno scolpita. Le pareti sono la roccia su cui muovo le mani cieche. Non è che un’idea l’infinito: vuol dire che non si avrà il tempo necessario ad accarezzare la scabra superficie. Non sarà sufficiente la vita per concludere.

Hai scavato dentro me ogni volta che t’ho pensato. Il modo come percepivo la tua assenza fisica è quello che parlandoti restava escluso. Di questo mi sono arricchito e con quel pane mi sono nutrito e smagrito: per non dire consunto.

Frequento te come un luogo. Con l’esperienza di uno speleologo che vede bene come al negativo una grotta sia cielo e limpidezza. Nello stesso modo che parliamo d’una passione indicibile così la ricerca scientifica sulla specie umana tratta l’argomento agognato: quali possibilità abbiamo ancora di essere migliori. (Nella scienza, come in amore, si scava).

Il pensiero scava solo un po’ sul fuori di noi, e quasi esclusivamente dentro di noi. Questo fa anche l’amore. Però ci vuole una sostanza di contenuto. Altrimenti è solo apparenza.

Ci sono in certe persone riserve risparmiate per ogni nuova fine, per giustificare il sentimento di ogni inapparente morire: quando in strada ci si lascia per andare via e si diventa improvvisamente differenti perché non siamo più noi e in aria resta uno brusìo di tela lacerata e i visi corrucciati e una serie di rimbalzi e sussulti, dentro, invisibili se non sulle labbra morse dolenti.

Sapendo questo qualcuno, pochi, cerca costantemente, con attenzione, nella farmacia del tempo e si fa l’impasto officinale per quando viene il dolore della novità, quando si ripete come sempre la fine dell’amore e la scoperta geniale: si prepara alla fine del mondo.

Consumata l’aria nella stanza siamo agli abbracci ed eccolo il capolavoro del pensiero che si genera da un prima di quasi niente cui le scoperte e la fine del mondo ci hanno ridotti: il capolavoro della nostalgia improvvisa ci afferra alla vita in una certezza d’essere posseduti la stretta non più mortale ci tiene su anche se il dolore talvolta ci consegna all’eternità dei giuramenti tardivi.

La passione che scava nella sostanza è comunque indispensabile.

C’è, alla fine, un’Eco senza fine, un proseguire a pensare e amare di nuovo scolpito su lame di roccia. Una figura invisibile, un rimando urlante di materia esclusa che puoi sentire esistente sulle nostre mani, quella polvere di marmo esito degli scavi alla ricerca dell’amore e della verità.

Io ho imparato solo il tempo della distanza quando provoca un pianto commosso che si spande intorno e mostra un essere affranto e sognante ma non poi così fragile.

Appena dolente immagino oggi la pelle arrossata dei figli e degli altri miei amori ad ogni loro rinascita: a guardarli ho in mente un fermento di pensieri non figure di somiglianza e l’immagine di me al loro cospetto non è lamentosa né piangente.

È un amore grande, l’amore che viene ultimo: dopo ‘tutto’.

 

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“niente da capire”

Portare le persone alla percezione di ‘analista’ (o altro specialista esperto della cosa psichica) come persona che nell’interpretazione realizza una capacità umana, implica di portare l’essere umano allo sviluppo della medesima specifica conoscenza della cosa psichica. Il primo di questi due movimenti si realizza nella restituzione al paziente dell’oggetto analista durante la realizzazione del transfert positivo. E allora, appena l’analizzando ha in sè l’analista buono diventa buono egli stesso.

To be able.

Essere buono è essere in grado, essere ‘capace’.

E allora che ci si aspetta che la psicanalisi sappia rinunciare ogni volta di più al proprio statuto di istituzione per non diventare intimamente violenta a negare quanto accaduto.

La pratica di psicoterapia dice che gli esseri umani possono essere portati alla loro originaria capacità di immaginare, di interpretare la realtà degli altri. La ricerca e la formazione divengono allora immediatamente necessarie perché il sapere intuitivo è sempre esposto alla delusione avendo una comprensione delle cose che non compone un processo di ragionamento consequenziale.

Perché in noi sempre torna quel terrore nella certezza che saremo puniti: perché la nostra comprensione non ha ancora la forma del pensiero verbale cosciente né la figura del disegno dei corpi nelle azioni quotidiane.

E si continua a camminare e sanguinare coi piedi nudi sui pezzi di vetro sparsi a terra. E si scrivono solo frasi di cui da tempo inimmaginabile si è appreso a dire

“non capisco”.

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il mare violetto d’agosto


Posted By on Ago 17, 2017

Mi sei stata tramandata come un impero da comandare un po’ per grazia di dio, che sarebbe come dire una parte di genetica, e per il resto per volontà di una nazione cioè, esaurendo l’analogia, in accordo con la cultura dei nostri tempi irruenti. Si tramandano le relazioni? Gli accordi d’amore? Si tramandano come una tradizione alle successioni nei mestieri e nel comando i legami tra donne uomini e mondo? Non so, forse, dicono i tuoi occhi violetti inquieti quasi sempre obliqui e mai, però, se mi chiami ché in quei casi mi inseguono insieme alla voce che pronuncia il mio nome finché mi giro verso di loro e, fermo, ascolto il nuovo comando e la lista dei desideri. L’impero dei sensi miei si concentra in quei rari momenti e per il resto lo scrivere è pienare il tempo e il vivere tacere esule libertà mesta spavalderia sottoproletaria. Il viola conosco impero e cultura: così l’iride decide la spartizione del tempo e dei poteri. Oggi che sul mare viola urla il vento occhieggia il riflesso dentro me di te che chiami. Il giorno tramanda di noi frammenti di suono. Nella regressione alla nascita il mare spadroneggia.

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La duplice morale dei legami tiene viva la natura elastica del tempo sociale: tribù cittadine o eserciti nomadi sono in continua transumanza. È la vitalità del movimento che allontana la guerra restringendone i territori agli estremi dell’abitato.

La civiltà è appena accennata quando ci si bacia calorosamente negli angoli degli accampamenti. La superbia del progresso è un grano di brace sul palmo delle nostre mani e tu sempre ti svesti via la canapa: e la seta della tua pelle ha la grana fine della congiuntiva che tiene umidi gli occhi di lacrime subito pronte a scendere a piangere di fronte alla bellezza di un corpo di donna.

È perché la figura ha forme che commuovono il pensiero alla rappresentazione di qualità interiori di proporzionata grazia e di corrispondente lucentezza.

Sogno da sveglio l’immagine che la coscienza non ha creata ma che alla coscienza sale per essere baciata. Piangere è la grotta e il passo sulla roccia. Piangere è la fabbrica dei farmaci. Le lacrime antidoto ai veleni. Perché il sorriso muto nel buio non è soltanto amore e l’amore non è soltanto estinzione consolatoria di tutto.

La duplice morale dei legami, come premesso, per tenere viva la natura elastica del tempo d’amore durante il tempo nei traffici di scambi differenti in città e deserti, accetta che i baci siano anche i denti della piccola vipera che non si estingue.

La civiltà ancora teme la seduzione. La cultura vuole costituirsi ad antidoto a quanto appare alla figura rigida della ragione: non sa vedere più lo stupore che assalì la coscienza quando volgendomi all’arco naturale dell’ingresso mi apparve -o mi parve di vedere- la forma di te controluce dopo anni.

“Caro dottore, caro amore, cara donna mia, caro padre, mamma cara: sogno i serpenti lucidi in questi tempi in cui la coscienza sente salire il buono e registra il benessere che il buono fa se viene inarrestabile e innegabile.”

Così le risposi:
“I serpenti caro amore, cara madre, padre amatissimo, dottore caro, donna preziosa che sei più di un amore perché sei ossigeno e siero di intelligenza e sei genialità artificiale, medicina di eterna giovinezza e bomba contro la nuvola grigia della noia… i serpenti- risposi, letteralmente usando queste precise parole, i serpenti -risposi -chiamando la mia interlocutrice “preziosa presenza risolta in un si di fronte al cuore disteso a terra come un bastardo esposto trovatello alla pietà”, i serpenti -risposi- sono quello che la civiltà ha salvato di umanità. Sono domande rimaste inevase dopo seimila anni.

Le lacrime sono l’antidoto a quello che non sappiamo fare: la separazione tra di noi. Se parti per sempre ed io non ci sarò più per sempre io piangerò e tu piangerai. Non c’è altro che abbiamo trovato di fronte alle separazioni impossibili che piangere. Un’arco l’entrata delle grotte. E le persone legate e poi distratte, strappate via, ricondotte e nascoste di nuovo. E ciascuno con l’idea dell’amore e dell’assenza. Senza consolazione.

Se vai via i serpenti delle lacrime scendono lungo il nostro viso. Dopo che chi ci amava e che amavamo sono svaniti oltre l’arco, solo chi ci ama di nuovo non avrà paura delle lacrime e del nostro dolore e ci bacerà.

I serpenti resteranno fermi e il veleno dell’invidia della libertà che doveva ucciderci- si addolcirà con la saliva di un bacio sperato.

Neanche più il suono dei pensieri ci sarà dentro le labbra serrate le une sopra le altre. Chiameremo quell’assenza di pensieri ‘inconscio’ senza voler sapere il tempo che sarà necessario a pienare di immagini la nuova parola.

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Quando siamo finalmente ciò che avremmo potuto essere, quello che avremmo potuto essere non c’è più.

Quando ciò che avremmo potuto essere è ciò che siamo diciamo che porre la condizione era una negazione.

Ponemmo una condizione che non aveva senso vista da qua. Qua è uno spazio/tempo. È adesso. È più tempo che spazio.

È soprattutto tempo perché ciò che siamo non dipende da un luogo.

Noi siamo un formicolare scintillante di gocce di pioggia, una condizione atmosferica mentale e insieme, dentro quella scenografia metereologica che siamo, noi siamo anche quelli che cantano sotto la pioggia alla musica di una famosa canzone.

Il pensiero mentre danziamo è certezza di noi e lieve trascuratezza del dove.

Questo essere sfuggiti alle condizioni di non essere -che resta implicito nel porre condizioni ad una buona riuscita- amplifica, nello spazio/tempo, la frazione legata alla fisica delle durate, e riduce il sentimento delle estensioni.

Lo spazio/tempo in cui adesso siamo è presenza, il mondo è ovunque luminoso, ben visibile grazie alla pioggia di fotoni della consapevolezza della nostra attuale identità.

Una manna siamo noi cosparsi del miele d’essere sfuggiti al sospetto del nostro fallimento: siamo irrigazione celeste sulla sete degli esuli.

Certe soluzioni hanno il potere di fascinazione proprio di storie bibliche. Le storie bibliche, d’altra parte, riflettono bene i flutti di ogni singola anima.

Non è infatti vero che tutti noi siamo, e ciascuno a suo modo, esseri solitari e dispersi nelle desolazioni di ogni attraversamento?

Negli attraversamenti, tutti lo hanno sperimentato, c’è un mare di pensieri di ciascuno che evapora in sfoglie di nuvole piane, inavvertitamente.

Il cielo sopra i sentieri ci attrae per la sua capacità di contenere tutto il volume di umanità che si agita sulla sfera della terra.

Per questa capienza globale il cielo, cui guardo oggi con riconoscenza, non è consolazione.

Cerco, volgendomi in alto. Torno ragazzino. Il cielo è il mio regalo. Sono uno che anela alle vette bionde di grano e nere di olive come i capelli di re del giovane padre.

Posso comprendere il suo linguaggio?

Nel 1977 lessi la locuzione “Inconscio Mare Calmo”. L’ho portata fino a qua. Ora sono quello che allora speravo avrebbe potuto capire.

Adesso che ho smesso di volere capire oggettivamente il significato di quella frase sono finalmente quello che sono.

Ho smesso di aspettare il realizzarsi di una condizione e mi sono tuffato nel mare del tempo trovando in questo volume la densità dell’incerto amare.

Ora spazio e tempo si sono legati come inconscio/mare/calmo. Suggerendomi che il linguaggio potrebbe comporsi in forme di terapia per scomporre la tela dolorosa della pazzia e strappare il sudario dell’angoscia psicotica.

Tento di fare un primo passo, un movimento per uscire dalla disperazione implicita nel linguaggio corrente della letteratura della scienza e dell’arte. Che restano -disperati- nella fiducia che porre condizioni sia una garanzia di modestia.

So che l’esitazione giudiziosa di un dubbio è solo il nostro terrore di gettarsi a capofitto nell’amore.

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ascolto e generazione


Posted By on Lug 9, 2017

Nessuna relazione funziona se non ci si ascolta. Detto questo non è possibile definire, o completare l’espressione, della parola ascoltare. Un discorso impetuoso si genera riguardo a quella posizione di uno che non compie nessuna azione verso l’esterno. Tanto più impetuoso ascolta chi svela esclusivamente attraverso una ferma postura il moto del mare pensieroso a me rivolto. In quei frangenti ritrovo le passeggiate senza fine sulla costa, lo sguardo obliquo tra l’orizzonte e la spiaggia a nord ovest, tra la mia casa e il futuro, che non si raggiungerà mai.

Solo chi ascolta genera la nostalgia di un domani possibile. Anche ora -con la tovaglia di lino della vita appena increspata sugli angoli del tavolo a indicare i futuri inevitabili precipizi- anche adesso chi ascolta determina in me un benessere per cui smetto di contare e misuro -quel tempo e quella costituzione materiale di donna che mi ‘mancano’- secondo la fisica della natura reciproca degli elementi componenti la realtà del pensiero.

Lo spazio dove mi trovo a vivere è il presente che delimita il tempo necessario a percorrerlo e pensare è una piazza da coprire di passi.

Si leva da questa piazza dove cammino il filo ritorto di parole che traversano il mare.

Tu sei in me pensata che mi ascolti. La biologia del mio pensiero pensa te biologia generosa che tutto permette delle mie invenzioni.

Questi rimandi nella relazione sono rami arcuati di una capanna dove riposo filtrando appena la luce e il buio subito oltre me.

 

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