2014


first kiss


Posted By on Mar 12, 2014


Un video virale, ha milioni di visualizzazioni in poche ore e come dar torto ai visitatori ? Un dato decisivo, durante la ricerca nel cespuglio cerebrale che chiamiamo ricerca in psicoterapia, per fermarsi un momento durante la corsa e sedersi su un gradino della via del paese a guardare l’antico borgo e il cielo intagliato tra i tetti e lentamente, dopo tutto quello che potremo pensare per non fare i conti con noi stessi… valutare la confidenza che ognuno ha intrattenuto con il proprio tempo amoroso… che altro? ah già…. la colonna sonora è “We might be dead tomorrow” di SOKO…

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dialoghi


Posted By on Mar 11, 2014

Alessia ha scritto questo commento all’ultimo articolo

“Gioco con il mio avatar ..lei ha coniato un nuovo vocabolo: “Ho pianto un matasso.“ dice. Perché la matassa di lana è abbondante, ma il pianto è maschile. Qualcuno capirà …. Giocare mi stanca quasi quanto studiare e allo stesso modo mi libera. Il vecchio dalla lunga barba, con il suo elastico, ci faceva frizzare i polpacci. Tu hai inventato un nuovo modo di parlare al vecchio e lui ha liberato l’oriente, la tua origine. Sei un bambino d’oro. Adesso svegliati e parlami un pó.”

Rispondo.

“Nel deserto o nella tundra devi avere un punto di riferimento. Ma sono quasi tutti punti immaginari. È quello che sembra di vedere, e devi avvicinarti, per essere certo che era qualcosa di reale che avevi percepito. Il fascio dei fotoni, in viaggio da quell’area minima di orizzonte, collassa parzialmente sulla superficie irregolare della seta di sabbia portando con sé la polvere d’oro che la sabbia diventa sulla poetica degli strati di cellule retiniche. Per quei riflessi, forse miraggi, qualcuno decide di risalire fin là. Ora si sa. C’era la bellezza, che si può misurare. Ci sono voluti decenni e non ne so molto più che all’inizio. Si trattava di insistere. Il linguaggio cambia l’anatomia sottile dell’universo encefalico. Si scrive come scrivi tu. Io capisco quello che dici: che si può non essere più soli un momento prima che sia ‘troppo tardi’. Poi allora, forse, la stanchezza diventa una traccia di sessualità. Quanto resta ancora possibile, per cui vale la pena. Qualcuno capirà….

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Sul numero attualmente in edicola di LE SCIENZE  l’articolo “La nostra mente inconscia”. Finalmente una certa chiarezza. Gli studiosi americani hanno definitivamente concluso che le troppe parole di Freud sull’inconscio non hanno nessuna conferma scientifica. Essi gentilmente ma decisamente escludono ogni legittimità alla retorica letteraria di un inconscio che nella notte riproduce incessantemente le angosciose scenografie edipiche. Infine, e qui si sfiora l’ironia, siccome il cervello è ‘uno’ …. pare questo un ‘argomento’ sufficientemente solido per ipotizzare che anche il pensiero possa essere rappresentato come funzione singolare e intera. E dunque il non cosciente, essendo un processo del pensiero, un modo della attività mentale cerebrale, è anche un processo nel pensiero ed ha continuità e identità di fisiologia inesauribile ininterrotta e ‘inseparabile’ dalle azioni della coscienza. Essendo il pensiero funzione coerente della intera attività cerebrale, non si sono trovate vie sinaptiche preferenziali, né strutture anatomo/funzionali dedicata alle funzioni di coscienza e non cosciente. Senza alcuna reale localizzazione il simbolismo topologico freudiano   (ma non solo freudiano….) sul non cosciente, non si regge e decade: da utopia dell’irrazionale (poco importa se buonissimo o cattivissimo oramai) a funzionalismo atopico. Più che una scienza è un vizio riferirsi al non cosciente come a qualcosa di isolato che sarebbe risolubile e poi slegato da forme di pensiero differenti, con azioni di individuazione certa, una volta per tutte. Di per sé, come attività isolata, specifica ed autonoma, esso semplicemente ‘non è’, insomma isolato non è ‘plausibile’. La scienza ‘gli’ sottrae il tempo. Si potrà aiutare una persona a cambiare, ma non basterà risolvere il problema (a livello*) inconscio. Dovrà diventare agente consapevole della propria cura e poi della vita che viene. Sarà felice della certezza di quanto è accaduto negli anni della psicoterapia. Sarà tutta coscienza ridente, se vogliamo. Ma lasciamo adesso il problema ai cultori della disciplina.

Le sperimentazioni psicologiche citate nell’articolo, provano che siamo costantemente sottoposti alla azione di funzioni cerebrali che ci sfuggono, che non possono essere coscienzializzate diciamo così, in tempo ‘utile’, e che esse agiscono indirizzando ogni nostra ‘decisione’. In relazione a questo dato non ci sono dimostrazioni del primato della coscienza sul non cosciente. Non pare che ci siano strutture anatomiche per portare l’uno all’altra. Si tratta di fisiologia e dunque si tratterebbe, inevitabilmente, di differenza di funzioni della medesima struttura anatomo-biologica svolte contemporaneamente e incessantemente. Dunque l’inconscio esiste, ma …. non è freudiano. L’inconscio e la coscienza confluiscono nella azione del pensiero. Quello che possiamo dire è che, su tali funzioni, da tempo si indaga, nel contesto del rapporto indispensabile alla relazione terapeutica di psicologi e psichiatri. E che ‘transfert’ e ‘contro transfert’ sono i parametri clinici  del rapporto medico-paziente in cui si esercita l’osservazione, la diagnosi e la cura della vita mentale.

Questo tipo di terapia implica l’interesse e l’intervento attraverso i mezzi designati genericamente: interpretazione del latente anche attraverso l’analisi dei sogni, frustrazione/rifiuto dei bisogni, soddisfazione delle esigenze, verbalizzazione delle dinamiche in atto nella relazione e degli aspetti cognitivi favorenti e limitanti il benessere dei soggetti… per realizzare il riconoscimento delle realtà più prossima al vero riguardante il rapporto tra paziente e medico e il variare degli affetti in gioco. La metodica psicoterapeutica ha comunque il compito di rendere possibile lo svolgimento del tempo in forma di passione di una cura non infinita, e quello dell’altra definitiva ed irreversibile passione della ricerca che però, attualmente, pare non finire. Perché sembra che alla ricerca sia deputato di rendere irreversibile e stabile il cambiamento realizzato durante la cura.

Al cospetto delle aperture derivate dalle conferme di funzioni mentali meglio individuate nella loro natura, si spalanca un lavoro imponente. I quaderni in questione su questo blog, adesso, mi appaiono prendere la (in)consistenza di libricini in un mercatino di modernariato che si svolge nei paesi della costa adiacente al mio studio certi giorni del mese. Io allora mi metto a scrivere per informare di quanto studiato, sono come uno che lucida librerie, o si agita come un ragazzino adolescente. Di fatto spolvero i volumi, porto via ogni segno di sporcizia sparsa qua è là a terra dall’andirivieni delle persone. Mi pare che nasca una libertà da ortodossie tanto più rigide quanto più furono ‘basate’ su imprecisioni ed equivoci a proposito della materia dalla quale il pensiero origina.

Pulisco la stanza, perché ho la sensazione che si chiarisca l’orizzonte e il tempo volga davvero in primavera come quando capitano cose nuove. Pulisco e profumo con il deodorante. A volte pare di non essere soli, e che non si sa mai.

(*).. ‘a livello inconscio’ è una formula da prestigiatori: essa in genere viene usata per distrarre il pubblico, prima della azione truffaldina del trucco che inganna la percezione.

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“NASCITA PER SPARIZIONE”
copyright: claudiobadii

Ci sono tipi da volere e tipi da esser voluti. Quelli che vogliono e desiderano e gli altri sui quali, per dir così, si allungano le mani. In contrasto con questa riflessione, o in apparente contrasto, sei scivolata oltre un ingresso, in una parte dell’abitazione che conteneva tutto un altro mondo. Cioè il mondo in cui ‘tutto’ non era tutto ma, semplicemente, il resto di una sottrazione, quello che di qua non si ‘sa’ e dunque ‘non esiste’. In quel passaggio -che è stato uno scivolare o un nascere, ma nascere scomparendo e non venendo alla vista, comunque un divincolarsi come nella lussazione del pollice per togliere una manetta che ti teneva prigioniera- nella perfetta transitorietà di quella tua uscita di scena, ho avuto la certezza che tutto sarebbe stato possibile. Così ad ogni parola sorriso o ammiccamento cambiano le proporzioni tra promesse e divieti. La vita è un continuo accettare o rifiutare ed essere presi o lasciati andare, a seconda che si sia di un ‘tipo’ o dell’altro. Senza avere alcuna scelta veniamo prima vissuti da noi stessi e poi, di conseguenza e in accordo, dagli altri. Siamo posseduti, ma anche posseduti dall’obbligo di possedere. Mentre scivolavi oltre la parete che divide la tua casa, scomparendo dietro la quinta di un teatro privato, io realizzavo la libertà della fantasia. Il tuo corpo, che si muoveva tra due spazi senza opporre resistenza all’invasione di quei mondi opposti, era letteralmente irresistibile. Ho immaginato un giorno incerto. Una luce di transizione. Il movimento di un giorno in cui, scomparendo come adesso dietro il muro, avresti ripreso la tua strada, aveva nella mia mente, la bellezza evidente di un agire che non si decide. Credo che il fenomeno sia più generale. Che ci sia ‘sempre’, nella realtà dell’agire umano, l’espressione di un pensiero di cui non siamo consapevoli. È una negazione la parte preponderante delle nostre affermazioni, se esse sono espresse senza bellezza.

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“GRAFFITO”
©claudiobadii

Mi prenderò la libertà di confidare in noi. Tu ci hai descritti. Definiti. Io, senza neanche una parola di avvertimento disporrò di te. Tu sei la presenza intellegibile. L’amore, voglio dire, è quel tipo di capacità che si può avere di porsi di fronte all’altro che, improvvisamente, si sente capito, di non dover spiegare nulla. Si può non averla questa capacità di alleviare, intanto, tanto di quanto prima pesava agli amici ai commensali agli ‘altri’. Gli altri, alle persone dotate di una certa capacità appaiono comprensibili sempre. Questi che hanno la capacità hanno uno spazio intimo nel quale i cosiddetti ‘altri’ possono riposare le loro ossa rotte. Quando siamo profughi dagli scontri di piazza contro la polizia del dittatore e quando siamo profughi dalle torture della polizia segreta dei rapporti privati. La polizia segreta dei nuovi strumenti di controllo poliziesco, i Facebook, i WhatsApp, i socialnetwork, come si chiamano i moderni luoghi del narcisismo collettivo.

Serve una qualità di grandiosa modestia. Far sentire gli altri legittimi. Il grande male, la tragedia diffusa, la polvere di gesso che copre tutti… è la ‘certezza’ della propria illegittimità, il senso di precarietà, i numerosi sospetti a proposito di sé nel momento che si comincia a riflettere su noi stessi.

E’ stato necessario studiare, prepararsi, essere previdenti faticando quando erano grandi le forze. Abbiamo studiato lungamente. Abbiamo scovato, traversando dalla teoria psicoanalitica freudiana disperata e parziale alla nuova scoperta della nascita, poi guadammo la prassi terapeutica il fiume dello Stige, l’interpretazione della realtà psichica, l’annullamento della realtà materiale, il rifiuto delle scuse coscienti per il sapere dell’inconscio che, però, faceva dimenticare tutto. Dunque troppo. Gli analizzandi mangiavano le focacce di pane dolce per dormire e non uccidere più. Ma non era ancora il tempo della loro vita, perché il transfert era idealizzazione e loro -nel sentirsi ‘bene’- invece erano ancora fragili, ipersensibili, irritabili, neuroastenici, deboli, impauriti, isterici. E non essendo ancora il loro tempo di vivere restavo fermo anche io nella relazione di scambio, senza nessun margine di ‘resto’, senza nessuna altra possibilità. Non era, voglio dire, nemmeno il tempo della mia vita. Il contro transfert risentiva dell’obbligo di accordarsi sapientemente al transfert. Era impossibile, di fronte alle loro evidenti difficoltà (a capire a vivere a trovare la forza a superare l’isteria a superare la fragilità a superare il loro odio verso di me che li rendeva nevrastenici) che io potessi avere la calma per vivere ‘normalmente’ … ed il contro transfert era solo disciplina di lavoro, difficoltà, inquietudine, paranoia… “Poi ce la fanno a farmi fuori…”

Decenni di parole e di pause, ogni volta sette giorni. Avevamo fatto tanto per dividere il tempo in frazioni non decimali per accordare il ritmo delle pause e degli incontri alla luna alle mestruazioni alle fasi calanti e crescenti. Al sangue. Trovavamo con le mani cieche quel sangue secondo un sapere che veniva dal nomadismo delle dita sul seno materno profumato dei primi momenti. Fasi crescenti e calanti. Le imposte aperte e poi accostate per fare giorno e sera secondo il sonno reciproco del neonato e della donna. Lontano dal mondo della produzione del padre. Abbiamo studiato per trenta anni. Aprire il libro. Chiudere il libro. Fase crescente, gli occhi sono saracinesche, persiane, che calano si serrano fanno il buio artificiale per sognare una comprensione, per chiudere le braccia attorno a te e fare l’amore. Per chiudersi a te e lasciarsi succhiare il latte come non ci fosse altro.

Lo studio dei libri, delle teorie, della scienza fisica, della scienza letteraria, della critica sociale, della politica, erano il setting: la sistemazione delle cose nell’universo esistente. Non ho ricordi differenti da quel procedere, ogni giorno, avendo intuito contro/intuitivamente ‘qualcosa’. Non ricordo niente altro. Come un amore di passione che non ragiona anche se non diventa bramosia e, pur volendo la carne e la saliva, tiene la distanza e l’idea di desiderio come certezze inestinguibili.

Studiare i contenuti. Poi si arriva alla linguistica, alla neurofisiologia, alla neurobiologia, alla certezza della origine materiale della vita mentale. Le dita sulle pagine fanno sempre il nomadismo come si era cercato. Le dita tracciano, muovendosi sulle pagine, il disegno del reticolo epidermico della cute sulla ghiandola mammaria che è irrorata dal calore. Lo studio ha questa sua legittimazione di desiderio, ma non c’era più, in quel tempo, la madre vista stando in piedi di fronte a lei. Nella regressione che doveva togliere l’isteria che è irrealtà, si perse la visione della madre intera. Si andava ai milioni di anni. Alla paleoantropologia. Se non avessi studiato anche quella branca della scienza dell’uomo avrei temuto che fosse una regressione pericolosa. Le parole che nominano le aree pulite del sapere mi rassicuravano che era possibile.

Dalle teorie mi sciolsi per arrivare all’impotenza assoluta del pensiero non razionale. Persa la visione della madre intera tornato ai milioni di anni dicevo parole senza senso. “Veglia senza coscienza”. (Dove altri dicevano immagine inconscia non onirica, che forse intendevano tutt’altro da quello che io credevo volessero esprimere..). Ma io non volli scomodare più la seta usurata dei discorsi altrui. Mi facevo le ossa con le carezze alla voce delle donne sconosciute. Fisica, scienza sociale, paleoantropologia, linguistica…. Per la pazienza di altre donne. Che concedevano le infrazioni e non si fecero mai ‘legge’.

Grazie a molto di questo che è solo sabato pomeriggio torno fino all’antropologia ultima, quella dell’evoluzionismo attuale. Ecco la mela rossa che, vada come vada, lascia affondare i nostri denti bianchi. L’evoluzione non ha un andamento lineare. Le mutazioni vantaggiose crollano. Mutazioni controproducenti emergono e progrediscono. Gli ominidi, lenti nella savana e appena sufficienti sui rami, sono riusciti. Saranno due milioni di anni fa. Imprevedibile. Non ci si sarebbe scommesso. La legittimità figlia della improvvidenza. Il successo di non essere annullati e spazzati era steso ad asciugare sulla via della resistenza (c’è un articolo e un disegno in proposito nel blog..). In equilibrio precario lungo la linea confinaria. In equilibrio precario di un sabato pomeriggio di due anni fa. Per un sorriso.

Il controtransfert adesso è una scelta di marginalità a presidiare i confini solamente, a controllare nulla. A guardarti telefonare certamente ai tuoi amori senza voler sapere. Tanto lo so. L’ho sempre saputo e ti ho amato comunque. Diversamente, senza quella bellezza che ti rendeva orgogliosa, silenziosa, misteriosa, traditrice, non avresti avuto nessun fascino. Io lo so che voi donne considerate amore solo questo coraggio che si deve sapere, e saper immediatamente dimenticare, la vostra bellezza. Di saperla solo quando ci offrite di succhiare il seno in silenzio. Poi dobbiamo essere stupidi e lasciarvi. Io ero fatto per questo. Perché avevo sempre tenuto in segreto la necessità di pensarti dentro il miele dell’universo appartenente al buio dei tuoi segreti luminosi. Così ti ammantavo. Così ma in modo che tu non vedessi. C’era una probabilità minima di riuscire. Una ‘vita migliore’ è un’ipotesi contro intuitiva nel migliore dei mondi possibili che l’amore pretendeva di esaudire. Resto come ero, abbastanza povero, con te sulle dita. Ti lascio scivolare sulle falangi. Sei un’Araba Fenice che scompare nelle aree cieche degli spazi nascosti e ricompare sull’orizzonte dei polpastrelli. Io sono una specie di prestigiatore. In verità mi muovo lentamente attorno ad un atomo d’elio fissato al centro della visione per non lasciar cadere fuori del campo del mio interesse neanche una delle scintille che spruzzi. Mi avvito sul perno di te, che inchiodi le mie mani in un punto non casuale in aria.

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“LA TERRA DA DOVE VIENI TU È IL MODO COME ARRIVASTI”
copyright: claudiobadii

Questo concerto a due voci. Questo dire: ed è stato allora che… Poi il racconto precipita nel sorriso che si fa strada nelle resistenze dell’incredulità. Una nave che procede sulla banchisa. I croceristi imbacuccati in bianco. Gli orsi marittimi a bordo. I ponti. I gruppi tribali. La nave una foresta galleggiante sul freddo della attuale scena politica. Si alternano scene una sopra l’altra. La mente un palcoscenico a mille piste e le quinte si confondono fanno il vento proprio loro le quinte uno spettacolo di teli verticali di onde stese impreviste ad asciugare che non asciugano mai, in apparenza. Questo sono gli amori: l’apparenza dell’eternità poiché evaporano così lentamente che farli durare è il bello ‘erotique’ dell’esistenza. Le prime attrici sono molte. Affollate a rubarsi la scena. Attrici sempre ( ne ho incontrate senza sapere altro di ciascuna se non che erano, ognuna per proprio conto…) disperse lungo i piani prospettici di certe loro preoccupazioni di essere inutilmente amate senza capire niente altro che la confusa sensazione del piacere di carezze e pasticcini al rum. Filosofe nei cenacoli sciolte chiacchierone sui divani che possono essere dovunque collocati dentro il progetto delle infinite abitazioni che gemmano da ciascuno dei disegni delle case di Escher. Ci si arrampica senza fine sulla graduale complicata serie di giudizi di merito, ma la scala, tanto ambita, purtroppo soltanto è un’idea irreale, è una promessa di scala, tradita, perché si può disegnare l’impossibile  e promettere l’irreale, realizzare una finzione che non tiene altro scopo se non di tenere nascosta la malattia che si vorrebbe combattere. Si cammina sui soffitti.

Ma, invece, tu, camminami sul cuore! Àbitami che io possa alla fine capire. I maschi sono in genere occidentali del nord. E non sanno gran che. Abituati come siamo a comandare. Non pensiamo niente di veramente nuovo da millenni. Dunque bisogna che voi ragazze ci scandalizziate almeno un poco ad ogni costo. Solo per poterci fermare il momento di un invito. Non sperare che un maschio cambi. Non cambia.

Mi hanno raccontato però il sogno della macchina che percorreva la calotta ghiacciata sciogliendo il ghiaccio nel procedere. Qualcosa di differente. Il gelo dell’Antartide implica la disabitudine. Ho pensato alla lotta della femmina con l’ottusità dei ragazzi degli uomini dei vecchi. Il maschio propone l’impossibilità che sa di incurabilità. La ragazza pone la potenza dell’insistenza. Sragionare. Vado a cercare nei dintorni con la nostalgia del presente che tengo appena discosto dalle ore di lavoro. Lungo la costa di questo presente nostalgico sono un avvistatore sul pennone principale del galeone, una piccola vedetta quasi suicida data l’altezza necessaria, ed assisto alla vita di certi amori che non sono direttamente miei amori ma sono gli amori di chi amo. Ho questi amori transitivi, dolcezze e trepidazioni che mi arrivano traversando la carne di quelli che più tengono a me. Appartengono ad altre culture. Per fortuna posso essergli sempre vicino grazie alle corvée quotidiane. Essi vivono ma non per accettazione. È differente il loro vivere. Differente all’origine, hanno la grazia originaria non il peccato. Hanno di lasciarsi, nascendo, la morte dietro subito. Definitivamente sono assolti. Non hanno il patrimonio della rassegnazione filosofica che conosco dentro la didattica occidentale. Negli occhi le mani strette in un patto ben fermo a osare addirittura le piadine, il coucous, le cucine all’odore di banane e riso dolce. Le sale, quasi povere, al sapore di calcina e di imbiancature. Vivono nella scenografia della foresta, ricreando nello spazio attorno a sé un collage di frammenti di sole. Lassù dove vivono, le risate silenziose e la pazienza impossibile e l’assenza di rabbia sono nuvole di rami e quando arriva la prepotenza del sole della ragionevolezza illuminata del gelo volteriano…. quella fredda luce si frantuma e si scalda precipitando dall’alto attraverso le foglie e le radici aeree taglienti e dure di ciascun albero che da mille anni aspetta la luce omicida per frantumarla e trasformarla. Cambiano il veleno nella sua fisionomia di farmaco per darselo addosso come una crema di bellezza. Così con quei pavimenti di calcina e risate loro, gli amori di chi amo, non hanno i piedi feriti di quelli che, come noi, camminano sui vetri. Hanno il sangue come un fiume. Non come i torrenti che ci attraversano rumorosamente il cuore rompendo sempre il poco di pazienza che avevamo costruito noi.

Anche questo mi serve per il mestiere della ricerca in psicoterapia. Nella cultura occidentale e orientale ci sono solo morte e fredde certezze. Io starò da adesso nei fiumi di sangue. Sarò uno regista splatter alla Quentin Tarantino. Per tenere accanto il calore. Scriveremo una strada calda di rosso e costruiamo con l’aspra dolcezza del riso e delle banane un reticolo ipercalorico sulla banchisa. Eschimesi equatoriali.

L’amore non si merita, non si deve possedere la presunzione dell’amore sempre e comunque. Bisogna provare a capire, semmai, dove e come i nuovi amori -non più occidentali e non più settentrionali- abbiano potuto trovare qualcosa che ora ci regalano mentre dicono che è qualcosa che tenevano per noi. Bisogna amarli laggiù lontano, milioni di anni fa. Immaginarli da soli, senza di noi. Ora che arrivano agli appuntamenti settimanali tutti loro, riuscire a vederli (immaginare) nello scenario del tempo, già bellissimi proprio come quando, capitati accanto a noi dopo quei milioni di anni, finalmente dicemmo loro ti amo la primissima volta. Bellissimi dunque da sempre, per quel che ne sappiamo, non per noi ma nonostante l’assenza dei nostri sguardi innamorati. A volte sembra possibile realizzare il pensiero di un transfert ‘ultimo’ …. come ‘guarigione’. Certezza della nascita: che esiste un seno.

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