fisiologia


lascia la vitalità


Posted By on Lug 21, 2011

lascia la vitalità

l’immagine che svanisce crea l’immagine dell’immagine che svanisce. porta l’espressione della attività mentale fino alla fisica corrispondente alla vitalità di una posizione psicologica irritante e offensiva. in realtà noi sussistiamo senza una ragione, dormiamo e sorridiamo al giorno che viene, dal silenzio facciamo sorgere parole, il trombone scivola e intona, del niente dell’ottone parleremo giorni e giorni, sul metallo ottuso e roboante scriveremo trattati, siamo certi di poter occuparci di qualche infimo angolo di mondo pieno di deludenti rifiuti con disposizione poetica. ci possiamo benissimo immaginare di restare -noi tutti- attorno ai metalli grigi delle gru crollate sul molo. si sa che balleremo scalzi nelle colline verde smeraldo sull’erba che cresce rigogliosa perché la terra contiene l’uranio impoverito dell’ultima strage democratica. si sanno fare baratti poco giudiziosi tra il moto della danza e il fantasma della morte per radiazioni. è per via dei tromboni e delle chitarra muti nelle loro custodie che meglio si indaga nel silenzio a proposito della costituzione della realtà e sulle differenti forme costitutive di realtà numerose. parleremo del giorno appena passato oggi. parleremo del tempo del quale nessuno si è accorto. diremo che il tempo passa mentre generalmente nessuno ne ha coscienza. diremo che narrare del tempo trascorso tuttavia è una cospicua quota di pensiero. il pensiero razionale è coscienza del tempo. la vita mentale, globalmente, è narrazione di qualcosa che non è stato avvertito mentre accadeva e che dunque -inavvertitamente- viene ricostruito come invenzione. il pensiero cosciente dice di sapere che quella invenzione che copre l’ignoranza del tempo che è trascorso si chiama verità. in realtà la conoscenza dice: la coscienza è la faticosa costante ricreazione di un passato perduto per sempre proprio nella sua verità di essere stato ignorato mentre accadeva. il senso di colpa di non essere presenti nel tempo determina la serie di figure ed eventi grammaticali e sintattici che chiamiamo descrizione narrazione e storia. l’amore è scienza della realtà poesia del presente inaccessibile e muto ascolto degli ottoni e delle chitarre. non ci sono parole per dirti quanto e come sono legato a te. ci sono parole per dirti che si riesce davvero sempre a parlare di quasi nulla e tuttavia si resta in relazione.

adesso -che è certo che la realtà della faccenda d’amore è che per sempre niente diremo della verità di quanto accaduto- possiamo scambiarci promesse di fedeltà. senza coscienza è massimamente la musica. suono del tempo che accade mentre si ha la sensazione che nient’altro che quella musica accada.

ti giuro: relazione d’amore tra la donna e l’uomo è sommamente silenzio dove capita che il rapporto sessuale sia offerta di realtà genitale alla realtà dell’ interesse e del desiderio.

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le macerie delle onde oceaniche


Posted By on Lug 11, 2011

le macerie delle onde oceaniche

Musica di clarinetti atlantici prima di doppiare il promontorio. Cerco un al di qua, un paesaggio praticato. La nave deve avere il parapetto del ponte di prua stabile, vernice azzurra sul manufatto di acciaio che sarà opportunamente assicurato al tek del piano con dadi e bulloni grandi e squadrati: torniti e affilati da specialisti. So che tutto questo è possibile e cerco sul mare delle scoperte. Si arriva dovunque scendendo da Gibilterra. La discesa per i giardini a piani successivi ampiamente arcuati attorno all’asse della terra fa perdere la testa e l’orientamento e porta all’Africa o all’America del sud. Per me resta d’essere un narratore del rientro in me stesso, una specie di raccoglitore di alghe -al margine tra la tempesta del disordine malato e la quiete delle guarigioni. Io rimango a lungo tra le grida dei trichechi, tra onde dai colori acidi e lucidi a tracciare la mappa linguistica delle spiagge di marea. Metodo: prima lasciare che sia completata l’evaporazione delle acque, la sublimazione dell’arca pietrosa sulla vetta, il consentire programmatico, la pigrizia chimica, i cristalli di sale, i miracoli ottici del bianco assoluto, il bianco assoluto. La musica delle coste dell’Europa mediterranea mantiene una sua composta aristocrazia. Oltre Gibilterra -se si sale – altro che Caraibi !! si va al grigio piombo pragmatico. La musica delle coste atlantiche d’Europa e d’America fa il pensiero vasto e auspicabile. La musica della traversata svolge il rammendo tra realtà e materia: la fisica dell’affetto così ben evocata dai jazzisti allampanati, dagli sguardi sulle onde, dal ponte di prua con il parapetto azzurro, dalle lenzuola di cotone grezzo con i disegni all’inchiostro di china. Il pensiero del suono di improvvisazione compone nuvole alte: poi, regolarmente, viene giù il cielo e ci troviamo fradici, seduti nei bar di fronte al tè con l’uvetta nei bicchieri piccoli arroventati di vapore con la menta, in genere un manico di metallo attorno al vetro trasparente. La cultura araba diffonde la luce dovunque: avendo sviluppato la grazia della scimitarra affilata curva sghemba dal taglio ineccepibile, un’ arma – voglio dire – con la forma del sorriso che posso fantasticare anticipazione squillante della musica lirica e  dei fiati rivoluzionari mozartiani. Percorrere le coste occidentali  dell’America del nord, traverso l’atlantico verso occidente trovo le coste del mare del nord d’ Europa, scendo al mare di verde smeraldo portoghese dopo il mare del colore delle ali di aeroplano del Regno Unito, poi cado addosso al colore verticale dell’Atlantico francese. Le coste mediterranee di Spagna e dell’Africa invece hanno il colore dei soffitti degli attici di Parigi, Madrid, Malta: per via che l’Europa mediterranea è quasi per intero una Facoltà Universitaria per la formazione di arredatori, architetti di urbanistica, clarinettisti, sarti di tendaggi per terrazze e padiglioni delle feste, e arredatori di piatti di molluschi crudi per la cena delle otto e mezzo- subito prima del teatro all’aperto-. Se ho pensato che fosse irredimibile la scimitarra, penso subito ad estendere quella qualità a quanto si associa, nel pensiero, all’arma curva, al sorriso tagliente e al tuo sapiente profilo: irredimibili, dunque, la cicatrice che origina dal taglio del filo sottile, l’origine delle cose nel tempo che trascorre, la fondazione esplosiva del tempo medesimo, le lame d’aria attorno al profilo di noi ad aspettare un bicchiere di vino. Il silenzio alla fine dei drammi di Ibsen – da questa parte del mondo – è anch’esso senza tregua e senza redenzione. Questo pensiero accentua l’eleganza algida dell’imperdonabile, la grazia ferrea del grigio dell’atlantico nel suo centro più lontano dalle coste. La non redimibilità – di fatto – dà alle cose un tocco di definitiva perfezione, le tinge con un carboncino assai grasso, con tracce di impronte, con rintocchi di materia colorata, le invita a tornare al di qua della curva eleganza delle incisioni dei chirurghi, al di qua dell’omicidio, sul filo del bisturi e della cannula per il salasso. Sul mare si dispongono portentose porte di pietra e cristallo per segnalare le soglie dell’impetuosa sospensione delle vite dei musicisti, costituite da inarrestabili onde di indecisione. Mentre i tamburi proiettano addosso alle mura delle città di costa il rombo d’aria delle pelli tirate, io disegno, nella grafia della lingua italiana, le tracce di una attitudine alla comprensione non cospiratoria.  Mi immagino che essa sia, con la stessa fantasiosa complessità ingenua del Castello errante di Howl, l’impressionante realtà di una psicologia sottile ed abile dei terapeuti. Sarebbe, se esistesse -ma questo si deve ancora acquisire- un costituente indispensabile della mentalità più genericamente medica, per studiare ulteriori vie di accesso ai segreti della materia, per scoprire le non ancora note e forse ancora impensabili condizioni fisiche della degenerazione e della guarigione. Mentre scrivo suona nelle orecchie il Clarinetto Atlantico e poi il Quartetto dei Clarinetti, la cui suadente persuasiva dissonanza mi colpisce con l’idea di essere in presenza dell’ultimo dei soldati che erano andati alla guerra, ora guarito e abbracciato al fratello ritrovato in questa musica.

Stanotte, nella festa, la musica non è che le giubilanti macerie delle onde oceaniche. È questo che anche noi siamo.

(il cartoon cui fa riferimento la figura dell’articolo: qui)

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dopo anni


Posted By on Giu 7, 2011

dopo anni

Forse stava preparando qualcosa di bello, da farci essere fieri tutti, lui, noi, i molti amici, le persone attorno, negli attimi rapidi che concedeva correndo l’ingresso tra le siepi del giardino che lo riportavano a casa, dalle strade del lavoro e degli amori, e viceversa. Era un sorriso silenzioso, uno “…ciao …” incredibilmente intimidito: da far paura, da uno così. O forse era crescita e sapienza, silenzio e gioia, in una parola serietà. Eravamo spettatori ai margini di un area di tempo che non poteva creare nostalgia, o al massimo una nostalgia del presente. Quegli attimi erano l’unica cosa che avemmo per anni senza lamentarci mai perché, adesso è diventato evidente, si era assunto l’obbligo pesante di insegnarci a fidarci di lui. Il sottoscala dove vivevamo allora – senza sperare di poter avere mai più di meglio – veniva quotidianamente abbellito da ritorni e uscite sempre più lievi, la cui leggerezza non arrivò mai a farci temere l’indifferenza, ma ci rese certi della nostra inadeguatezza, che poi diventava un peso che ci tenemmo in silenzio come se, a dichiararlo, il dolore, potesse animarsi e diventare una cosa irreparabile. Come in un sogno, tutto quello che ci succedeva, tutta quella vita interiore e anche tutte quelle cose che facevamo vivendo vicini, riuscivamo ad alienarle ai nostri stessi pensieri, come tutto quello fosse non la nostra vita né più né meno, ma il ‘racconto’ della nostra vita. Solo così credo che potessimo mantenere il sorriso e i modesti ma indispensabili progetti: un fiore da seminare, la cattura di un topolino, le parole indignate di fronte alle diseguaglianze, la decisione di uscire per la nostra pizza preferita, vedrai che pioverà come al solito, accettare tutto il tempo, l’altro tempo, non quello atmosferico: il tempo necessario alla vita con gli altri. La  mia vita aveva forma certa di nuvola, altrettanto certa doveva essere la forma che la vita allora assunse per loro, gli altri accanto a me, perchè non la scambiavamo mai con nessuno, con nessuno cadevamo in esempi sulla nostra vita di quegli anni, e tutti avevamo la fierezza di un atleta che si massaggia i muscoli prima del salto, il volo verso la sabbia lontana dieci metri più in là, dove nessuno arriverebbe di tutti quelli che stanno ad agitarsi attorno. La vita era la passione di dinieghi educati e incontrovertibili, dopo anni e anni ad assentire, e l’animo aveva forma di quel volo atteso verso la pozza di sabbia finissima, creata sapientemente per evitare le ferite  quando il corpo angelico del saltatore sfugge al sogno. Si decideva di uscire a camminare, di soppiatto, come andare ad una festa proibita, come quadri viventi della voglia di vivere. Spesso ci raccontavamo di noi, di come ci vedevamo. E il racconto della scena delle figure le faceva svanire nel suono delle parole, e il pensiero era libero di tornare alle immagini. Tornare alle immagini era di fatto il nostro tacere alla fine delle narrazioni, l’acquietarsi del pensiero affaticato nella culla della materia da cui si era sollevato per dire la nostra felicita. Eravamo piccoli guerrieri alla tavola apparecchiata di noci, che recuperavano progressivamente uno stare insieme come condizione fisiologica del benessere di una impervia modestia. Quelle notti di racconti preludevano alla caduta nel sonno profondo, al cuore del quale si annidava il segreto della vita del pensiero umano. Dopo ore veniva il sogno che portava di fronte agli occhi movimenti rapidi ed imprevedibili di protagonisti diversi. Era la mente allegorica che mandava i sogni in cui si pensava con figure, si subiva l’irruzione di ‘cose’ nei modi del pensiero vigile, si sospendeva il sonno del corpo che ritrova la nascita, per la consolazione di ricostruire una forma di movimento attraverso gli scarti degli occhi che seguivano la descrizione mentale delle azioni immaginate. Quali idee si nascondevano in quel correre amare parlare, nel ritorno da scuola, nel ritorno dalle battaglie, nelle soste nei cortili dopo la resistenza alla violenza dell’approssimazione e dell’ignoranza, nelle ombre lungo il viale del giardino che riportava sempre a casa, nella linea obliqua del sottoscala, nell’eccitazione del profumo di origano e salvia sulle mani delle donne ardenti e infine – solo per dire di una singola notte – nel colore scuro delle giacche degli uomini tessute di tabacco e cotone grezzo – io adesso non voglio indagare. So che l’irruzione dei sogni ci svegliava, e per la maggiore gloria nostra dico che scuotevamo la testa a quelle rappresentazioni notturne di drammi e sortilegi, e si tornava una seconda volta alla materia del sonno, alla natura umana del riposo, alla culla biologica delle funzioni complesse. Il mondo intero sprofondava nel buio. L’io perdeva la coscienza e cadeva nel sonno. Ogni tanto, nel sonno, un sogno sfolgorava. Ma per ore l’io senza coscienza, privo di ogni figura e narrazione, sfidava la cecità del buio – che conteneva il cielo e l’universo – con la costanza del calore, con la marea ampia del respiro, e con la polvere incorruttibile del silenzio.

Dopo tantissimi anni: “… è in quel sonno senza sogni il massimo della vitalità ? “

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polaroid


Posted By on Mag 7, 2011

polaroid

La matita dalla punta di grafite morbida si sfarina mentre disegna le chiavi. Si tratta delle voluminose chiavi dell’ingresso anteriore e posteriore della caserma, della porta all’estremità del muro delle fucilazioni, della sala mensa, degli uffici degli amministratori. Chiavi degli alloggi dei dignitari e dei figli stessi dell’Imperatore, appartenenti tutti alla cerchia ristrettissima del Comando Superiore della Elevata Gerarchia, e chiavi delle stanze delle Ragazze Pronte a Tutto Senza Paura e Pudore, che conservano naturalmente intatta una dolcezza incrollabile, per non essere mai corrotte dai loro comportamenti: che vengono loro comandati in forme necessariamente incorreggibili. La matita completa il disegno di tutte le chiavi di ogni altra stanza dell’avamposto sull’orizzonte, e si sfarina ulteriormente alla pressione dei polpastrelli che devono illustrare come, a questo punto, sul fondo azzurro elettrico-gelatina della foto delle nostre Polaroid, ci furono congiungimenti urlanti lungo molte linee di calore, e i corpi delle ragazze e dei soldati volteggiarono aprendo avvallamenti sopra le chiome di ulivo, e, gridando senza tregua, ingentilirono le crocifissioni e i roghi della passione amorosa, con l’aurora boreale di una amnesia collettiva. Le chiavi, sullo sfondo della polaroid scattata al deserto, pendono appese al filo che scende a picco da una frattura del cielo, perché qualcuno, da qualche parte nel progetto della scenografia, ha lasciato scivolare dalle proprie tasche un segreto con assoluta maestria e, per tale prevista distrazione, nel rettangolo di gelatina azzurra di un mondo infinito, la nostra felicità può essere degnamente rappresentata -senza altre ampollosità- come quel luccichio di ferri ben torniti, che oscilla assicurato saldamente ad un filo teso, costituendo la perturbante figura del Pendolo Cosmico. Da una fessura, sulla parte centrale del lato superiore dell’universo, il deserto e il paradiso vengono incrinati verticalmente, e la frattura si estende fino al primo piano della foto, su un rilievo di sabbia che è il nascondiglio di uno scorpione: il perfetto meccanismo di scatto di una coazione omicida.
Nelle polaroid che tiriamo fuori dalle tasche dei nostri attuali pantaloni da cammellieri, è tutto uno sfumare blu e indaco, e si vede appena la linea dei viandanti quando siamo partiti via dalla caserma un poco fuori dal tempo dove avevamo a malincuore lasciato i legionari con le loro amanti venute dalla città lontana, a interrogare il cielo equatoriale sulle strategie di accoppiamento più efficaci ad accelerare l’intelligenza della fuga e della ricchezza. In alcune delle gelatine si vede il pendolo cosmico che tiene appese al cielo le chiavi della incomprensione di tutto quello che continua ad accaderci, e si evidenzia, nella regolarità di una oscillazione rotante, la scienza del romanzo che racconta le vicende dei sospiri infuocati che vanno, dai toraci magri, su, fino alle nuvole basse dei dialoghi degli accademici che si scambiano dubbi sulla deserticità del deserto. C’è una delle foto – di quel viaggio che è stato il Viaggio della Vicendevole Consolazione dei Naufragati –  che sta, protetta, nel portafoglio gonfio di immagini di santi minori inutili a qualsiasi protezione di uno di noi che non volle mai dirci il suo vero nome. In quella istantanea fissammo, sotto forma di capolavoro, la potenza della contrazione che prende i muscoli delle braccia e delle gambe nella fase di eccitazione neuromuscolare automatica di un ballo incoronato di spinose disarmonie, che poi coinvolge tutto il corpo, e lo scuote, e si estende infine allo spasmo della mimica del volto dell’essere umano che pronuncia la prima parola nella storia dell’umanità, e festeggia la scarica alla punta sottile degli elettrodi infissi in ogni area cerebrale che saldano ognuno di noi, da allora, all’acciaio dei pennini e alla sapienza delle frecce ben bilanciate che colpiscono sempre al cuore. In foto scattate poco distanti da quell’attimo notturno, c’é un cuore infilzato come allo spiedo di rosticceria e l’intenzione dei pellegrini fotografi era di rendere poetico eterno e indissolubile l’amore per la scienza rigorosa della costruzione dei pozzi, e gridare dalla valle arida in cui eravamo venuti a trovarci dopo la cacciata dalla Caserma dell’Alto Comando ‘ Tirami via da questo tragico buco di sabbia scavato da secoli del mio mutismo ebete così simile a quello stampato con abbronzata evidenza sui volti dei generali delle nazioni imperialiste ‘. C’è una foto quasi completamente azzurra con la filigrana però dell’impronta di una mano aperta, che corrisponde a quando trentavamo di evocare con tale forma potentemente simbolica la comparsa magica e della levatrice -che ha la tempestività- e del fabbro -che ha il ferro arrossato ed asettico- perché ci eravamo tutti ammalati sui margini fangosi delle paludi, e tentavamo salassi che ci levassero la febbre intermittente, terzana e quartana, della malaria che, nel sostituirsi al tempo con successioni false nella loro bizzarra regolarità, ha la stessa malignità dei rami degli alberi che stracciano le ali degli angeli incautamente addormentatisi nella forresta. Una foto ritrae il pungiglione di una anofele appena uccisa che ha la forma perfetta delle cose della natura cattiva: lei fa un microscopico foro sulla pelle attraverso il quale gli Scienziati Cercatori della Carovana si imbarcarono nelle zattere dei globuli rossi percorsero le curve i salti e i vortici di vene e arterie fino ai tessuti delicati degli apparati interni e si riunirono tra loro sulle piazze interstiziali sui rami fibrosi che sostengono le architetture degli organi fino a planare sulla barriera delle membrane cellulari, per ridisegnare – attraverso le vie dell’infezione e della riproduzione dei microorganismi – una contiguità fisiologica ed una forma anatomica che curassero la febbre andando a attivare, con la ricerca, l’immagine della funzione sconosciuta della vitalità: che realizza il pensiero sano di un tempo generato all’interno di noi che ha un modo diverso dal ritmo guasto del tempo dilatato e sghembo della febbre. Cominciammo a fotografare l’espressione di ognuno che cadeva nel sonno, convinti che in quell’attimo di perdita di controllo sulla realtà esterna potesse vedersi il miracolo della fondazione di un amore diverso, che non è per il mondo o per l’altro, ma che si rivolge in sé, alla nascita del tempo di ciascuno. Sono, quelle, tutte foto di volti e sono tutti bellissimi, talmente belli che nessuno di noi ci si riconosce, e ce le siamo scambiate le une con le altre, le abbiamo adottate come ci fossimo imbattuti, nel deserto, in una tribù di quieti bastardi assonnati  che si fanno amare per quello che sono: perché non hanno nessuna traccia che li leghi ad un responsabile amore precedente. L’ultima foto è una foto del cielo visto dal basso e la linea dell’orizzonte non c’é, e non c’é il mazzo scintillante delle chiavi, e deve essersi scattata ‘da sola’ -diciamo così- in realtà per la contrazione della mano sulla scocca della polaroid da parte di qualcuno durante il sonno.

Essa mostra un modo differente di vedere, un modo dove il pensiero è attività mentale che racconta le cose come un corpo che si muove nel buio. Forse è quella la strada per arrivare a definire la vitalità come termine scientifico che appartiene alla medicina e che definisce e corrisponde alla realtà di una condizione specifica della bilogia umana.

ps: la foto che accompagna questo articolo e che in realtà incombe gettando minacciosi lampi di felicità su chiunque si accosti alla pagina è di una persona speciale che ama chiamarsi babycamera di cui non so niente se non che viaggia molto tra cielo e emulsioni geniali e che le capita di realizzare distrattamente capolavori….

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alla mia tavola un angelo


Posted By on Apr 13, 2011

alla mia tavola un angelo

I pensieri come si formano possono scomparire andarsene senza lasciare traccia: evidentemente non prendono posto in alcun luogo. Sono disposizioni fisiche variabili della materia, che di per sé resta inalterabile al variare dei pensieri. Per questa complessità di azioni forze e funzioni uomini e donne sanno giocare giochi difficili, le cui regole non si rivelano mai definitivamente, e le cui etiche non potranno mai essere raggelate in un corpo dottrinario definitivo.

A volte sogno di te: è quando sto abbastanza bene, e il mondo interno mi sorride. Allora sogno di te, prendo il tuo viso tra le mani come una reliquia, con la passione estatica di una santità blasfema, e lo metto al centro del mio sguardo, e il mio sguardo è il mio sogno che ha una scenografia di sfondi sfocati oltre il tuo viso. Come dire che il resto non conta e il tuo volto è segno di qualcosa che sta andando bene tra tante altre difficili e complicate che stentano: e si vede che io riesco a tenerle distinte e lontane e a renderle trascurabili.

Anche noi giochiamo giochi difficili, le cui regole non siamo mai stati capaci di stabilire. Non tutte una volta per sempre voglio dire. Per via che, nell’amore, quello che prevale sono le cose del  mondo interno, le continue variazioni dello stato fisico della realtà biologica, e più specificamente le continue inarrestabili ed imprevedibili variazioni della fisiologia dei centri nervosi. Quelle variazioni sono i nostri pensieri, sono il soggetto stesso dei nostri pensieri e in conclusione – e per cominciare – quelle variazioni siamo proprio tu ed io (ed ogni altro essere umano): separatamente.

Tu ed io – separatamente – siamo i nostri pensieri. Ognuno è i suoi propri pensieri. E poi ci siamo ‘noi’ che siamo i pensieri che ognuno, misteriosamente, pensa a proposito dell’altro, e dell’altro con sé. E questo secondo mondo esistenziale creato nella mente, è quello che chiamiamo ‘noi’. Quel ‘noi’ non è capace di proprio pensare, non ha autonoma identità, bensì è una parola arcaica  di nuvole, di schiume, di polveri, di suoni originari che ci attraversano giorno e notte. Giorno dopo  giorno quel ‘noi’ attraversa il cielo instancabilmente, ed è allusione del pensiero ad una (falsa) pluralità agente.

Dovremmo aver ormai appurato che la vita mentale è una attività creatrice del tutto intransitiva, attività di una sostanza che genera il pensiero, e lo porta fino al punto, in cui quell’azione della variazione fisiologica della materia non riesce più a tenere le sue stesse tracce, fin dove le orme – allineate da lì alla loro stessa origine – sbiadiscono nel bagnasciuga della riva, assorbite da una linea d’onda trasparente. Fino a quando e fino al punto in cui la consapevolezza della  origine materiale del pensiero diventa poesia, e la superbia delle nostre certezza scientifiche si trasforma in smemorata bellezza.

Questo punto e questo momento, dove tu ed io finalmente siamo, non sembra più necessario alla coscienza. Somigliamo ad uno sparire ciascuno dal proprio orizzonte, e diventare, ciascuno nell’affetto dell’altro, il pensiero di ‘noi’. Come se adesso il pensiero fosse il tempo di una singolarità, qundo ogni essere umano, agli occhi degli altri, è  l’orizzonte degli eventi oltre il quale tutto precipita in una vaga irresponabile disponibilità d’amore. Ho sognato il tuo volto tra le mie mani, ed io che precipitavo nei tuoi occhi, e non tornava indietro più nessuna notizia della mia sorte, della immagine di me in te. Ho pensato che in te diventavo riposo, come una pietra sul fondo.

Là – nel sonno – ( però devo dire anche ‘qua’ e ‘adesso’ nel ricreare il sogno nella  attività della coscienza ) il pensiero si specchiava in un evento senza figure. L’attività psichica del sogno, iniziata come gesto intransitivo di amore per un altro essere umano, adesso, che è realtà di comprensione cosciente, è soggetto che, nel risveglio, pare allontanarsi dalla propria sorte di restare irrazionale poetico. Tu stamani sei volto di te in me, come io sono, in te, una pietra sul fondo. Nel risveglio di oggi il pensiero di noi si riposa. Gli occhi guardano verso un mattino quieto, un sommesso margine.

E’ il momento in cui bisogna fidarsi. A questo margine, una buona volta, ricominciare. Una volta per tutte, a questo margine sommesso ed inevitabile, cominciare a pensare davvero, angelo mio !

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l’entità del pensiero


Posted By on Mar 17, 2011

l’entità del pensiero

Stanotte leggero’ te per capire bene l’entita’ del pensiero nella profondità delle tue parole ferite. Comunque sei già accanto. Così è. Il guadagno del tacere, e le tue mani che arrivano a trovare. Radioattive perché se no non saresti tu. Perché hai accarezzato volti taglienti

Sei rimasta di sentinella. Il sacrificio ha reso inutile la dignità e il coraggio. Memento non e’ timore ma e’ restare a conoscere tutto. Scavo nella sabbia le parole contese ai rapaci, e trovo le impronte delle tue mani: le cose da dire si addensano nella forma di due labbra.

Ti mando me -la linea del tempo di una illusoria successione. Ti mando quanto accade tutto insieme nel pensiero all’idea della tua insonnia. Si formano cose nella mente prima del concetto, attorcigliate, poi svolte, al tuo nome e dal tuo nome: e’ inesorabile gioia nelle tue vicinanze.

Gioia della tua vicinanza, ed ecco ho trovato quattro tulipani imprevisti. Il lusso immorale di un attimo di noi. Per dirti buongiorno. Perché seppure sai tutto, sempre, improvvisamente sai, del miracolo, il volo: steli come scope, i petali spalliere colorate e, sotto, i resti di fango.

Ad un tratto so che tutto (quasi) ti costa più che ad altri. Che il volo pero’ ti riposa. Leggerezza senza ansia di restituzione. Ho la gioia per la sicurezza che, se io sono i passi, tu sei la pianta potente. Perché hai la commozione e non temi la mia,

Sono stati solo sfioramenti e il soffio d’aria mentre giravamo angoli differenti, eppure è certo: il mantice era volume trai grattacieli. Ti lascerò andare e mi mancherai. Lascerò le parole fino a te. Leggère ti saranno al ritorno se avranno graffi imparati.

Il mio pensare è solo rapido girare dei passi a seguire le mani nelle tasche – che rimuginarno, tra le dita, il filo forte del discorso d’aria dei nomi. Non si scelgono le parole nè dove si deve essere. So che tu mi hai tenuto bene sempre. Così resto dove hai scelto per me. Non posso sbagliare.

Tornerai. Racconterò a te della parte di cose e pensieri fino a lì. Sarai libera di leggere a tua volta. Farò un inchino alla tua fronte assorta alle tue labbra a un’ immagine alle tue parole graffiate di sangue. Fosti la comunione che si celebra nell’allegria.

Nella mente ignorante bellezza. Ho trascurato tutti per il colore saporito delle tue risposte. Tu vali del tutto tutta la loro amorosa pazienza. Eccoti zuppa di cioccolato bianco, gorgonzola, crostatina e banana. E cannella. E frutti di bosco. Tutta per me, in attesa. Nota erotica.

Così se tu fossi -ma sei!- qui, direi che hai saputo distinguere -sapiente- diversi sapori del rosso. Certe componenti di me obbediente al tuo gusto. Che hai presente il processo innocente dei pensieri …e quello che siamo. Aggiungo:

” E’ -quel progredire- i polpastrelli feriti…” – “E’ -questo camminare- il buongiorno dei poveri..” – “E’ -questo dire- la ricreazione di te sconosciuta ma addosso..” – “E’ il silenzio, incrinato dal desiderio, la possibilità di rifarsi, nella vita di ora, figure accese e certezze.”

“E’ dedizione la lotta alla confusione di quanto non sono mai stato.”

Al cartello stradale scelgo il mondo nella tua direzione. Sarà una comprensione ad attenuare l’impatto. E tutto -tutto ciò, proprio tutto questo che non trova il verbo- sarà l’azione di amare. Tutto questo sarò io e attrarrò a me la curva del tempo.

Perché non si tratta. Non c’è commercio all’amore delle parole, al sangue alle dita. Non commercio dire ‘me’ a te. Oh eterno insistere! Ma la notte ha un etica. Il buio è il disegno dell’ignoranza. L’assenza di figura è ‘te’ come parola dissequestrata alla morte. Tu la parola ‘vita’.

Il pensare non ha l’azione, perché e’ affetto consolato in se’ della propria potenza indulgente. Ed io pretendo memoria, non perdono. Il pensare non ha il tempo della pronunzia. Viene superato all’improvviso. Preoccupa, la sua rapidità, alla quale il corpo non potrà opporsi mai più.

Se chiedi come è possibile consolati: ‘come’ ‘modo’ e ‘mondo’ vengono a cercare l’angolo dove mi lasci riposare. E’ ‘da te’ che ti chiamo. L’intelligenza ha suono, contiene la passione. E consente. E consentire e’ un regalo. Ma non si accorda tuttora al suono di Te. Sorridi!

Comunque interrogami e picchierò alle porte della fortezza. Segnerò caratteri sul muro. Ti lascio la dittatura del colore il mondo e le case. Adesso capisco la domanda ‘chiedimi dove sono’ : era dedizione e coraggio. Quasi nessuno chiede più. Tranne te, certo.

E’ una complicata traiettoria, sulla quale siamo disposti non per forza. Per questo dormirò molti anni dopo stanotte: il corpo sulla curva dei tuoi variabili amori. Ecco tutto quanto c’è di bello da dichiarare:  fedeltà, concepire, imparare.

Non e’ dentro di me il sapere. Solo la sintesi della pazienza ricrea la trama dei tappeti di buio, dove dormi, incline al sogno. Con te non ho la fatica di definire azioni. Con te capisco la causa efficiente. “Intelligente Affezione Sii , Tu , Me!”

Sbagli e ti sorrido accanto. Stabilisci il metro. Puoi concepire che non sempre so volere. che  non sempre c’è stata una decisione. C’è la fisica del buio nelle curve. Il corpo sbattuto e disponibile. Per tacere di chi ha per sé la tua generosità infinita.

Per tua dis-ma-anche-grazia io sono facilmente capace di sapere. Ho l’attenzione assorta al tuo aderire da sempre all’eleganza che nascondi. E’ il senza fine che e’ non fine della carezza: dove finisci tu io inizio. Sul confine si attua la reazione nucleare. Voleri e bagliori.

Volere non e’ libero arbitrio ma disobbedienza. Vuoi questo nome? Disobbedienza?  E’ tuo. Vestiti. Io ho rubato il calore e l’equatore mentre lasciavi tracce. Forse un odore era la sapienza che reclamava. Ma so che obbedivo.

Si sta su derive senza disaccordi. Servirmi di te e’ ricchezza senza sottrazione. E non misurerò secondo le convenienze. Tu sei preziosa. I polpastrelli sono architetture del martirio, quando il corpo si fa padrone e sussurra e non agisce e non fa altro che respirare.

Sei tu la politica del gusto, la filosofia dello stendersi accanto e l’arte dell’aspettare senza paura. Il tendere senza fratture. Ustioni. Storia: ho cercato di capirti da subito. Le prepotentze, non eccessi, e insomma quell’essere semplicemente tu.

Non è facile se si sente appieno. Non è facile. Spesso sono caduto e mi sono rialzato senza fiatare. Era tutto vero. Non descrizione o racconto. Ho rubato il coraggio dell’esasperazione e mi sono acquietato sull’unico letto disponibile. Il letto della regina.

Ho rubato le luci variabili del giorno che diventa buio. Ho restituito la luce con il tuo fulgore. Non nego il gusto di te sulle dita. Mi sembrò subito impossibile, perciò inequivocabilmente vero, il fondo che accoglie le tue labbra. Capivo le parole sconfinate.

Nessuno descrive mai il vento per filo e per segno, ma è il vento il narratore. Adesso intorno si è disegnata la notte che più che altro ha un colore e non ha la linea. Ha il suono. Il suono che fa il volume e l’ ascolto e la voce.

Vario l’angolo dell’avambraccio rispetto alle ombre della scrivania ed eccoti distesa sulla linea dei numeri. Ti calcolo: sei. Altro, che abbiamo, si è disegnato. Tu tracci altre rotte dove forse non andrò. Eccomi. Sono linee scure e dolci.

Ti dico che non ce n’è mai abbastanza di primi passi e mani che tengono il braccio forte di chi si fida. “I piedi fanno la curva terrestre con i passi”, ti dico. “Io non so ma non importa, io non prevedo, ma non importa, io assaporo i polpastrelli che offri e l’indecenza è conquista e perdono.”

E’ necessario un legame forte per la vita delle parole. Ma un legame non è forte senza l’intelligenza della provocazione. Se non sbagli niente io mi perdono, mi perdo e mi regalo. Non granché – la notte – al cospetto della presunzione di avere una trasfusione dalle tue vene rosse.

L’assenza di cui dubito è la mia. A volte il pensiero muore nell’abitudine.  Divento vergognoso di deludere le lune orgogliose. Generalomente -addirittura sempre- una donna sente più di un uomo.  Non mi sono perso una parola delle inclinazioni di donne e fiumi di parole.

Se almeno non sapessi la forza che contiene la fiducia. Invece la conosco: fa il cielo e la comprensione di sabbia e rame. Non voglio raccontare, voglio dire la serie delle cose che coesistono dentro di me e fanno i pensieri che diventano segni.

“…dalla mente allo schermo senza nessuna voce…”

Ho cenato con te nel piatto e nel vino. Lussi. Cantavi con la mia voce, perché soprattutto tacevo. la complicità è una buona favola per addormentare: resto con te fino a che restii.  Questo lusso di rubarti il sonno e regalarti il buongiorno.

Poi ho raggiunta la riva -le mani sui numeri della banchina di attracco del molo di ponente.  Ero come un vincitore bagnato della tua acqua.

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