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die Nacht


Posted By on Mag 3, 2012

Ora che sto cercando di imparare questa lingua nuova con questa nuova pronuncia è come se nominassi me stesso ancora una volta. L’idea delle cose è la stessa ma il suono è differente e allora le cose sembrano più interessanti. Offrono un lato nuovo prima invisibile. Tradurrò: pensiero, fisica, realtà. Idea, figura, linguaggio. Percezione, comprensione, azione.

Mi devo ricordare che l’infinito ha due limiti sul versante del molto grande e del molto piccolo. Che le misurazioni che si compiono su quei margini comportano errori di rilevanza da accertare. Che i livelli di errore che gli scienziati si concederanno come tollerabili misureranno a loro volta i livelli di confidenza tra ricercatori e metodo.

Differenti scienze, fisica e matematica, arrivate a quei confini di non-finito si differenziano: i matematici sono assai meno generosi con se stessi. Mi devo ricordare che la locuzione ‘livello di confidenza’ è assai vantaggiosa da adoperare per valutare la relazione tra esattezza dei risultati e autostima. Tra metodo di valutazione e confidenza con il metodo operativo della scienza.

Mentre sto cercando di esprimere le figure della percezione e le idee degli affetti in suoni del tutto nuovi da quelli usati fino ad ora, forse anche io esploro difficoltà di misurare le cose difficili, non percepite, mai viste e mai acquisite del tutto. Cose della mente che possono avere suoni diversi. Parole nuove per rendere conto del proprio grado di confidenza con quanto non ha un oggetto esterno di riferimento.

Pensiero, fisica, realtà. Idea, figura, linguaggio. Percezione, comprensione, azione.

Ma ho studiato un poca di fisica e di storia della matematica. Ho ascoltato la fiaba: la parabola, che per i greci era la sezione longitudinale di un cono, poi è diventata l’equazione Y=X al quadrato. Dicono che questo pensiero non ha una figura corrispondente. Ascoltando le conferenze dei matematici mi sono detto: l’intuizione non è un evento visuale.

L’intuizione ha a che fare con la possibilità di essere di certe cose a certe condizioni. La parabola, sezione longitudinale di un cono, corrisponde ad una realtà esterna. La funzione Y=X al quadrato è una condizione di possibilità data una precisa relazione. L’intuizione ha alterato la percezione. Posso avere l’equazione senza avere più alcuna realtà esterna.

I matematici e i fisici, per quanto assolutamente protesi verso un avvento di limpidezza, si sono imbattuti (nel ventesimo secolo, precisamente) in condizioni di incertezza a proposito della individuazione di alcune caratteristiche della materia, e nella certezza che intuire non era legato all’attività della percezione specificamente visiva, ma alla attività ideativa in generale.

Y uguale a X al quadrato è una equazione e non è qualcosa che si sia mai vista. E’ una immagine che si crea nella mente dei matematici, senza la percezione. Fisici e matematici hanno affrontato l’universo senza scandalizzarsi che esso perdesse via via un provvidenziale centro e, semmai, tenendo conto che era l’infinito che li riguardava.

E che li riguardava proprio dove, appunto, non era più possibile eseguire misure di esattezza. Agli estremi, quella dimensione di non finito, assumeva davvero il senso della propria definizione: al confine con il molto piccolo e verso l’infinitamente grande. Hanno misurato cercando quelli che chiamano i livelli di confidenza con i risultati delle loro misure.

La confidenza che possono concedere agli scarti  delle misurazioni è il livello di inesattezza che possono permettersi. Poi si chiedono se gli scarti nel misurare i margini del mondo siano una qualità della materia o l’inevitabile erroneità del proprio metodoImmaginare e capire sono ormai cose differenti da quando è divenuto impossibile tracciare una ‘immagine quantistica’ delle particelle.

Immagine quantistica. Non so come sia che lego quella serie di problematiche alle affermazioni sulle infinite proposizioni psicologiche a proposito della condizione della realtà psichica. Essa non coincide  con una figura esatta, non sta dopo una liberazione. La presentazione del fenomeno psichico, la realtà non materiale del pensiero, ha natura fisica e margini a confidenza variabile.

Non è esclusione di tutto, gloriosa liberazione del segno dal contesto. Fluttua, pretendente ad un  proprio diritto, funzione logico-grammaticale ad esistere. Una equazione. Idea di qualcosa mai vista. Identità (guarigione?) non più trionfo del guerriero imponente. Solo prevalenza del rapporto e ricerca costante delle leggi variabili della relazione.

Le discrepanze, rilevate nella ricerca tra livelli di confidenza propri di differenti scuole di pensiero antropologico, sono l’inevitabile incompletezza e incorreggibilità dei nostri limiti conoscitivi, o la crisi della conoscenza attuale che fondano la necessità di una antropologia differente ed una ricerca ulteriore?

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io non so cos’è la musica


Posted By on Ago 14, 2011

io non so cos’è la musica

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire i sapienti addetti agitavano i piedi intorno al piano di acciaio della cucina e tenevano immobili la lingua e liberi i pensieri ed era vietato riflettere così le mani andavano chiare a segno e i coltelli tagliavano sottili le verdure e i polsi agitavano con ritmo di galoppo le salse fino alla densità di una cadenza di mieli colorati. Miele è dunque la parola che chiarirà il crepuscolo di domani e terrà insieme i componenti del giorno e della notte attraverso il brusio delle voci la lieve masticazione delle cose già quasi del tutto digerite dalle cotture e dalle macerazioni e soprattutto la materia delicata ma inequivocabile degli affetti in libertà riguardo al cuore e alla pancia accalorata e alla pelle rossa di sole e a tutto il resto della vita che arriva puntuale negli appuntamenti serali come si sa a proposito della vita di giovinezza perdurante delle ragazze e dei ragazzi che sono accorsi incerti e trafelati alle sponde del prato.

Il prato è un catino magro e disteso come il corpo di un re giovane affannato dalle corse notturne e dalla febbre e della febbre c’è traccia in qualche albero marittimo posato contro la malaria ma non era bastato da solo. Febbre è la seconda parola insieme a miele ed ha la stessa densità del miele la febbre dalle nostra parti. Dalle nostre parti il plasmodio migrava chiuso nascosto nei globuli rossi di zanzare e pastori e non faceva distinzione e si doveva essere matti a restare. Però si restava. Una razza di resistenti difficili a persuadere a non essere quello che siamo. Le ragazze e i ragazzi qui affittano i crepuscoli con le zanzare di corredo. La musica non serve qua perché regna il vento a soffi acuti – di traverso alla costa: il vento non viene mai di fronte – a perpendicolo del litorale. I musicisti non sanno del vento qua. Studiavano il verso cui disporsi – con il viso obliquo ad un muro: per i fiati, che non sprofondino nell’assenza assoluta di eco. Eco è la terza parola.

La notte della musica bisogna rappresentarsela come una febbre terzana o quartana, una febbre che è arrivata attesa ma sorprendente nella propria potenza, ed evoca il corpo tutto intero pronto a subire: ci vuole coraggio nelle cose, soprattutto alla bellezza. Alla malaria della bellezza, all’invasione dei plasmodi che poi sciamano e affondano  nelle vie venose, allagandoci d’amori plurimi e inafferrabili. Vedrai che tutti ad un certo punto si separeranno da tutto – e saranno finalmente se stessi in una valutazione mentale di conoscenza che poi ce li porterà di nuovo di fronte – e diremo che gli alberi marittimi saranno stati i testimoni di nozze ardenti tra ogni persona e i propri segreti pensieri d’amore. Mordendo gli sformati e il dolce alla ricotta e cioccolato – nel catino magro del prato – gli verranno alla vista come un’illusione guerre di zanzare e regine e barche nel fango profumato – e avranno voglia di essere tutti diversi. Avranno pudore della loro temperatura non proprio ardente e solo i morenti di febbre malarica saranno al loro posto e metteranno a soqquadro le passioni modeste dei senza cuore.

La malaria antica ora lascia solo qualche sortilegio crepuscolare – qualche mattutina evanescenza in brividi e d’altra parte se si vuole dire qualcosa della musica non si può restare lontani dai brividi e dai fremiti e dalla concretezza delle parole riferite alla medicina delle vene e della milza – del bacino – del ventre. E della fonte miracolosa della spuma di mare presente nelle circonvoluzioni cerebrali che – del biancore mattutino – hanno chiazze diffuse in superficie. Ma delle schiume d’uova e burro, e delle foreste subtropicali delle verdure tritate rapprese cotte strigliate e ricolorate negli estratti di carne e albume, e delle mani e dei polsi dei cuochi attenti: di tutto questo si deve aggiungere. Come corsari -che si precipitano sui galeoni impacciati e tronfi di inutili ricchezze- si deve raccontarne precipitosamente a perdifiato. Dei re smunti ispidi di barbe nere di ormoni dell’arroganza e del comando ma smagriti da tradimenti e prime notti bisogna dire per narrare la mitica eleganza delle preferenze erotiche dei cuochi che essi fanno coagulare nelle loro speciali preparazioni le quali devono predisporre lo sfarzo che preluda al gusto del suono. Il suono in parte precipiterà dalla collina.

Tutto si deve svolgere sotto l’elegante silenzio delle ore interminabili dell’estinzione della luce nel cielo mentre il giorno finisce in una esplosione di buio ardente: un eco ribollente sotto la linea di oscurità – in una pentola capovolta che ha sopra la luce del giorno che pesa e preme. Febbre e miele ed eco. Molti allora si ammalano un’altra volta. La febbre torna secondo la propagazione degli agenti infettivi e scatena brividi di piacere subito prima dello svenimento isterico della coscienza che ci lascia svegli a pensare il gusto delle cose inghiottite, i sorrisi appena digeriti nelle guance tese e stirate di comprensione infantile. E si diventa tutti certezza di suono. Ma il suono per adesso non si coglie come stimolo sensibile alle orecchie: per adesso è un’idea nella mente è qualcosa che si sa che si è mossa da qualche parte nella pianura alle spalle o sul mare che si stende subito oltre la fila degli alberi di fronte.

Il suono che ancora non è stimolo sensoriale sta sotto la luce dei riflettori, sotto i chiarori che sono lame di luce accanto agli alberi. Gli alberi ora sono floridi di sabbia umida ma due secoli fa non riuscirono da soli a sconfiggere la febbre. Il sudore sulla fronte dei pescatori delle paludi continua a risplendere: quelle fronti febbrili sono semilune che si accendono al ritmo della terzana e della quartana. I dolori delle articolazioni poi affondavano nella pancia. In questa terra si suona stanotte. Si tiene a mente l’amore per una terra pensando che poco fa  i coltelli affilati dei cuochi affondavano nel ventre di pani e carni e straziavano la bontà dei cibi composti separando strisce di fegati addensati i rotoli di cosce battute e ammorbidite. Il bollore toglieva il resto dell’impossibile nella magia d’acqua nelle grandi pentole che in cucina fanno sempre il big bang nelle loro pance convesse e compresse dove si annida alla temperatura dell’ebollizione l’idea di un tempo zero dell’inizio.

Nella preparazione della serata e per la felicità della notte che sarebbe seguita che doveva seguire che adesso arriva si sono mossi veloci e precisi i cuochi e hanno corso i bambini con i quaderni della lezione per l’estate e ballavano scalzi sotto gli alberi della malaria e succhiavano pasticcini al miele e cercavano di persuaderci a regalargli risultati di addizioni e sottrazioni di divisioni antipatiche perché è antipatico doversi ripartire una vita di cui si vuole tutto per noi. Perché la vita qua è ricca di promesse ora che le bonifiche hanno avuto effetto la vita è un bue arrostito farcito di carni di pernice e miele e di fette luminose di intelligenze guizzanti e di noci e pernici ancora e di fagiani e beccacce e altri uccelli spauriti e saporiti di cui si fanno stragi colpevoli per riuscire a sentire con maggiore dolcezza rotolare dalla collina sulla sinistra la musica di fiati sassofoni e clarinetto basso.

Nella preparazione ci sono state la malaria e la febbre e il miele e l’eco del giorno capovolto nel buio e l’eco del buio che si rivolgeva di nuovo in un ritmo opposto la mattina prima che aprissimo gli occhi. Forse troveremo tutte queste cose nelle strette di mano e nella sfiorare delle guance e in una certa idea di una vita sociale che si apre mentre il giorno di nuovo stasera svanisce sparisce per lasciar esplodere -dall’apertura che il buio fa nel cielo da qualche parte sempre ignota mai individuata una volta per tutte- le parole dei testimoni della malaria invincibile. Le parole della febbre. Le prediche del miele della casa, fatto dalle api delle arnie dietro la rimessa, con i fiori dei limoni che fioriscono ripetutamente, qui. Noi testimoni eravamo zanzare piene di segreti agenti di contagio.

Noi poi eravamo i musicisti quelli che alla fine avrebbero dato il colpo di grazia al toro infuriato del mondo che si precipita sempre contro tutti i suoi figli che dormono e peggio contro quelli che sono ancora da venire che si possono solo contare in anticipo perché non finiscono mai di nascere i nostri figli. Figli come febbri intermittenti di malaria. Ogni tre o quattro unità di tempo noi lasciamo fiorire questi bocci svergognati di speranza con una perizia incosciente ed inarrestabile. Per questo stanotte eravamo qua. Per questo ci siamo lasciati prendere dalla lunga preparazione.

Alla fine quello che penso stasera, che ho pensato ieri sera, e prima di ieri: è che contano solo le persone, che neanche la musica conta poi così tanto al cospetto dell’importanza delle persone. E il palato splendente di sapori diffusi a vagare tra la lingua il vento e le labbra -sapori nuovi che puoi star certo ci renderanno un nome nuovo- forse conta esso stesso quanto le persone e dunque più della musica. Si deve oltraggiare la retorica: per adesso e da sempre che io ricordi tutto è sempre stato prima della musica. Sempre la musica arriva alla fine di tutto. Non vuol dire nulla di più che questo: la musica non è una speciale condizione è una condizione assai difficoltosa.

Anche i musicisti che si sono mossi oramai o stanno per muoversi si sono mossi per un’idea che prima di loro da qualche parte qualche cosa che non si sa che sia si era avviata togliendosi dalla propria fissità precedente. Lontanissima. Alla fine anche loro, tutto il loro mondo e, dunque, tutto ciò che potrebbe essere una definizione della musica è prima della musica. Tutto è già oramai successo prima della musica ed è allora che essa, finalmente, arriva. Ma non è certo che tutto ciò che era in precedenza fosse per la musica. Noi per esempio siamo stati qua per la febbre e il miele e per l’eco che non si spegne. Per la febbrile attività del pensiero, per la densità di miele dei corpi e per le parole che fanno l’eco a quanto non si ferma più ed è indicibile: per questo eravamo qui.

Tutto quello che chiamo preparazione è stato una vicenda di persone e di tre giorni fulminanti di febbre, di magrezza di un re esaurito dalle notti eccessive. E adesso tutto è già accaduto e stasera resta solo uno straccio di tempo ma niente in confronto con i passi possenti di quello che si è mosso da qualche parte -che non so che dire cosa sia- ora che nessuno ancora è arrivato con i suoi strumenti a distrarmi dai miei pensieri e sento solo persone parlare.

Ora -come sempre in questa terra bonificata- lentamente da una fessura del giorno – da una fessura della luce del cielo luminoso che fa il giorno – comincerà ad entrare il buio. Prima piano inavvertito, poi sempre più irruento come un torrente in piena. Poi col fragore di una figura oscura si stringerà addosso a noi l’amante calda composta dell’azzurro che fa qua. Un azzurro rubato che travolge e fa rotolare gli onesti gli innocui e gli impeccabili.

Li atterrisce, gli dice che contano, che anche per loro il buio tinge tutto di oscurità. Io mi aspetto così importuna e coinvolgente la musica che adesso  viene. La musica che è per qualcosa che si era mosso oltre le collina o laggiù oltre l’orizzonte scricchiolando lontanissimo come una idea coraggiosa per la strada. Così mentre la strada si piena e contemporaneamente si oscura quello su cui contare per adesso è tutto quanto è già successo.

Che ci sono state  le persone che hanno cominciato a fare le cose perché avevano sentito che anche altro senza figura e nome si stava muovendo da qualche parte così lontana da risultare invisibile. Ci sono queste persone da ringraziare per questa serata. A queste persone i musicisti devono suonare la febbre e il miele e se sono capaci di suonarla dovranno suonare la loro pietà.

Una pietà piena di gloria per le molte persone per le quali la musica è un eco di quanto sempre lontanissimo e a loro non visibile da qualche parte è uscito dall’immobilità della morte delle cose e in virtù della qual cosa che ora è viva e si muove anche quelle persone si mettono a fare le cose senza sapere un perché. All’oscuro della musica che splende nella mente dei musicisti.

E finalmente adesso i musicisti stanno popolando il prato che magro come un re stento e febbricitante li accoglie stridendo piano sotto i loro passi. Oltre tutto  dovranno dunque anche tener conto di quella stridente accoglienza nel contrarre gli accordi a venire.

“Felice sera”

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foto per concessione di di Cristina Brolli

(la foto del presente articolo è di Cristina Brolli http://cristinabrolli.com/gallery_view.php)

dopo mille e una notte ancora beve e ride e racconta gorgogliando tra pianto e febbrile amore

La vitalità della parola-immagine supplisce alla assoluta difficoltà di essere certi di una immagine della parola-vitalità. Sotto forma di lettere d’amore, per ottenere, al momento, ciò che l’attimo fuggente non concede, vale proporsi la ricerca se proprio la natura incerta di una eventuale immagine della parola-vitalità conferisca alla vitalità la capacità di pensare che si può riprendere un discorso che attraversi il corpo complesso monumentale e a tratti mostruoso del nichilismo. Un discorso capace di combattere le batterie angeliche della pretesa di innocenza della filosofia fondata a forza sulla poco vitale ed usurata assunzione che la filosofia sarebbe un pensiero disinteressato.

La capacità di immaginare una vitalità a fondamento della genesi dell’immagine deve essere scaturita come immagine di una capacità di ricominciare sempre la fondazione soggettiva del tempo dopo la ‘morte’ di dio (Nietsche) che nel pensiero filosofico si esprime nella formula ‘caduta della trascendenza’. Sono di ‘oggi’ le domande di un ebete girovagare attorno al tavolo nero enorme, descritto come destino che mi sono scelto, per la ricerca dopo la caduta della trascendenza. Sono queste alcune delle domande come passi attorno alle aree scure lucide e della masse dei volumi aperti e delle aree bianche dei fogli non scritti e grigie dei fogli scritti.

Esse sono: si sa immaginare la ricerca medica di una fondazione della soggettività come fisiologia del pensiero alla nascita? La ricerca medica a proposito della genesi del pensiero dalla biologia, ci assolve dalla solitudine della disperazione nichilista? Perché la ricerca sulla natura del pensiero e sull’uomo è un ‘attraversamento’ fino ad ora riservato (sia nelle fatiche gloriose sia nelle altrettanto glorificate conclusioni) ai mistici? Vale pensare e immaginare e ‘indovinare’ una scienza medica dei fondamenti del pensiero del tempo e del suono e del movimento? Come resistere al nichilismo il tempo necessario a fondare una medicina come scienza di una integrità alla nascita? Immaginare è scoprire con esattezza e nominare una nascita senza negazione? La negazione viene dopo quando gli occhi con la visione di figure realizzano una propria insufficienza sul pensiero senza coscienza del primo anno di vita?

Realizzare per immaginazione scoprire e indovinare è una caratteristica specifica della fisiologia della biologia cerebrale umana che si oppone all’irrealtà dell’idea di una genesi dal nulla dell’immateriale del pensiero? Allora è decisiva la denuncia dell’alterazione del pensiero che nomina il nulla come esistenza di una irrealtà fuori di noi. Questa denuncia comincia con la definizione di una vitalità del pensiero che immagina indovina e scopre la possibilità di cercare le forme della genesi del pensiero dalla materia. Distinguendo questo dal ‘materialismo’ che è ideologia e non è scienza. Una origine soggettiva non fa della vita un percorso di mistici nel deserto, fa l’ offerta di una aleatoria certezza. Il regalo impacciato del mazzo di fiori e frutta del contadino. Il mazzo ben composto delle aggraziate cose delle creature umane.

Certo che il ricominciare ogni momento la conoscenza avventurosa è ogni momento a-sistematico: è evidente che dire ‘…ad ogni istante t’amo…’  in amore è regalo. Ma nella vita attiva del pensiero è fondazione è dichiarazione di una riproposizione di mettersi al lavoro, di distinguere l’irrealtà del nulla dalla immodesta conclusione dell’avventura biologica nella morte fisica, e di separare senza confusione il tempo di mille battiti d’ali della dichiarazione d’amore, dal brusio ragionante della materia appena dietro la trasparenza scura di occhi infervorati e febbrili di una che pensa di andare via per sempre dai propri fallimenti. Il ricominciare ogni momento la conoscenza avventurosa è, ogni momento, un gesto asistematico collocato sulla coda dell’iguana nella teca di vetro, cadiamo dalla coda dell’iguana come perdiamo la certezza della trascendenza.

Il pensiero realizza l’immagine è come la febbre che fa il picco lieve rapido e bruciante di un aumento del calore avvertibile sulla fronte e ai palmi semiaperti e improvvisamente il pensiero è alle soglie del movimento e siamo vivi e lasciamo la seggiola degli infermi e ricominciamo a muoverci come la marea dell’oceano e facciamo un’allegoria e il mondo è nelle nostre parole silenziose e alla fine non servono e noi siamo parole che non servono che tornano ad essere pensieri non ricordi rimossi e ritrovati ma pensiero che ritrova la propria inutilità perché è il primo anno senza la coscienza e forse senza la coscienza della figura non si può agire la negazione.

Il ricominciare ogni momento è l’atto inevitabile di soggettività che ci regala la nascita più che la filosofia, e che la ricerca medica rende forse plausibile, prima di inoltrarsi senza provviste nel deserto. Il ricominciare, il rifondare il tempo soggettivo è una postura tra l’attesa appassionata del corpo dell’amato che arriva e la pietà di chi ha perduto l’unica certezza: non sai se di identità o di presenza dell’altro nel mondo. Asistematica è l’avventura della febbre al pensiero immateriale di ‘lei’. E se la febbre -quella febbre – non è malattia, al contrario quel pensiero è affetto dalla passione ( fissazione ) per una figura e sarà per questo che l’amore e la passione troppo genericamente intesa non sanno opporsi al misticismo. E invece viene l’idea che la febbre sappia dar luogo alla necessaria temperatura concettuale.

Il raggiungimento è ritrovamento della fisiologia di una forma di pensiero in condizione di assenza della coscienza, che non genera la ‘negazione’ poiché quel pensiero, in assenza di coscienza, è che ‘… la vitalità della (parola) immagine supplisce alla impossibilità di riferirsi ad una immagine della (parola) vitalità prima della quale si ha come origine fisiologica una febbre, il picco di un aumento bruciante di temperatura sulla fronte e nei palmi semiaperti…’ ma non è fissazione ad una figura. La vitalità si genera in una strettoia, in una compressione, all’apice di un picco che supera di pochi gradi la norma e la necessità, subito fuori dal regno della biologia pura, che della necessità e della omeostasi somato-sensoriale fa l’impero delle leggi uniche dello ‘scambio’.

La vitalità è l’attività appropriata della materia che fa un picco lieve rapido e bruciante, segnalando la lotta iniziata a tutto campo, o inaugura il via della maratona nel deserto? La vitalità è proprietà della biologia cerebrale dell’uomo sulla quale si fonda e si sostiene la vita mentale, che fa del nostro pensiero originario la fisiologia di una immagine e non la rassomiglianza senza identità di una figura? Senza figura il pensiero, in assenza di coscienza, può davvero fare la negazione o per certi istanti e giorni, come sembrerebbe adesso più ragionevole concludere, nelle pertinenze della nascita degli esseri umani la negazione non è possibile?

Può essere plausibile che sia quando la coscienza tardivamente riflette senza averne i mezzi sul pensiero di un primo anno privo di coscienza, che essa coscienza incorre in un doppio disastro conoscitivo? Il primo disastro che il pensiero sarebbe congenitamente difettuale e il secondo disastro che esiste un irrealtà, un nulla fuori dell’uomo? E allora si parla di nulla fuori dell’uomo per annullare una fisiologia del pensiero umano senza difetti? Scrivo: ‘… dunque amore mio dovrò difendere la salute della parola nascita con la vitalità della parola immagine….’  Scrivo ancora ‘….accanto alla nascita sta la alterità ( tu che sei l’alterità più amata ) come certezza e non come parola che designa una consapevolezza cosciente…’ La sapienza del pensiero in assenza di coscienza è il tratto breve e folgorante di attività mentale che fa sul viso l’arco della felicità come si potesse portare il pensiero al movimento.

E’ dall’aver realizzato il pensiero al movimento, lungo un primo anno di vita senza coscienza, che nasce la coscienza come cercare a partire da poco e traversare la stanza illuminata e girare l’angolo e scoprire figure intere di uomini e di donna da amare successivamente per il sempre che viene. Di questi tempi si lotta giorno e notte di coscienza e di pensiero, si lotta di domande che si concludono con un ‘amo’ rovesciato, si lotta coperti di arancione di questi giorni strani. E’ soprattutto lotta di certezza che il paradiso è l’alterità. Il verde delle bandiere africane è il paradiso e il paradiso è il verde di una foglia di salvia su una sfarzosa pizza appena sfornata.

E così andando avanti si lotta di certezze senza memorie, di paradiso che è pensiero che è mano appiccicosa di latte traboccato tra seno e labbra beate ed è sicurezza di saper afferrare uno sguardo fuggevole e attaccarcisi per vivere e dormire e ricominciare sfacciatamente ogni volta, senza alcuna riconoscibile parola d’amore. Nei prati di girasoli, alle albe molteplici che i neonati ripetono ogni poche ore, nella luce atmosferica di tende che addolciscono l’incanto omicida del sole nudo, e sempre sotto una pioggia di amorevoli suoni.

“La differenza tra immaginare e ricordare e’ nel semplice e feroce tuo sapore” (lettera di David Hilbert ad Anna Taylor) … ecco che poi leggo per caso questo e piango perchè comincio a sanguinare dalle dita e macchio tutta la mia coscienza di aver fatto il mio dovere ma il mio dovere è nella responsabilità del coraggio di buttare tutto a mare anche la chiarezza appena raggiunta ( ma era un’illusione come si vede…) se arriva qualcosa di inatteso e bellissimo che, come si deve, si mostra si racconta si dice per essere appena un poco migliore nel momento che si diventa del tutto trascurabili per trovare domani migliore anche te perchè anche io non voglio mai perdere tempo….

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le sere con l’aria addossso


Posted By on Apr 17, 2011

le sere con l’aria addossso

…resta a lungo le sere con l’aria addosso sulle braccia nude, e le parole che vengono su dalle punte delle dita fino alle spalle e al centro del torace, che sotto contiene i bronchi e solo parte del cuore, la curva del ventricolo destro, non di più. L’arco esterno del ventricolo destro si spinge oltre i bronchi verso la linea mediana ed ha molto a che fare con il respiro, in più è sostenuto dal diaframma e galleggia, fluttua su e giù, mettendosi sottosopra insieme a noi ad ogni sospiro. Le sere in cui si resta lungamente vicini hanno a che fare con l’anatomia e le funzioni della biologia, e con le spinte degli organi interni, quelle delle contrazioni cardiache e le due differenti spinte del respiro una sussultoria del diaframma e una trasversale, che insieme dilatano il volume del tessuto alveolare. L’aria addosso, il buio, il profumo, le palme delle tue mani, le risa e i pianti dei ragazzini e i papaveri nascosti nel grano fanno, da fuori e da ogni parte, una spinta differente .

L’aria esterna spinge la superficie cutanea, le estremità delle dita, le labbra al gelato di crema, i delicati incroci con mani delicate, i corpi resistenti dei cercatori sui monti dove nascono i fiumi, i loro sogni tragici sulla fine del mondo, i loro sogni felici sulla vittoria della battaglia e le immagini incomprensibili delle fantastiche immersioni nella pancia dei galeoni. L’aria esterna tiene sotto la sua pressione variabile le figure, l’orizzonte, il deserto, i cammelli, i guerrieri, questo spazio sconfinato, e la superficie senza ombre della steppa e  infine l’aria come una mano si accalca – che ha il disegno esteso dell’io altrimenti insondabile dell’uomo e della donna – intorno alla pelle del viso, delle dita successivamente fino alla pelle al sapore di gelato sui polsi e sulle braccia, dove distrattamente abbiamo lasciato gocciolare la crema densa e fredda che spumeggia al vertice del cono croccante. Il mondo intero – cadendo precipitoso da ogni parte del cielo – alla fine spinge su due gocce di sangue esplose silenziosamente nel microcosmo della linea tra la pelle forte del volto e la delicatezza del labbro inferiore.

Il sangue è perché c’è scappato un morso, per tacere e non rivelare il tuo nome che stavo per pronunciare – mentre leccavo con l’eccitazione di una fiera la montagna dolce – quando sei spuntata, tra la gente accalcata intorno alle vaschette gelate del distributore della menta e della panna, al momento meno opportuno. Sono corso alla cabina di legno e acciaio e rimasto accucciato nella scia bianca della barca che beccheggia al terremoto del respiro traverso e oscillante. Ho preso carta e penna poi tento un discorso vago sulla vitalità di base che non ha immagine,  sulla variazione dello stato fisico della biologia che le corrisponde ed è prima del pensiero. Sul pensiero che deriva dalla realtà materiale, dopo che essa ha acquisito la vitalità che è definitiva e irreversibile caratteristica umana di non rimanere inerte agli stimoli indifferenziati dell’aria esterna, della luce, del calore e del freddo cui opponiamo poi per sempre, fino alla fine, la costanza della scrittura senza un oggetto e l’invenzione di un amore di ragazza cui esprimere focosi dubbi, inutili gelosie, e invidie possenti. Metto insieme sostantivi ed aggettivi, femminile e maschile, creazione e decostruzione, per trascrivere la pressione dell’aria e del buio sulla pelle e gli occhi, la gradevolezza il profumo i veleni i ginepri amari, gli allori e le albicocche, il ginger assoluto, l’acuto di pino tra palato e faringe.

Tutto questo per reagire al sangue esploso sul labbro inferiore, all’incidente quasi mortale di un giorno senza te, alla disgrazia di un movimento freddo senza spine appena tiepide almeno, all’ingiustizia modesta e felicissima del mio desiderio pop, alla mia voglia postmoderna di noi come creme gelate dense e fredde. Il labbro aveva sanguinato perché eri comparsa all’improvviso, e l’aria esterna piena della tua figura densa e profumata aveva sussultato e spinto con grande pressione, cosicché io ero diventato poco significativamente romanzo di formazione e visione del mondo e tutta la cultura letteraria all’acqua di rose delle nostre aule scolastiche si era riversata addosso alla camicia di lino immacolato che siamo noi nella mia mente, e mi ero ritrovato con fregi delle isole tropicali sul torace. Dalle labbra appena sanguinanti tornavo all’inizio, a rotolare sul terreno di una anatomia e una topografia romantiche, all’umanesimo scientifico del cuore nel petto, alle olimpiadi acquatiche in cui tutti nuotano – finalmente agili nella mia illusoria rappresentazione – nel volume di un pensiero alla crema e cioccolata al caffè e ai frutti di bosco, nel mar rosso del pensiero di sangue e di profumo, nel mare vociante delle strade africane di questo attuale confuso risorgimento, in quel mare di poca imprevista allegria di rivoluzione cenciosa, che le piatte ragionevoli analisi degli accademici occidentali – quelli dell’impossibilità assoluta del desiderio – non avevano saputo prevedere.

Tutto si è svolto in poche battute delle nostre vite: la mia di cui sono testimone e certo anche la tua, seppure tu – nel corso dello svolgersi di questi pensieri – non sei mai stata qui se non nella traccia di un ricordo di una sera dell’estate scorsa. Questa ricreazione di noi  è una dimensione di attività umana, la tanto indagata vitalità che lega funzioni diverse per creare una profondità adatta a sentire la densità del tempo, per non lasciare la linea delle cose senza immagini ridotte a figure geometriche piatte come l’ombra degli obelischi, quando anche i palazzi delle accademie proiettano superfici scure di fronte alla nostra annoiata perplessità, nei giorni in cui siamo costretti a misurare il tempo seguendo nella polvere la rotazione delle ombre senza la potenza del volume. L’attrazione gravitazionale di tre gocce di sangue sul labbro fuga i fantasmi e conferma il passato:

” …la ricreazione di te nel ricordo ha il voluminoso significato del buio alla crema… “

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quasi più mondo


Posted By on Mar 13, 2011

quasi più mondo

Non è quasi più mondo né quasi più tempo qui. Semplicemente qui è quasi il non essere. E’ un orrore qui. Un orrore politico. Un orrore estetico. Un orrore linguistico. Un orribile generica approssimazione. E tutti credono di nominare tutti questi tipi diversi di orrore con distacco.

Le rose puntute, i fragili sogni in pasta vegetale, la tua pelle -che potevo ferire- come possono essere dette, qui? Da questa indescrivibile abissale distanza ti parlo. Ma, certo, anche da una inquietante prossimità all’oggetto della mia preoccupazione.

Qui si dice l’orrore con toni casti e spudorati. In notti delicate – nelle loro manifestazioni di temperatura e colore – certe denuncie risultano contraddittorie. Si rischia di legarsi irreparabilmente all’oggetto odiato, se non si riesce a isolarne la caratteristica nella mente.

Ho scelto una canzone.

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