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due forme di testo


Posted By on Lug 14, 2013

Ombra

“L’Ombra Della Parola”
©claudiobadii
per
OPERAPRIMA

Ci sono amori imbarazzanti che subisco, quasi. Sguardi che avvisano cedimenti rapidi, rese onorevoli più sono disonorevoli, me come una fortezza nella tormenta loro salvezza e rifugio. Amori imbarazzanti che partono da molto lontano, tanto lontano da non poter rintracciare i movimenti primi. E allora nessun orgoglio a causa dello smarrimento dello sguardo mio. Ricordo oggi il funambolo e il clown e la poesia abissale che frammenta la narrazione. Restare assieme a costruire corde di cotone per tenere le navi. Stirare cavi tra grattacieli senza ragionare gran che. Di peccato in peccato con il rimpianto del rapporto che si sapeva non avremmo fatto fisicamente per una serie di motivi la maggior parte inspiegabili. Abbiamo cucito confezionato i nostri paracadute da portare addosso. Sei tu il mio e la tua distanza da me è il corpetto protettivo. Adesso si sa delle cose ‘in noi’ si sa dell’immaginare e del fare senza produzione di oggetti. Si studia chiedendoci quando sarà stato che si è coniata la parola ‘lavoro’ e comunque ci pare che vista adesso non è una grande trovata, che la parola ‘prassi’ sembra migliore. Più umana. Camminare sulla fune non è lavoro è prassi: si fa perché se ne è capaci. Ciascuno secondo le proprie capacità si diceva. Il lavoro ‘si deve’ anche se non siamo bravi, anche se si sbaglia. Il prima del lavoro (si sogna durante la ricerca) è quando c’erano stanze grandi con tende a separare gli ambienti. Questo ‘prima’ sognato non è un ricordo. Noi non c’eravamo. Neanche quell’abitudine c’era mai stata può darsi. Abbiamo pensato adesso che può essere successo. Diciamo che l’inconscio non è vero che costruisca miti. Che non è quella la specificità. Che esso è pensiero umano insieme alla coscienza e che essi insieme riempiono la stanza seppure si è cercato di dire che siano differenti ma sono ciascuno rispetto all’altro dall’altra parte di un tappeto disteso nella stanza e sono ambedue pensiero  che la riempie, la stanza, poiché il tappeto non prende che una sottile striscia del volume globale. Non corriamo sul filo adesso e rischiamo in modo differente la definizione di noi, in modo differente da allora. Subiamo imbarazzanti amori amori svelti improvvisi chiarimenti e si accelera constatando che non vuol dire che abbiamo fretta. Dico che li subiamo poiché non c’è un altro modo per i regali che non chiedi e non aspetti se i regali sono brevi momenti. Te ne stai là con gli altri e nessuno vuole quasi nulla e non c’è l’intemperanza della richiesta. Si dice che è libertà senza l’uguaglianza e la fratellanza che si diceva dovessero sempre stare accanto. Che è libertà e teoria. Cioè teorizzazione e libertà di pensiero. L’uguaglianza non c’è e non ci serve, quella è (dovrebbe essere) garantita dalla legislazione dei diritti. La fratellanza è temporaneo stare assieme. Ma torniamo alla stanza divisa dai tappeti, alle stanze colme di pensiero che si dice inconscio e cosciente: là noi siamo i tappeti piegati sui fili divisori, noi parlando siamo i profili di tela annodata. Parlando di due tipi di pensiero noi lasciamo che si crei l’illusione che un paravento che impedisce la trasparenza della vista possa dividere in modo certo la massa molecolare dell’aria. Così siamo stati per molto tempo ma adesso riposiamo. Come in una traduzione le parole si frappongono tra due forme di testo ma nessuno sa quale era stata la lingua originale. Nei due versi ti amo senza sapere da che parte delle parole che ti scrivo riposa, come sul cuscino, il tuo bel volto. Lo spirito mi confonde fino a che un tuo bacio corre con il rumore forte delle pale di una macchina volante di avvistamento e salvezza nei tempi di pace. Le regalità di dio sono gentilezza e generosità.

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….(l’immagine si trova qui: http://www.undo.net/it/mostra/148775)…

In tal modo l’illimitatezza dell’apeiron(*) cominciava a manifestarsi come un plausibile segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina” (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93)

Dunque c’è, anche nella inesauribile ricerca, il sospetto di una più infinita espressione di divina immanenza. Questo chiedere, e chiederci a vicenda, sarebbe questa insistenza illimitata la prova d’immanenza. L’estendersi di trenta anni gli uni di fronte all’altro è l’apeiron, il senza limiti, la forma perfetta del non trovare mai la conclusione, il percorrere indecidibile: tutto questo un plausibile segno di illimitatezza divina, che risiede in tutto ciò che, a vederlo che si diffondeva in non rappresentabili modi, abbiamo cercato di comprendere osservando e proponendo gli strani disegni delle superfici topologiche. Avremmo invece, dunque, percorsa simbolicamente una assai più precaria ed incerta estensione? quella cioè delle riflessioni dei filosofi medievali? Noi siamo stati sull’area di una superficie (affascinante ci pareva!) che è solo il discorso che non avverte di stare girando attorno all’implicito che lo agisce? Dobbiamo concludere già ora che in fondo si è pensato per via che non sapevamo pensare?

Ho avuto paura, mio amore. Perché il pensiero mi è apparso un atto di sola soggezione. Più acutamente: di una soggezione invisibile e inconoscibile. Soggezione immanente. Allora sono ricorso alla nozione di affetto che mi deriva da ben differenti circostanze. In quelle circostanze l’immanente soggezione diventa estensione di parole. Sai, i prati di viole e di malva e di altre piante officinali. Mi sono figurato che i filosofi medievali avessero pensato di tenere l’amore in superficie, e implicito dio. Che avessero lasciato che ci amassimo pure, restando distratti dal dio implicito proprio nell’infinità di quegli amori indefiniti. Fecero anche una morale rigida perché restassimo concentrati nevroticamente su quel sentimento peccaminoso. Purché restassimo nello stupore amoroso con l’idea di dio infissa saldamente dentro di noi, dentro i nostri atti. Cosicché loro potessero restare confortati che l’illimitatezza dell’amore, l’indicibile del sentimento, l’inesauribilità della domanda, l’idea di mancanza propria del desiderio erano tutti segni dell’esercitarsi poderoso di una qualità di divinità incardinata nell’essenza umana.

Nella paura che ho provato mi è anche sembrato che, alla fine, tutto fosse diventato un po’ differente dall’inizio. E’ stata l’idea di te a limitare la paura. Hanno pensato dio dentro di noi: vabbè, mi dicevo, hanno affermato che è impossibile sfuggire, col pensiero filosofico, alla divinità che si annida in noi secondo una delle ipotesi del pensiero filosofico stesso. Dio è immanente a tutto, mi sono detto poiché è immanente al tutto come è nel pensiero filosofico. Poiché il pensiero filosofico, logico e razionale, è già pensiero divino. Esso, divino, stabilisce o preordina la propria immanenza nella propria trama secondo argomenti indefiniti e infiniti, secondo accostamenti ambigui tra i propri argomenti.

D’altra parte, un poco meno spaventato, ho provato simpatia, ho notato il loro pensiero poderoso. L’applicazione continua, ho immaginato. E poi il fluire delle loro parole, quando l’idea diventa persuasiva (non necessariamente vera ma di una persuasività incombente). Ho avuto simpatia per quei pensatori. E’ evidente che hanno pensato appassionatamente alla sacralità del procedimento della conoscenza. Alla sacralità della forma razionale e logica del loro pensiero, che hanno reso immanente all’idea della parola ‘verità’. L’hanno fatto con tale forza, che hanno potuto esprimerlo con parole che comunque hanno la qualità di apparire pensieri. L’hanno fatto raggiungendo parole di tale qualità che possiamo dire di fatto che molto spesso esse sono proprio pensieri, e che non è una trovata retorica, ma è una affermazione di oggettività semantica.

Ho pensato che essi hanno raggiunto il bellissimo risultato di un gran bel tono di linguaggio, un linguaggio complessivamente convincente per la sua composizione verbale. Ho pensato, però, che per capirlo davvero quel linguaggio, e per apprezzare l’umanità turbinosa ma anche l’irruenza spiritata e spirituale di quelle argomentazioni, dovevo far ricorso ad un ricordo. Mi stava venendo alla mente, di fatto, mentre leggevo quegli argomenti, quella volta che dicesti che avevi fatto un viaggio ‘meraviglioso’ e non finivi più di dire quella parola: ‘meraviglioso’…. Che non finissi più di dire quella parola significa che, pur avendola pronunciata una sola volta, essa era talmente ben formata che pareva potessimo seguirne le onde sonore fino ai limiti dell’illimitato universo. Nel viaggio avevi trovato alberi e acqua. Si ascoltava l’esauriente sapore d’albero nell’acqua sulle tue labbra, e l’acqua, caduta dall’albero, che diventava la sicurezza di piccoli sassolini salati sul palato, chiusi in bocca.

Io ora posso leggere i pensieri dei filosofi medievali come quei sassolini. Mettendo insieme i tuoi racconti con le loro riflessioni posso farmi passare la paura di cadere nell’irrealtà della divinità immanente, nell’irrealtà del pensiero religioso. I pensieri profondi e appassionati dei filosofi sono frammenti di universo. Sono frammenti di universo quei sassolini che tu riversavi in me durante gli appuntamenti: che in verità avevo progettato perché le nostre ricerche potessero salvarci proprio dalla confusione che quell’amore potesse essere segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina. Il nostro amore per la ricerca doveva distinguere la scienza del pensiero senza coscienza, dall’implicazione della divina illimitatezza.

Dovevano realizzare, praticamente, l’immensità della conversazione tra noi. Pensavo: ‘Tra noi potrò dubitare di me, della mia potenza di pensiero, come fossi tu la divinità. Non oltre’. Succedeva comunque che noi dubitassimo, ogni volta che trovavamo parole che erano pensieri. Nello stesso modo i filosofi medievali, presi totalmente dall’assunzione del discorso filosofico fino nel ventre divino, si perdevano sempre in un delirio mistico. Sono ricorso a te durante lo studio, perché la sessualità del corpo femminile vicino a me potesse evitarmi il misticismo. Per altro non sei servita a placare la frustrazione della mia arroganza, quando ho visto assai bene che, tutto ciò di cui da anni ci occupiamo è del resto, e da menti assai potenti, già stato preso in considerazione.

Con simpatia mi chiedo che ore dovevano trascorrere monaci e alberi fioriti e viandanti al sole e all’acqua. Pensavano dell’illimitato l’indefinitezza, come noi pensiamo all’infinità delle ricerche da fare, anche nelle cose sussurrate, anche nelle mimiche del rimando della procrastinazione, anche nelle strategia innocenti di dire ‘non ancora…non ancora’ per determinare ancora un poco di tempo. Dunque secondo il discorso dell’immanenza dell’indefinito dio vince, si appropria del discorso d’amore. Ma ora mi dico che, ‘no si appropria del discorso quando esso finisce di dire altro e smette di esserlo, un discorso amoroso’. Dunque è giusto ed è necessario che si vada avanti nonostante le difficoltà di incontrare così grandi intelligenze. Quelle filosofie così complesse. Quelle parole pensate, che diventavano esse stesse il pensiero che erano, che si sfrangiavano, come diffrazioni, attorno alle cose pensate e ne dicevano il nucleo e finirono per disegnarne l’arcobaleno.

Ho avuto paura leggendo dell’infinito in atto come la forma per eccellenza. “Essa è una materia infinita, indeterminata, eterna, indistruttibile e in continuo movimento.” (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93)

Poi un attimo di ripensamenti nell’etimologia: “Secondo Giovanni Semerano invece, ápeiron starebbe a significare fango, polvere e terra. Il che sarebbe molto più in linea con l’idea di arché degli altri componenti della scuola ionica.” (Wikipedia) L’idea della polvere e della terra, la filosofia della natura, l’origine materiale anche del pensiero e anche delle parole che derivano dal pensiero per esprimerlo. L’etica dell’etimologia, la morale della derivazione del pensiero dalle cose fisiche.

E poi, è pur vero che “.… l’illimitatezza dell’apeiron cominciava a manifestarsi come un plausibile segno, nel mondo, dell’esercizio immanente dell’illimitatezza divina”… ma, leggendo oltre, …l’illimitatezza divina assunta nella proposizione immanente come indefinitezza dell’infinito in atto fa una “confusione rischiosa perché l’infinito dio e l’infinito apeiron dovrebbero pur mantenere evidenti le loro opposte nature per chiunque si ponga nell’angolo visuale, pur illusorio, del dualismo fondamentale di male e di bene, di limitato e di limite, di negativo e di positivo”. (Paolo Zellini – ‘Breve Storia dell’Infinito’ – Adelphi – pagina 93). Questa immanenza, mi par di capire, rende indistinguibili proprio le qualità dell’infinità divina di cui essa sarebbe implicita manifestazione. Essa infrange “ almeno provvisoriamente le stesse leggi della creazione, consistenti in una  contrazione dell’infinità di dio nei limiti della forma, ovvero in una correzione, istante per istante, dell’indefinitezza dell’apeiron, mediante i precisi contorni di una figura assegnata.” (ibidem)

note: (*): ápeiron: l’etimologia più condivisa fa risalire il termine al greco a («non»), e péras («limite»), nella forma peiras del dialetto ionico di Mileto rappresenta, secondo la filosofia di Anassimandro, l’archè cioè l’origine e il principio costituente dell’universo. Wikipedia.

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quello che varia


Posted By on Gen 26, 2013

Leggendo in giro ho trovato questo articolo, tra i tantissimi che esprimono, per scoperte successive, la strada verso l’amicizia definitiva tra biologia e pensiero, l’origine materiale della vita mentale, il tramonto del dualismo oppositivo, la possibile soluzione di una dicotomia. La cultura è attività umana operante, è un agente con effetti di modulazione su organizzazioni anatomo-biologiche, che forse possiamo definire come funzioni. Le funzioni sono abilità. Gli esseri umani hanno abilità definite e specifiche. Quelle abilità sono segni di irreversibilità, che ci contraddistinguono. In questo mondo -ben protetto dalla esatta definizione delle abilità di cui ogni specie è proprietaria- è evidente la sterilità di certe opposizioni di principio, che sono contrapposizioni dicotomiche. A lungo, ma transitoriamente, le ipotesi teoriche possono differire: poi sempre si accordano su conclusioni, che sono scoperte ulteriori. A tener presente questo dato, l’eccesso polemico è un atteggiamento psicologico dei ricercatori e degli scienziati. Il benessere personale e la nettezza delle motivazioni sono indispensabili agli scienziati, per muoversi lungo la tessitura neurale altrui. La trama di quella tessitura è l’altrui pensiero. Esso è la funzione variabile alla base di inconscio, coscienza e comportamenti.

Anche l’idea della necessità di benessere personale, e di nettezza delle motivazioni degli scienziati, non è che il pensiero (mio), che debba esistere un certo schema sinaptico, nel labirinto scintillante di arazzi neuronali che costituiscono, in suggestive stratificazioni, la materia cerebrale dei ricercatori. Un articolato ricamo si genera durante l’attività mentale, e continuamente si trasforma, nella realtà materiale, sotto l’influenza su di essa delle nostre culture individuali. Accade mentre esploriamo le funzioni corrispondenti al benessere personale e alla nettezza delle motivazioni di esseri umani della nostra specie (gli altri). Gli scienziati sanno dell’azione della cultura e dei suoi effetti di modulazione sulle loro medesime organizzazioni anatomo-biologiche, corrispondenti alle funzioni del loro pensiero. Lo sanno: ma non riescono ad averne coscienza. Non hanno coscienza di quanto sta avvenendo in loro, seppure siano certi che in loro tantissimo avviene che essi stessi chiamano la loro identità. Ma essa, che è la possibilità della loro intera vita non confusa, è anche un limite fisico alla loro capacità di conoscenza di sé.

Allora scelgono di osservare i fenomeni oggettivi della funzione cerebrale negli altri. Scelgono di indagare coscienza inconscio e comportamento altrui. Lo fanno attraverso  denominazioni lessicali, attraverso la ricerca di certe parole, poiché sono le parole la misurazione esatta di quanto deriva come linguaggio, comportamento, pensieri coscienti e sogni, dagli accadimenti biochimici: le parole rivelano le variazioni della trama sinaptica degli altri. I cercatori dei fenomeni della vita mentale scrivono, con le parole piu adatte che riescono a trovare, le modulazioni emotive che essi riscontrano nelle emozioni e nei comportamenti altrui, che corrispondono a schemi funzionali: una volta fatto questo possono finalmente riportare il materiale del loro studio, a dati corrispondenti di chimica e di biologia, di elettrostimolazione e di secrezione neuroormonale.

Poi aggiungono altri segni, altre misurazioni sottili, altre parole: esse devono differire dalle parole precedenti, dire differenze rilevanti dai risultati delle ricerche prima esperite. Così gli scienziati potranno ulteriormente separare e scegliere. Gli scienziati e i ricercatori, con questo modo di progredire, con questo metodo delle parole, nominano gli affetti e diventano certi di quello che accade nella vita materiale della mente. Essi dicono che c’è una origine materiale del pensiero. Essa si rispecchia nei segni pittorici e grafici della scrittura. Gli scienziati stessi, a loro volta, somigliano ai poeti: con quella loro strana certezza che c’è una rigorosa corrispondenza tra schemi anatomo/formali e scienza dei sentimenti

Così possiamo scorrere, senza paura di approssimazioni sentimentali, le parole della poesia della diagnosi della psicologia evolutiva. Enumerare le proprietà specifiche della specie umana: scrittura, lettura, comprensione e generazione dei segni, somiglianza, differenza, accordo. Possiamo cogliere, nell’ambito di un uguale patrimonio specie/specifico, l’alterazione della funzione: essa corrisponde ad un degrado dei toni affettivi delle parole. Il degrado è inteso quando le parole scivolano verso il freddo. Il freddo si pone all’opposto del calore, che è alla base delle funzioni che generano i legami. Il calore è per l’agitazione d’amore.

Forse c’è una eccitazione nella attività fisica delle particelle, in certe aree cerebrali, quando proviamo investimento e desiderio. Ma come si passa dalla diversità senza malattia, dalla separazione senza controllo -al loro opposto: la diseguaglianza senza interesse, l’uguaglianza senza simpatia, l’identificazione senza amore, la sostituzione piena di odio? E come indagare sull’altra parte della ricerca: quale deve essere la funzione, la tessitura neuronale nello scienziato, che gli assicuri pensieri chiari e sapienza di distinguere? E’ nella competenza linguistica l’evidenza della acquisizione della sensibilità e della conoscenza del ricercatore?

La diagnosi ha una qualità di valutazione esatta in termini psicologici. Quando si parla di dicotomia, rabbia, disaccordo, biasimo, isolamento aggressivo, ritirarsi disprezzante, autoreferenzialità…. Sono alcuni dei meccanismi di difesa di un rapporto infelice.

Il pensiero dei ricercatori deve ideare ipotesi di azioni dentro l’architettura fisico-chimica della biologia cerebrale. L’immaginazione deve essere in grado di pensare un accordo possibile: tra psichiatria e scienze umanistiche, tra azione fisica della lettura e della scrittura, tra azione invisibile del pensiero e le nostre consapevoli intenzioni d’amore. Tra le nostre intenzioni d’amore e la concessione di una nostra iniziativa alla ricerca degli affetti dell’altro per noi. Un giorno transfert e contro/transfert, i difficilissimi termini di una relazione, che non si lascia mai indirizzare precisamente secondo utilità efficienza e ragionevolezza, si comporranno. Quando avremo ammesso che, nella genesi materiale del pensiero, sta la probabilità di immaginare una realtà umana per adesso inesistente. Un sasso colorato abbiamo lanciato nel cielo, ed esso non cade più. Sta finalmente colorando tutto ciò che eravamo certi di non riuscire ad immaginare. Il sasso lanciato nel cielo colora gli abissi sopra di noi dei toni caldi e densi della nostra incoscienza.

Il cervello e la lettura, un meccanismo universale (“Le Scienze”- edizione italiana – gennaio 2013)

 

“Che si abbia a che fare con parole scritte in alfabeto latino oppure con gli ideogrammi tipici del cinese o del giapponese, leggere coinvolge due sistemi cerebrali universali, a prescindere dalla cultura a cui si appartiene. A scoprirlo è uno studio condotto da ricercatori dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (INSERM) francese, dell’Université Paris XI e dell’Accademia delle Scienze di Taiwan, che ne riferiscono in un articolo a prima firma Kimihiro Nakamura pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

La padronanza del linguaggio scritto non è un’abilità innata ma dipende dalla capacità, mediata dall’educazione, di apprendere regole che collegano codici scritti, suoni e significati delle parole. A livello neuronale, imparare queste regole comporta alcuni cambiamenti strutturali e funzionali, soprattutto nell’area della corteccia visiva ma anche in altre regioni del cervello. La nostra capacità di risposta efficiente viene tarata su una specifica modalità di scrittura.

Che i circuiti attivati dalla lettura di un sistema di scrittura squisitamente fonologico (come quello dell’alfabeto latino) e da uno ideografico (più legato a un elemento pittografico) fossero gli stessi non era scontato. Studi su soggetti orientali normali e dislessici, infatti, avevano indotto alcuni ricercatori a ipotizzare che la lettura dei sistemi di scrittura dotati di una complessità visiva elevata – come il cinese – non attivasse le aree della classica rete di circuiti dell’emisfero sinistro coinvolti nella lettura alfabetica, ma altre regioni situate in particolare nella corteccia premotoria. Questo a causa dell’importanza dell’esperienza cinestetica nell’apprendimento degli ideogrammi mentre vengono scritti.

Nakamura e colleghi hanno sottoposto due gruppi di volontari di madrelingua, rispettivamente francese e cinese, a scansioni di risonanza magnetica funzionale mentre erano impegnati in un compito di lettura e interpretazione semantica. Per determinare quali aspetti della lettura fossero specificamente legati alla cultura e quali no, i testi sono stati presentati ai soggetti in differenti modi: normale, in corsivo, statici, in movimento, distorti e rovesciati. L’analisi dei dati di neuroimaging ha rivelato che, durante la lettura, sia nei soggetti francesi che in quelli cinesi, si attivano due regioni cerebrali distinte, associate rispettivamente al riconoscimento delle forme visive e alla decodifica dei movimenti. La differenza è che quest’ultima regione ha mostrato una maggiore attivazione nei cinesi quando si tratta di leggere parole in movimento.

La mobilitazione della memoria motoria della scrittura non è quindi una specifica componente della lettura ideografica e logografica, ma è presente anche nella lettura dei sistemi alfabetici. In tutte le culture, anche molto diverse, la rete neuronale matura, deputata alla lettura, comprende sia un sistema di analisi visiva della forma (in primo luogo la cosiddetta area VWFA), sia un sistema di decodifica del gesto motorio associato alla scrittura. Quello che varia da una cultura all’altra, concludono i ricercatori, è solamente la modulazione dell’intensità relativa di attivazione fra i due tipi di circuiti.”

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L’albero della Fecondità   – Massa Marittima (gr)

Come darti una visione globale del fine della costruzione. Che forse sembrerà che sia quasi del tutto rovinato. Del tutto e ‘sempreormai’ e definitivamente. Ingrassato e trascurato. Invece una mattina splenderò con il sole sulle labbra che annunceranno il sorriso. Troppo rapidamente avevi pensato che non ci fosse nulla da fare.

Tutto ricominciò con l’intuizione della ‘semplicità della logica’. Con la scenografia teatrale dei giardini abbandonati dove i maestri si erano messi a traverso per farci arrampicare, come scale a pioli di legno vecchio, alla cima dei ciliegi. Ma nessuno superava nessuno e la storia di essere sulle spalle dei giganti era un po’ forzata, stiracchiata diciamo. Si tratta sempre di scale e alberi da frutto. Di povertà e ricchezza. Di potere e di assenza di ogni potere. Si tratta di mettere a disposizione qualcosa o invece di privare quasi tutti di tutto.
Bisogna porsi il problema di quanto dura la relazione di disparità. Cioè pensare, riflettere su quanto possa durare la relazione di disparità senza offendere il chiarore dell’innocenza. Aggiungere di seguito che a dire il vero nella esperienza comune innocenza è una parola che non si riesce più a maneggiare con leggiadria. Spiegare che dico questo ricordando che di fatto appena sentii dire della semplicità della logica pensai proprio precisamente, con la precisione di un taglio sul vetro con la punta di diamante, al chiarore. Chiarore dei pomeriggi come oggi con le persone amate agli angoli colorati dell’universo urbano e me in un punto eccentrico non escluso cioè non al di fuori dal poligono amoroso.
La macchina quieta che spinge le ruote porta un quadrilatero immaginario lungo le carrettiere del latifondo. Fotografa il viaggio mondiale di una figura piana. La striscia di un’ombra sotto la calura estiva disegna percorsi di esistenze pre-rivoluzionarie. L’olio caldo del cielo ha lo stesso colore dei girasoli. I nostri stivali di servi della gleba non hanno possibilità di trascendenza.
Ah!! Che dico.. chiedi tu! Vieni qua, dico io. Oltre lo zero. Salta. Ci sono ampie fosse, fonde. Nere per l’ombra. Nere buie per assenza di sole. I numeri negativi, dolcezza. Quelli ce li siamo inventati di sana pianta. Dolcezza è l’appellativo di una che non si farebbe problemi a seguirmi al piano di sopra lungo il  segmento obliquo della scala del saloon. La distribuzione delle misure di una progressione proporzionale in ascisse e ordinate disegna una ‘curva’ che, talvolta, è un segmento di retta. Una scala a pioli di legno forte per il regno delle cime dei ciliegi.(*)
Però ho aggiunto, ora, gli assi ortogonali che restano fermi a fare la guardia e mi ricordano le linee  squadrate delle coperte sulle cuccette delle camerate dei collegi militari. La fortezza del taglio secondo la linea ulnare dell’avambraccio che fende il piano del pomeriggio. La torta del compleanno odierno. Imparo a parlare associando ricordi di fantasia. Poi ho figure nella mente seguenti al linguaggio delle immagini che è un meccanismo coerente con la fisiologia sinaptica ( associativa ). Ma quanto affermo non è pensiero cosciente: è intuizione. Pre verbale.
(*): è una definizione dell’orgasmo offerta da una docente di glottologia all’Università Dei Popoli Delle Risaie in Pekino.
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la lunga storia della parola (amore)

Nello spazio infinito della sala con i muri spessi come mai se ne videro altro che nei sogni, si fanno avanti due rappresentazioni: l’idea di massa cerebrale come massa biologica in azione caotica e l’altra idea della incomprimibilità del tempo. Un po’ distratto poi ripenso che da due anni c’era nell’aria che respiravamo insieme con quelle persone – che non sono mai diventate tantissime – l’altra idea che il tempo riguardasse il pensiero perché anche il pensiero non ha nessuna massa: esso è, come si dice con la chiarezza delle evidenze scientifiche, ‘realtà non materiale’.

Mi viene alla mente che avevo pensato: ” Il tempo -che non ha una massa ma solo realtà ‘fisica’ di una rappresentazione mentale- deve avere, lui si, una natura non caotica e allora potrebbe essere il solo elemento in grado di realizzare una trama sicura per l’esame della realtà e il sostentamento del mondo”. Dico adesso a me stesso che dunque non è la solidità della realtà materie degli oggetti e dei corpi a fare una rete certa per intravedere e tenere insieme i continenti e te che mi traversi gli occhi con passi eleganti e promettenti:

“Chi avrebbe detto che le cose e i corpi amati, le carcasse dei miserabili che nessuno vuole prendere mai in cuore, e i seni delle femmine che abbiamo accarezzato, e  il pene eretto che loro costantemente desiderano e accolgono sciogliendoglisi attorno in un profumo che fa la vergogna impenitente e la vittoria che ci guarisce sempre della peste della astinenze da preti – chi avrebbe detto che non quello mai avrebbe sostenuto la potenza dei solai, né l’altezza sfrontata degli attici dai quali si esercita il peccato di superbia del linguaggio e dell’immagine che lo sostiene, insomma volgio dire: il tiro della balestra fino al cratere…”

Mi dicono: “Il tempo si misura con la luce, con la frequenza di una vibrazione di una cosa fisica che non ha nessuna massa”.  Così dicono le voci delle persone nella stanza dove ci ritroviamo da quasi tre decenni seduti di fronte e così tanto assidui che molti sono invidiosi di questa storia: di noi che non sappiamo smettere. Mi parlano del tempo restando incerti.

E mentre loro si riferiscono sempre di più al tempo -come si deduce dalla trasformazione accaduta alla forma dei loro sogni che sono divenuti brevi concisi densi senza una trama evidente ma capaci di far tremare la loro voce- io sento che se ne va la parola amore, si allontana, si nasconde perché è gelosa della parola tempo che avverte più antica, venuta alla nascita con l’insorgenza del pensiero. Ed io stesso, insieme alla parola amore come se mi fossi per un attimo confuso con quella parola… rivolgendomi a me stesso : “Il pensiero ha natura di tempo e allora forse si potrebbe scoprire che essi sono sinonimi di una stessa ‘cosa’. Forse potremmo se, appunto, sapessimo fare la ricerca fin quando risulti necessario”.

Io che sempre fingo di parlare d’amore ad un amore – ( dato che per fare scienza devo ersprimere una metodica inclinazione verso la certezza di esistenza e di conoscenza che chiamo ‘amore’ ) – io – quando loro pronunciano la parola tempo o semplicemente lasciano tremare la loro voce al suono dei racconti di sogni differenti da sempre – vedo la parola amore come una figura di donna che si allontana e pieno il foglio di segni di tristezza per esprimere l’immagine della mente. Perché quando resto solo l’immagine della tristezza è differente dalla scenografia di commiato e separazione dalla figura di lei che va via.

Ma fondo le basi nuove di futuro traversando la tristezza inevitabile di un discorso inevitabile anch’esso perché ancora il tempo non si è legato alla parola pensiero. Non ancora definitivamente. Non irreversibilmente. È un’idea per adesso. Non so dire però è un assillo grande quando le cose non hanno la chiarezza delle parole. Comunque mi salva il lusso della smagliante rete tessuta in fibre nere di carbonio della intelligenza che ho avuto in cambio di una costante marginalità. Mi protegge dalla disperazione e trasforma la luce opaca della precedente tristezza in tenebrosa eleganza di nero dolore . Trasforma in colore nero traslucido la superficie senza riflessi della confusione di trenta anni prima di ora.

Ora l’identità non pensa più in termini di coscienza e controllo e si distende.

Nella stanza dopo trenta anni mi raccontano che studiano e si laureano e che è difficile ugualmente. Che la malattia di un tempo non era peggiore della normalità con la quale devono fare i conti. Se riattivo la magnificenza dell’inganno amoroso io mento sorridendo, ma piango dentro di me e voglio che torni la parola amore. Ma non torna perché ora bisogna continuare la ricerca per trasformare l’idea del tempo che sarebbe proprio della realtà della vita mentale della specie umana: il tempo è creato dall’uomo alla nascita come pensiero che dopo torna sempre ogni momento. Per esempio è ricreazione della mente nel vedere la luce che tanto amiamo e che inseguiamo poiché la luce è l’orizzonte. Per esempio torna sempre ogni momento nel vedere svanire la luce oltre l’orizzonte dietro le linee amiche perché quasi sempre oltre le linee che la luce disegna sulla materia c’é un amore indimenticabile.

Lavoro sulla linea di separazione tra te e me. Su noi che sappiamo tenere accanto i ragazzini per interi giorni nelle vacanze estive e nelle passeggiate sul mare a Natale con il cielo bianco opaco. Lavoro sulla linea di separazione tra te e me sulla linea di orizzonte e, si capisce, lavoro su affetti che sono uguali a certi tagli di luce. Ho lavorato tantissimo senza parere per scrivere che l’orizzonte è espressione del rapporto tra luce e materia: che l’orizzonte è una velocità. È consistenza di relazione quando si è lontanissimi uno di qua e una di là dal cielo, di qua e di là dall’equatore, e l’orizzonte separa il tempo dallo spazio e il dolore evita la pazzia e l’assenza crea l’immagine e l’immagine fa la figura e il pensiero verbale e i segni sul muro le tracce del granchio gigante sulla sabbia che di traverso ci chiama poi si seppellisce come un uomo che si addormenta

Sono passati veloci questi trent’anni iniziali di lavoro.

Ora forse torna la parola amore.

Forse torna la parola amore se resto ancora così quasi immobile a rischiare l’equivoco dell’odio che mi ha pensato morto solo perché la distrazione di realizzare la fermezza per la certezza aveva tenuto le persone dello scarso interesse ad una distanza che non poteva sentire il calore con le carezze e il respiro con le labbra. E hanno scambiato il sonno con la morte, l’immobilità con la paralisi, la noncuranza delle cose ragionevoli con la follia di una perdita di rapporto con la realtà.

Invece la vitalità della resistenza nel tempo è determinata dal fatto che la ricerca era cominciata trenta anni fa con una favola che diceva solo questo:

“Sul mare giacciono le sagome di tre figure umane e una è morta e non si può fare più nulla – e una dorme e sogna e non si deve fare nulla perché essa è sana – e la terza figura è ammalata e si deve risolvere la sua impotenza ad alzarsi per venirci incontro.”

Bisognava distinguere, certo. Però adesso mi domando se non fosse quella la parola (amore). Amore.

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