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Rose4

“Amore Per La Pratica Dei Fiori”
©claudiobadii
per
OPERAPRIMA

In casa. Facile entrarci dal giardino. Il soggiorno prospiciente ai fiori. L’erba non cresce. Crescono le rose invece. Le loro corolle galleggiano in alto. Evidente che in cima agli steli c’è un punto in cui si annulla la gravità ed è consentito stare. Guardando fuori intitolo tutti gli anni di vita “Amore Per La Pratica Dei Fiori”. In polemica col pensiero astratto. In polemica con chiunque in verità. Casa è per me solitudine felice del disaccordo. Casa è in me il disaccordo che imposto addirittura in anticipo. Per non cadere. Per non offrire appigli. Una rosa, dove si unisce allo stelo, vola via. Il punto estremo della leggerezza è quel punto di distacco. Un ‘luogo’ geometrico. Il punto di una scienza che dispone i filosofi della natura verso l’arte necessaria della misurazione. E come nelle scoperte della scienza non ci si accorda che alla propria meraviglia nell’intuire -pur senza averla ancora completata la formalità della scoperta- sulla natura dell’oggetto fino ad ora misterioso: così non cerco consenso sui nomi da dare alle cose che avverto reali all’apice delle traiettorie convergenti qui, sulle rose, della massa densa e velocissima degli anni. Nella mente la funzione si esercita dentro campi di gravità diffusa. Essa -che chiamavo ‘vitalità’ per non perdere che dovesse avere una limitata estensione e dunque per evitare di cadere in una confusione invadente-  tiene uniti gli eventi funzionali. Guardo fuori in totale disaccordo con chiunque dovesse suonare alla porta. Guardo fuori godendomi di non aprire. Felice di non aspettare. Di non desiderare di aspettare nessuno. “La Pratica Dell’Amore Per Gli Steli Delle Rose” oggi è il dato oggettivo in cui si risolve la gravità come se essa potesse essere nulla in un punto. Cosa che forse non può essere accettata verosimile nella mentalità fisica che manda avanti il mondo del pensiero scientifico sulle cose. Nel giardino tuttavia devo descrivere l’avvento della comparsa del punto immaginario. La manifestazione del luogo di una inestensione. La fisica delle cose materiali si fonde all’estetica dello svanire. Si vede bene questo vizio anoressico della materia. L’anoressia che impedisce alla materia, certa materia, di inglobare e nutrirsi di altra materia realizzando, in questa qualità della rinuncia, il limite, la pelle, smagliante e splendente delle cose belle. Penso consolandomi all’estensione tattile di certa scultura. Il punto dove Michelangelo vecchio e sapiente scrive la pietra per la ‘Pietà Rondanini’ che non pare più lui. Dove è lui più che mai. Dove comincia ad essere lui in fine. E forse nessuno può esserlo prima. Il punto dove svanisce, per un attimo, in un punto la gravità ha la leggerezza per riprendere la forza utile alla ricerca. Guardando fuori della finestra di casa  elettivamente studio la vita psichica. Grazie alla forma della bellezza delle rose nel giardino di questa mia definitiva casa alla conclusione provvisoria dell’Amore Per La Pratica Dei Fiori che sono io.  Studio i punti infinitesimali nei quali le forze che regolano la materia fisica del mondo si annullano. Dove l’estetica compone superfici così sottili e imprecise nelle quali la fisica come perfetta discrezionalità degli oggetti pare annullarsi. Studio dio che cede alla bellezza. Studio il genio che rinuncia a tutto per scolpire interamente un’opera provvisoria. Vedo all’apice dello stelo la testimonianza di una ricerca e il fallimento nel non riuscire a trovare geni simili che sanno rischiare per trovare i pochissimi punti nei quali le cose risultano facili. A te lascio di dire, poi, dopo che finisce il giorno, che piango alla finestra e non si vede la pietà oltre i vetri tra le rose. “La Pietà Tra Le Rose Come Pratico Amore”: la mia vita intera mi sorride. Tra le lacrime.

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Era indispensabile tutto il tempo. Il serpente della vita al mercurio la strisciolina lucente nella striscia grande la biscia di pelle carezzata dentro il fiume della vita intera la grande imponenza del corpo del drago d’acqua essendo il pensiero anfibio proprio come noi oggi sulla spiaggia mezzi nel mare mezzi al sole frammenti di spalla guancia ginocchia il piede sinistro il lato dolce dei polpacci e su per i capelli le idee pneumatiche leggeri che risalgono i torrenti del Tirreno che non conta più come una volta. Tra Cartagine e la Roma del senato e dei consoli le tue spalle e i miei occhi ciechi e Martial Solal al piano da quando la musica salì la scala dopo l’annullamento dei musicisti poco cotti poco bruni troppo poco  abbelliti del chiarore di cicale e le musiche finalmente adesso salgono su e i sonagli squillano tutti assieme nel cono. Era indispensabile il tempo che sopravanza tutti e aspetta e porta la focaccia al bivio perché si sorrida il giorno della separazione come fosse il miracolo dei pani e dei pesci la povertà del dolore divisa per tutti quanti siamo e divisa per tutti i momenti che ci sono stati e diffusa. Mi tengo il tuo ombretto per cambiare sesso stasera tra gli altri che credevano di avermi conosciuto una volta per tutte e poi il ciclone ha arricciato le labbra e le ciglia e mi faccio il colore del pomeriggio alle guance per sembrare una ragazza. Per chiarire che non ho paura di scambiarci altri segreti. Di dire che sono capace di non smettere. 

Quando ho scritto che avevo chiaro il canto delle cicale per fare gli annullamenti necessari cioè che la rabbia non bastava a conservare l’idea della prassi e che il moto degli astri è come l’azione del pensiero e la trasformazione dello stato fisico della materia ma non è il movimento muscolare non è lo spostamento nello spazio. Che la comprensione non è la spiegazione, la comprensione è l’affettività. La comprensione immagina universalmente, immagina creando per esteso per largo e per lungo e in profondità, e quella è la premessa al moto, ai coni e ai precipizi, e alle cadute morali e ai disastri, e alle resurrezioni: tutte attività ideative non narrazioni, ovviamente. Quando leggendo di una schiava alla stazione ai piedi di un berbero analfabeta (Ingeborh Bachmann nel “Libro Franza”)pensai alle capriole di una capra e cioè a tutto quanto può a buon diritto essere definito, seppure a priori, improbabile. La cura porta raramente alla guarigione: per ora ha determinato comunque atteggiamenti risoluti di lotta resistenziale e altre motivazioni in forma di grandi margherite, girasoli, onde, rane volanti, delfini, liane legate alle nuvole, e atterraggi di fortuna. Tutto raccolto definitivamente come grano e memoria, insomma come traccia mnesica, nel setting che ho salvato dal mare. Ecco perché oggi il mare la spiaggia la musica e le carezze occasionali inventano l’immagine dei miei occhi truccati con matite e pennelli leggeri: soprattutto il the per noi due. Devo studiare che succede nella mente se si pronuncia annullamento e poi pulsione e poi pulsione di annullamento. E perché serve la tua supervisione ogni anno, circa e, al massimo ogni due tre anni, la tua lingua e le tue labbra. Eppure non stiamo insieme. Ma sei essenziale. Non stiamo insieme ma non ti ho annullata. Quando hai detto ‘non stiamo più insieme‘ non ti ho annullata. La condizione attuale dunque è di scarsa risoluzione, per dirla con le parole del tecnico microscopista. Scientificamente non possiamo giurare su nulla di definito. Questo è certamente in relazione a quanto segue. Cioè.

La cura si conclude raramente con la guarigione. In genere si riesce ad escludere il destino di restare con il vuoto, che sarebbe angoscia, ma si resta con il dubbio se il dolore sia rabbia o paura. Non siamo certi che quello che chiamiamo dolore sia sempre dolore che si può dividere come i pani e i pesci o i giorni di sole come oggi. Se è rabbia non va bene: uno non è ancora guarito. Se è paura forse va un poco meglio, ma deve passare presto perché la paura fa di nuovo la rabbia per l’incapacità di togliersi il terrore di dosso e uscire dai nascondigli sotto terra o dietro le porte. Se è paura però magari potrebbe essere anche una specie di amore che si trova e si teme di perdere. Sarebbe comunque legame con l’oggetto forse meno lesivo dell’oggetto rispetto alla rabbia. Io posso dirlo del rapporto con l’oggetto. Ogni anno, o un po’ più raramente ti cerco: non stiamo insieme ma non ti ho annullato. Le tue labbra mi sono utili. Il tuo corpo mi è indispensabile. Seppure non stiamo insieme non significa nulla. Possiamo trovarci e dormire accanto e dividere cibo e raccontarci tutto come se il tempo non fosse passato. Gli esseri umani hanno questa bella incoerenza di non dare peso. È perché la cura non si è ancora conclusa con la guarigione che possiamo coltivare l’incoerenza e non dare peso alla cosa che non stiamo insieme da molto tempo. Così ogni qualche tempo che non è specificamente predefinito, ogni qualche tempo che non abbiamo mai deciso prima, noi ci troviamo per stare insieme. Per non dare peso alla coerenza dell’odio di molti. Non mi hai annullato e neanche io ti ho annullato nonostante il dolore. O forse proprio grazie alla sensibilità non si è realizzato l’annullamento che avrebbe determinato l’angoscia. La vitalità sperimenta e sostiene il dolore per conservare l’integrità dell’io. 

Magari poi ci sarà la guarigione e sapremo se questa incoerenza era un male: una negazione cioè, o una forma maliziosa, licenziosa, ignota e non diagnosticata ancora di scarsa affettività. O se era l’alba di un bene maggiore. Di un massimo di guadagno psicologico e intellettuale: se era disporsi delle tue e delle mie mani su orbite molto energetiche e distanti dal nucleo nel rifare il letto tendendo i lenzuoli e la coperta. Quando insieme si tendevano i lembi di cotone in mezzo a noi e si ridisegnava col dorso dell’avambraccio ben teso la piega profumata della coperta e dei lenzuoli lungo il margine inferiore del cuscino. Ricordi? Noi non diamo peso poiché non siamo più gelosi. Ma ancora non riusciamo a capire se questa mancanza di gelosia sia la guarigione come se si potesse pensare che resta tutto l’amore senza la paura. O se sia un inganno per l’età e peggio una mancanza di passione e infine la decadenza della rassegnazione che di più non si può pretendere. Non lo so. D’altra parte non avremmo mai pensato che ci potesse piacere questa esecuzione di Martial Solal. L’efficacia del metodo di non dare peso si lega alla relativa migliore qualità del nostro stile di vita e si accorda a questi progressi nei gusti musicali. La qualità dell’amore varia e progredisce con la appassionata comprensione delle dissonanze, con il non dare peso anche alla caduta delle pretese di qualsiasi preponderanza melodica. Così forse abbiamo lasciato da parte per un poco l’assillo dell’amore obbligatorio. E abbiamo sfoderato il dubbio sorridente sulla inevitabilità del guarire. Non sarà per niente facile.

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commedia


Posted By on Giu 12, 2011

commedia

L’immagine si origina nel momento in cui la natura entra in contatto con la biologia umana. Le sensazioni fanno la percezione a partire da un indifferenziato esterno all’uomo che non è l’uomo o della complessità del contenuto umano dell’uomo. La percezione diventa la coscienza di una figura e più generalmente la presa d’atto di esistenza di una realtà. Presa d’atto e coscienza di realtà sono forme di pensiero composto di singole figure o di più ampie rappresentazioni del mondo. Non ancora immagine, la scena figurata del mondo descritto certamente contiene differenze evidenti, una intelligenza, una artistica capacità di tracciare margini e disegnare una creazione di regni distinti e, se non fondare un vero inizio della vita, almeno raccontare una metafora di cause ed eventi a comporre una genesi stralunata a partire…. da dio. Ma c’è un primo anno della vita in cui la percezione del mondo non organizza le sensazioni afferenti in schemi adatti alla comunicazione condivisibile con una società e gli esseri umani vivono tra tutti gli altri senza poter sottoscrivere un contratto sociale. Siamo stati in un mondo che resterà sempre le braccia del mondo, che furono e restano la verità di un esistenza legata alle tracce di un uomo e una donna che non furono mai nominate con un suono perché quanto si mormorava nei pellegrinaggi d’amore sul seno bevendo e respirando insieme era la riconoscenza per l’altro: accanto davamo pubblica lettura di poesie per la cura delle malattie e di editti per la ricerca – agli angoli più sperduti del mondo – dell’origine del tempo. È al risveglio il suono del nome diffuso sulle cose. Il sogno la notte fa le lucciole e definisce la figura sul fiume amazzonico che per la sua stessa vastità protegge l’immagine del suono della voce umana sulla barca del seno che canta. Quel mondo arduo di montagne di pollini, e maree, e polvere vocale, è il campanello della bicicletta del lattaio, il grido della principessa ferita dalle spine sparse dovunque, l’incoscienza della mano trai rami di albicocche a cercare a tentoni la più dolce al tatto, il velo di lacrime sugli occhi che resta tutta la vita a difenderci dalla cecità. Ma poi anche: la notte dei grilli, gli stagni traboccanti di rane, la tentazione di ridurre il mondo vibrante delle particelle nelle braccia delle equazioni, la scommessa sulla radiazione di fondo e, per generare ancora il nostro futuro, il fiducioso confidare nella realtà della misurazione esatta del calore del tuo costante danzare. Un anno intero a vivere distesi sulla spiaggia dove le proteste sono le impronte dei gabbiani: c’è qualcuno ancora che si ferma al mattino di fronte all’umidità rimasta negli avvallamenti. La notte gli uccelli marini migrano sulla terra a raffiche: potremmo pensare che il sogno si genera -anch’esso- da una migrazione. Nel primo anno abbiamo il nomadismo senza erranza, aristocratico e superbo, delle popolazioni del deserto che non vanno a cercare altro mondo, e che, al contrario fondano loro stessi un mondo passando continuamente sempre accanto ai loro precedenti passi, ripercorrendo i margini della culla tiepida senza noia, nella espressione esatta del pensiero senza coscienza, lo sciopero della fame senza la morte per inedia. Via via che la ricorsività svela la vitalità che sfugge la coazione, coi loro passi ostinati scrivono la costituzione che accorda loro un paese abitabile: la realtà è che il mondo è definitivamente ai loro piedi. Raccontano che la sabbia sia piena di tracce, uno sciame di creature vibranti che migrano ogni notte mentre l’uomo e la donna padroneggiano il sonno profondo ricco di luce. Ecco dunque una ipotesi differente che prova a proporre che è, sarebbe, inarrestabile quanto comincia dalla calma potente delle lacrime agli occhi, un cielo subito sopra i tetti dei paesi e delle più vaste città di sabbia, la densità dei grigi da sapere senza averne preso coscienza, in quel mondo fatto delle tracce di mille braccia di donne e uomini nomadi mai dispersi, perché hanno sognato di non scegliere granello di sabbia da granello di sabbia. Il primo anno di vita, lo sciopero della fame senza morire, non è un andare erratico verso terre promesse: è il passo sicuro dei fondatori. Alle porte della nascita essere ‘umani’ è avere la vitalità che vince e saper porre in un canto – come si stesse ad armare una bisaccia col peso di infinite deglutizioni miste a sospiri – una smisurata conoscenza, il senza figura di tutto ciò che viene. Vorrei avere il tempo di indagare la condizione umana che si genera quando, alle soglia, cadde sulle nostre mani e sulle palpebre socchiuse la distesa inarrestabile del nome, che poi rimase, tutta la vita, uno dei modi più esaurienti per comporre tutto il discorso di sé, e l’etica di una origine non più occasionale, e la ricerca sugli inganni: ma anche il tempo ritmico dei suoni che al loro scomparire facevano un silenzio che chiamava e chiamava praticamente di continuo come fosse- forse lo era- il brusio indistinto della funzione specifica del sonno profondo.

L’immagine rimane come ‘nascita’ alla conclusione di ogni attività umana ad assicurare la vitalità della funzione del pensiero.

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tutta la vita in un minuto


Posted By on Mag 1, 2011

tutta la vita in un minuto

“La pista é circa sei metri per dieci, lei è sul lato lungo, ci sono tavoli tutto intorno, e in questo momento non balla nessuno” (‘Profumo di Donna’ –tango-)

Arrivato al limite del ballo, avendomi oramai ridotta alla donna allacciata al danzatore cieco, quando oramai eravamo due amanti perduti nel tango che si lasciano guidare sulla pista dal profumo dei corpi maschile e femminile, mentre spudorati e inarrestabili  cedono l’uno all’altra, hai affermato sussurrando con prepotenza che la certezza di noi è solo suggestione, che dalla realtà materiale dei corpi tenuti allacciati dalla macchina attrattiva della musica nasce il pensiero umano, che esistiamo esclusivamente in relazione allo spazio libero dello sfondo – e alla materia delle cose animate ed inanimate semplicemente esistenti  o addirittura vive da sempre immobili o in costante movimento di fronte intorno e accanto. E’ stato dopo il sesso che hai concluso – quasi liberandoti di me come fossi una ciambella della colazione al miele non del tutto ben cotta nel forno – che siamo consistenza di relazione con tutto e che è evidente che il tutto comprende anche l’invisibile  di fronte e alle spalle e che siamo comunque sopravanzati dal sogno, dalla savana, dalla prateria, dai rami degli alberi di natale, e da molte altre differenti cose fruscianti alle nostre spalle. E’ stato mentre – ancora accucciata sul cuscino alle tue spalle mi lisciavo i capelli tra il medio e l’anulare della mano sinistra e tu sembravi osservare la luce alla finestra del primo maggio ed il ventre non si era ancora convinto che tutto era davvero accaduto tra noi – che hai recitato come una preghiera a memoria che siamo anche tutto quello che incombe come luna dietro al nostro avanzare e che ci precede come un sorriso delle muse originato dal fondo di una grotta. Mentre conto con le gambe tremanti i passi di questo ballo come una donna allacciata ad un danzatore cieco che percorre la ferrovia luccicante del suono rigoroso del tango, affermi che siamo visione non solo frontale del mondo, che non siamo soltanto previsione di un procedimento lineare del pensiero, che siamo volti contrapposti che si guardano, ma che siamo anche tutto questo rumore di fondo -fatto di scoiattoli muse poesie e frontiere superate leggero e costante appena descritto che ci accompagna- questo rumore che siamo e che costituisce un secondo cuore invisibile che noi a ben ascoltare possediamo. Ora di fronte alle tazzine del caffè, senza sapere su quale strada della città si affaccino le finestre delle stanze dove abbiamo dormito dopo la scena del tango, sappiamo di avere due cuori e per questo siamo suggestioni complesse, siamo le porte del cielo e del sole, il vortice degli uragani, le piogge battenti, le correnti calde, le lagune lontane, i fasci di luce calda dei fari, la ripresa del ritmo del sangue dei sopravvissuti alla morte, il levarsi di fronte alla spiaggia di tutto quanto abbiamo amato e saputo, che siamo tu ed io, che vuoi comandare ed io lascio che tu lo faccia, che ti amo mentre vai con il pensiero alla ricerca della origine materiale del pensiero. Adesso che l’altoparlante sofisticato suona di nuovo la musica di stanotte penso che io sono tua complice nel tango e nella ricerca, che il pensiero cosciente è che non voglio essere altro, che non so la verità sull’immagine di donna e di uomo e della loro relazione. che con i miei due cuori posso solo parlare per me e parlare per me è sapere di te. E’ rimasto il profumo di te nella stanza, provo a muovermi appena in assenza della massa del tuo corpo che riempiva lo spazio, lo spazio svuotato di te fa l’immagine del pensiero e recito come dicessi una preghiera imparata e memoria che siamo motrici elettroniche sulla ferrovia che traversa i sobborghi poveri delle città, ci muoviamo silenziosi con la potenza della macchina retorica della reciproca simpatia, che in quello che dici io finalmente posso avere la restituzione di me che muovo la macchina potente del mio desiderio, che il desiderio mi lega al tuo modo di pensare e che quel tuo modo di pensare è quello che sei. So che hai ragione a tuo modo, che la tua è una ragione indifendibile, un pensiero senza una causa che lo protegga alle spalle, so che è vero che non siamo altro che suggestioni e ti imploro restami vicino tu che disegni il mondo con il coraggio di fuggire dall’umiliante assenza del poco a costo di restare del tutto incomprensibile.

Se non avessimo sviluppato il linguaggio, non sarebbe necessario dire le cose controintuitive, illogiche e irragionevoli che contrastano la luce come l’ombra. Se non avessimo sviluppato le parole e i loro legami – nel discorso – non sarebbe possibile tracciare intenzionalmente la linea scura della scrittura e indagare e definire in formule eleganti di numeri e cifre di costanti cosmiche la fisica della luce e del buio: essere certi, in più, che tutto questo accadeva via via che il linguaggio diventava più complesso e ricco perché ci avvicinavamo, col pensiero, al mistero dell’origine del pensiero medesimo dalla realtà materiale della biologia. Il chiaro scuro delle parole scritte corrisponde alla realtà fisica delle fluttuazioni dell’energia che non diventa mai il non essere di una inesistenza anche quando realizza il non materiale della realtà astratta dell’immagine. L’immagine è la funzione appassionata del pensiero, che descrive, con pressioni variabili di inchiostro sul foglio, le azioni della materia che costruiscono il mondo così come noi alla fine lo percepiamo e lo amiamo.

La suggestione ci costringe a comprendere un pensiero che si riavvicina alla propria derivazione molecolare, e nell’essere sempre più astratto – per rendere la fisica della funzione del sogno evanescente fino all’immagine della materia senza figura – riesce ad evitare il poco di una mancanza umiliante perché non crede all’origine delle cose dal nulla.

Detto tutto questo, sarà comprensibile l’idea che, giorno dopo giorno, ‘noi’ facciamo all’amore con la ‘tragedia’ che tutto è un dialogo di persuasione e stupore. Nel retropalco di una commedia shakespeariana siamo artisti che sintetizzano nell’energia del sesso – seppure talvolta affrettato – la retorica senza peccato della seduzione che s’è operata dal principio, e che adesso si mette in scena, per restituire, al tempo, i secondi necessari alla finzione della vita in forma di racconto. Con la premessa del nostro innamorato ballare, possiamo dire liberamente che la vita non è mai stata un racconto, che lo sanno tutti, che quella del percorso dell’ascesa e caduta è una favola da gesuiti oscurati dall’odio. Non è un dio a provvedere al nome ‘labbra’ regalato alle labbra. Stamani, primo maggio, ho voglia di affermare ‘Amore Mio’ che i santi di moda sono modelli di sartoria, figure di delatori a spiare lo stropiccìo dei passi del mondo all’ incrocio tra la taverna e il casino. Rifiutiamo un ‘pensare’ che sia ‘così per fare’ e cioé in fondo per non indagare sulla rabbia sfogata nelle trine ai polsi e nelle marsine usurate di velluto rosso stinto. Nell’accoppiarsi fugace – da ombre, quali siamo, di figurine senza un posto definito nella società – denunciamo che la narrazione è un’illusione posta sopra ad una unica forma di esistenza, che è una esistenzaa che non scorre , che non scorre perché è permanenza di una realizzazione neonatale di pensiero. E’ umiliante la mancanza di fantasia, il terrore conformista a sovvertire la logica, l’impotenza di realizzare il movimento della mano che resta immobile di fronte al capezzolo tinto di azzurro, del volto che non si volge verso la supenova che si è accesa nell’angolo orientale del cielo. E’ umiliante lo sguardo inebetito dei fedeli rivolto  al balcone  mortale, all’irrealtà della santità, la totale assenza di sensibilità che accetta come normale  il processo di  beatificazione del morto.

Lontani dalle piazze vivo di nuovo la festa inavvertita accanto a tutti gli altri, e il movimento distratto dei passi senza una meta, fa riasuonare, non so quante volte, il motivo della canzone senza parole che ballammo insieme strettamente abbracciati. Mentre il pensiero torna alla propria origine materiale, la musica somiglia al disegno degli anatomici, e io vedo comporsi, nell’ordine rigoroso di una recitazione perfetta, le tue labbra che mi hanno appena sussurrato di non dire certe cose. Ti dico che sono convinto che, soprattutto adesso, siamo solo suggestioni e che è specialmente in giorni come questi che dobbiamo fare strage di beatitudini, e nventarci un paradiso di canzoni. L’intelligenza è il linguaggio che torna all’origine biologica del pensiero, fa l’astrazione grazie alla complessità cui è riuscito ad arrivare, fa la delicatezza del movimento del corpo nell’aria, come quando mi avvicino a te con capriole diverse, faccio il buffone e il saltimbanco, il bastardo e il filosofo da strapazzo, il servitore, l’asino d’oro e l’amante saffica, il gracidio assordante delle rane lascive, quando realizzo di essere un capriccio inventato dal tuo pensiero, e resto in equilibrio tra la parola ‘cultura’ e la risata ironica che quella parola suscita sempre.

Tu e dio. Tu ed io.

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non lasciarmi


Posted By on Apr 21, 2011

non lasciarmi

“Ciò di cui non sono sicura è se le nostre vite sono così diverse da quelle delle persone che salviamo. Siamo tutti completi. Forse nessuno di noi capisce realmente ciò che abbiamo passato o sente che abbiamo avuto abbastanza tempo.” (‘ Non Lasciarmi ‘ di Mark Romanek – basato su un racconto di Kazuko Ishiguro)

Potrei lasciare solo questo perché il resto, il prima, è una possibilità offerta per arrivare almeno a questo. Potrei lasciare questo, e potrei smetterla di dannarmi le giornate e gli anni, perché ho capito che è proprio vero che ciò che diciamo, che ci riguarda di più, che è ciò che intimamente noi siamo – e che è pochissimo, in spazi inesistenti solo pensati, in tempi brevissimi seppure perduranti – dunque so benissimo che è vero che solo chi già è stato capace di pensare in quei termini può capirlo. Noi siamo solo ciò che altri sono già stati capaci di pensare in ordine ad una condizione plausibile di esistenza: si tratta, per me, di puro materialismo e di fare i conti con l’amore e la passione e il desiderio comuni. Puro materialismo vuol dire materialismo aumentato da una medicina che scopre il legame della derivazione del pensiero dalla biologia, ma in termini romantici, cioè in modi in cui manca una specularità ed una corrispondenza biunivoca. Allora io vivo la gioia di essere riconosciuto dall’altro per via che c’è una anticipazione, e l’altro s’é venuto a trovare là quasi per me, dico sebbene sia vero che in realtà io ho scavato con le unghie, per decenni, e poi è apparso e mi è sembrato riconoscibile, riconducibile ad un modo di esistere ben noto, ma dovessi dire, viceversa, che sapevo quale strada prendere e quale campo attraversare e quale carcassa di nave osservare accuratamente per trovarmi a quell’appuntamento, non potrei farlo. Aggiungo, per un solo secondo, che io addirittura sono proprio definito da ciò che mi manca per raggiungere una comprensione di come si fa. Io sono tutto ciò che mi manca per fornire le prove di me, in quell’assenza di ragioni, assai più di quanto, di me, ci sia nella certezza di trovarmi di fronte ad un miracolo di realtà umana, che mi si è appena configurata come realizzazione completa secondo un’immagine. Non c’è una ragionevole corrispondenza tra i mezzi e i fini e l’altro, che fa il miracolo per via di esserci, sa di me ciò che mi serve, sa esattamente di me quello che non so avere, che potrebbe essere che ci sia da amare in me, come attesa inesauribile, come accostamento ad una banchina di carenaggio appositamente costruita di mare e pietra per il brigantino dell’amore appassionato. Nel materialismo romantico le assenze diventano decise carezze, e sapienti avvicinamenti spudorati. Si sa che si deve parecchio insistere col sesso, in modo non allegorico o simbolico, bensì in forma di lettere scure sui fondi di carta di riso, e di incisioni su muri di milioni di piante addossate di papiro. Si deve insistere, per strappare al pensiero l’idea che tutti hanno della sua  sospettabile natura d’essere privo di materia. Per questo ci si inventano le parole staccandone il disegno dal papiro, appunto, dal bassorilievo e dalla pergamena, oppure dalla pittura murale, dai cunei sull’argilla. Leggiamo con gesti amorosi, pensando tutto ciò che c’è da pensare, per decifrare quanto scritto, ma anche contemporaneamente pensando ‘ …sei tu i cunei fatti con la sottile paletta di osso bianco liscio sei tu il conteggio dei sacchi di grano e il racconto delle battaglie vinte e la cifra suggerita per dire i nemici fatti servi portatori di macerie e tesori -la stessa cosa in fondo….’ Penso sempre il mondo e nello stesso momento penso anche ciò che sei, e per necessità di conoscenza scrivo in me il pensiero che poi posso segnare sulla carta, sotto forma di un disegno di tratti corrispondenti a gesti di arrendevolezza. La precarietà del pensiero, tutto quanto mi si fa incontro, la tua imprevedibile meteorologia, così come l’incomprensione quasi totale che ho maturato per le cose dello spirito, mi permettono di pensare il mondo e realizzare la gioia di una vita affettiva della quale è paradigma e scenario una decisiva attività di esistenza soggettiva, che mi porta alle foglie leggere, agli aerei nei grandi capannoni, alle barche restituite con la chiglia appoggiata alla spiaggia col mare lontano anche se non si sa mai, alle inquadrature di singoli volti o di figure secondarie quando sembra che la natura sia tutto, quando la natura piena lo schermo come a dire che noi siamo niente, anche se noi proprio siamo sicuri invece che non è vero che noi siamo niente al cospetto della natura e che anzi noi siamo tutto, quasi tutto, un tutto che ha esigenza della costanza di essere sempre ridefinito da ‘te’. Te spesso ti penso per rendermi legittimo questo cercare la cosa che lega la biologia rossa di sangue al vento impetuoso e incolore, le chiglie delle navi inclinate al senso della bellezza che deriva loro dalla loro distanza dalla linea di costa, l’idea di alcuni aerei di leggero fasciame di legno di nave quando stanno allineati e pronti in enormi costruzioni di cemento chiaro. Te, spesso -sempre- ti cerco, a tua insaputa, quando penso di cercare e anche di scoprire da dove deriva tutta quella possibilità di aggiungere continuamente elementi umani alle cose che stanno là fuori – cose costruite da noi o luoghi che abbiamo scelto. So che io spesso non sono altro che uno che cerca e pensa ed ha una vita psichica a tua insaputa e all’insaputa di tutti, e so che comunque noi esistiamo sempre un poco dietro le quinte delle nostre più appassionate storie, che poeticamente vorrei dire esistiamo in una estesa infinita linea di costa e penso che la bellezza della nostra esistenza sta nel riuscire a distendere su quella linea tutti i perché cui non siamo riusciti a trovare una patria, quel nostro essere un attimo in anticipo sulle nostre domande, tutto quell’essere sempre all’insaputa gli uni degli altri, e tutto quel chiamare amore la richiesta di perdono, che rivolgiamo gli uni agli altri, per non essere stati capaci di rinunciare a quel modo di stare al mondo, che proprio quando domanda si ritrae appena, quando quel nostro domandare assume i toni della pellicola che fissa per sempre – ma innocente perché è perché per sempre si possa ripeterne l’espressione impareggiabile – il volto dolcissimo di un adolescente, che è deciso ad aspettare tutto quello che ci sarà da aspettare…..

Per adesso direi che tu sei una grammatica ufficiosa in costante rilegittimazione sintattica che impone continuamente una nuova diversa idea di tempo e mi rende trascurabili gli atteggiamenti assertivi a proposito delle regole del mondo.

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